Nell’immediato
dopoguerra, gli interessi dell’Italia all’emigrazione degli esuberi di
popolazione attiva inoccupata verso la Svizzera e dell’economia svizzera ad
attingere a piene mani al mercato del lavoro italiano erano talmente grandi e
impellenti che non ci furono difficoltà di natura politica o diplomatica
all’espatrio dall’Italia e all’ingresso in Svizzera di centinaia di migliaia di
lavoratori italiani. Inizialmente, per l’Italia, non ci fu
nemmeno bisogno di regolare i flussi migratori con un accordo formale come
aveva fatto con il Belgio e con la Francia. Italia e Svizzera erano Paesi
confinanti e amici fin dal 1861 e oltre che da rapporti di buon vicinato erano
legati da molteplici rapporti economici, finanziari e culturali. Perché allora
si giunse a un accordo migratorio formale nel 1948?
Primi
immigrati: ricercati e benaccetti
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Nel dopoguerra, la Svizzera è stata la principale meta dell'emigrazione italiana. |
Prima di
rispondere a tale domanda è utile ricordare che gli imprenditori svizzeri
avevano in generale una grande stima dei lavoratori italiani, che erano stati i
principali artefici delle grandi opere infrastrutturali (ferrovie e strade) ed
erano conosciuti come particolarmente laboriosi e affidabili. Anche le donne
italiane erano molto apprezzate soprattutto in alcuni rami del terziario e
molto richieste fin dall’autunno del 1945 (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/03/immigrazione-italiana-1950-1970-7-donne.html).
Si aggiunga che i
datori di lavoro si mostravano complessivamente soddisfatti perché i primi
immigrati italiani del dopoguerra erano «selezionati» da loro stessi, nel senso
che molto spesso, per evitare le lungaggini burocratiche italiane, erano
reclutati in Italia da intermediari delle grandi imprese industriali ed edili. Dunque da parte svizzera i
flussi immigratori potevano continuare tranquillamente com’erano iniziati e
proseguiti dal 1945 al 1947.
Probabilmente, anche
dal punto di vista degli immigrati italiani un accordo specifico non sembrava necessario
perché, stando ai documenti diplomatici e alle cronache della stampa, non
esistevano condizioni di particolare criticità nei rapporti tra immigrati e
datori di lavoro e nemmeno tra stranieri e popolazione locale. Alla Legazione
italiana di Berna (Ambasciata dal 1953) venivano segnalati raramente casi significativi
di malcontento o di maltrattamenti. La maggior parte dei reportage di inviati
speciali o corrispondenti dalla Svizzera del periodo in questione erano
particolarmente tranquillizzanti.
Si sa inoltre che dal 1945 fino a buona parte degli anni
Cinquanta i lavoratori italiani, che provenivano allora prevalentemente dal
Nord Italia, erano benaccetti perché le loro professionalità corrispondevano
alle esigenze delle aziende svizzere. Molti di essi venivano dall’industria ed
erano quindi in grado d’integrarsi bene nel mondo del lavoro industriale e
commerciale svizzero. Erano persone che conoscevano il mestiere che svolgevano,
anche perché, contrariamente a quel che molti ancora pensano, gli immigrati del
dopoguerra non erano tutti disoccupati in cerca di un lavoro qualsiasi. Molti
avevano lasciato il lavoro che svolgevano perché attratti dalle migliori
condizioni salariali e di lavoro che venivano loro offerte dalle aziende
svizzere
A questo punto è comprensibile che né i datori di lavoro
svizzeri né le autorità federali sentissero il bisogno di un accordo
d’immigrazione formale tra la Svizzera e l’Italia.
Verso l’accordo del 1948
Fu l’Italia a
chiedere un accordo di emigrazione/immigrazione formale, sebbene a Roma si sapesse
che la Legazione italiana in Svizzera, dapprima sotto la direzione
dell’incaricato d’affari ad interim Alberto Berio e successivamente del
ministro plenipotenziario Egidio Reale, svolgeva un eccellente lavoro
per assicurare «alle comunità italiane nella Confederazione di continuare a
svolgere, secondo le antiche amichevoli tradizioni, la loro proficua attività
nell’interesse dei due Paese» e per intensificare i buoni rapporti tra Svizzera
e Italia. Già il 10 agosto 1945 era riuscita a concludere con la Svizzera un
accordo commerciale, che non poté purtroppo entrare in vigore per la
contrarietà degli Alleati; ciononostante gli scambi andarono intensificandosi.
Si trattava,
com’è facile capire, di una questione non secondaria, che nessuna forza
politica e sindacale sottovalutava. Tanto è vero che i primi governi
repubblicani di coalizione, a guida democristiana, avviarono subito dopo la
conclusione del conflitto negoziati con diversi Paesi interessati per garantire
un’emigrazione assistita. Non fu convenuto alcun accordo formale con la Svizzera
perché, date le buone relazioni bilaterali, non era sembrato necessario.
Motivi
economici e politici
Nel frattempo, il
panorama economico e politico italiano stava mutando radicalmente. La
situazione economica peggiorava. Alla fine del 1946 oltre due milioni di
italiani erano iscritti nelle liste dei disoccupati e appariva necessario
favorire ulteriormente l’emigrazione, soprattutto verso i Paesi vicini. Anche
il quadro politico stava mutando perché, in seguito al deterioramento dei
rapporti tra i partiti, soprattutto tra la Democrazia Cristiana (DC) e il
Partito Comunista Italiano (PCI), e all’adesione dell’Italia al blocco
occidentale, De Gasperi decise di estromettere dalla maggioranza di governo i
comunisti, forse sottovalutando la forte opposizione che il PCI avrebbe
esercitato da quel momento su tutti i governi a guida democristiana, ergendosi
a paladino delle masse operaie e dei lavoratori emigrati.
La Democrazia
Cristiana (DC) evidentemente non era disposta a cedere la difesa delle masse
come pure degli emigrati italiani ai comunisti. Un
primo segnale fu dato già nel 1947, quando il Ministero del lavoro escluse dal
reclutamento degli emigranti le Camere del lavoro, ritenute «spesso
egemonizzate dal PCI», in modo che fosse direttamente il Governo, tramite i
ministeri del lavoro e degli affari esteri, a gestire i contratti di lavoro e
il controllo degli emigrati. Da parte sua, il PCI non mancherà di contrastare
il governo su tutte le questioni importanti riguardanti gli emigrati italiani
in Svizzera.
Un altro motivo della richiesta italiana alla Svizzera di
aprire un negoziato sull’immigrazione dei lavoratori italiani fu senz’altro la
volontà dei governi De Gasperi di attuare l’obbligo costituzionale (art. 35
della Costituzione) di tutela del lavoro italiano all’estero e quindi anche
degli emigrati in Svizzera, che senza un accordo bilaterale sembrava
impossibile.
A questo punto è bene ricordare che probabilmente l’ondata
emigratoria dall’Italia verso la Svizzera dei primi anni del dopoguerra
(153.920 immigrati in due anni su un totale di 364.430 espatri complessivi
dall’Italia nel mondo) aveva dato l’impressione che fosse facile emigrare in
quel Paese. Lo era, in effetti, per certi versi, attraverso il reclutamento
diretto da parte delle imprese svizzere, ma anche aggirando le norme italiane
sull’emigrazione. In entrambi i casi al governo italiano era impedito il
controllo sistematico degli emigrati finalizzato alla loro tutela e sperava di
porvi rimedio mediante un accordo sull’immigrazione con la Svizzera.
Obiettivi e speranze
Per i negoziatori italiani la possibilità concessa alle
imprese svizzere di reclutare il personale di cui avevano bisogno direttamente
in Italia doveva finire. Essa era stata concessa quando i canali burocratici
ordinari erano poco rispondenti alle esigenze dei richiedenti, ma ora lo Stato
intendeva gestire efficacemente tutto il sistema della mediazione nel mercato
del lavoro, attraverso uffici di collocamento da creare almeno nei Comuni più
importanti.
Nelle intenzioni del governo, anche le imprese straniere
dovevano essere assoggettate al regime a cui saranno sottomesse dal 1949 le
imprese italiane. Il datore di lavoro che intendeva assumere più lavoratori
doveva farne richiesta agli uffici competenti indicando il numero e la qualifica
richiesta (la cosiddetta chiamata
numerica). Solo in casi particolari il datore di lavoro poteva inoltrare
una «richiesta nominativa» o addirittura evitare di passare attraverso
l’Ufficio di collocamento.
Attraverso un accordo con la Svizzera nel quale fossero
precisate tutte le procedure del reclutamento e le modalità dei controlli in
uscita e in entrata dei migranti, l’Italia sperava anche di eliminare o almeno
limitare il fenomeno della cosiddetta «emigrazione clandestina», ma
soprattutto di garantire meglio ai lavoratori italiani emigrati le tutele
previste dalla Costituzione e dalle leggi italiane. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 27 marzo 2019
Berna, 27 marzo 2019