27 marzo 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 8. Perché un accordo d’immigrazione con la Svizzera?


Nell’immediato dopoguerra, gli interessi dell’Italia all’emigrazione degli esuberi di popolazione attiva inoccupata verso la Svizzera e dell’economia svizzera ad attingere a piene mani al mercato del lavoro italiano erano talmente grandi e impellenti che non ci furono difficoltà di natura politica o diplomatica all’espatrio dall’Italia e all’ingresso in Svizzera di centinaia di migliaia di lavoratori italiani. Inizialmente, per l’Italia, non ci fu nemmeno bisogno di regolare i flussi migratori con un accordo formale come aveva fatto con il Belgio e con la Francia. Italia e Svizzera erano Paesi confinanti e amici fin dal 1861 e oltre che da rapporti di buon vicinato erano legati da molteplici rapporti economici, finanziari e culturali. Perché allora si giunse a un accordo migratorio formale nel 1948?

Primi immigrati: ricercati e benaccetti
Nel dopoguerra, la Svizzera è stata la principale meta dell'emigrazione italiana.
Prima di rispondere a tale domanda è utile ricordare che gli imprenditori svizzeri avevano in generale una grande stima dei lavoratori italiani, che erano stati i principali artefici delle grandi opere infrastrutturali (ferrovie e strade) ed erano conosciuti come particolarmente laboriosi e affidabili. Anche le donne italiane erano molto apprezzate soprattutto in alcuni rami del terziario e molto richieste fin dall’autunno del 1945 (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/03/immigrazione-italiana-1950-1970-7-donne.html).
Si aggiunga che i datori di lavoro si mostravano complessivamente soddisfatti perché i primi immigrati italiani del dopoguerra erano «selezionati» da loro stessi, nel senso che molto spesso, per evitare le lungaggini burocratiche italiane, erano reclutati in Italia da intermediari delle grandi imprese industriali ed edili. Dunque da parte svizzera i flussi immigratori potevano continuare tranquillamente com’erano iniziati e proseguiti dal 1945 al 1947.
Probabilmente, anche dal punto di vista degli immigrati italiani un accordo specifico non sembrava necessario perché, stando ai documenti diplomatici e alle cronache della stampa, non esistevano condizioni di particolare criticità nei rapporti tra immigrati e datori di lavoro e nemmeno tra stranieri e popolazione locale. Alla Legazione italiana di Berna (Ambasciata dal 1953) venivano segnalati raramente casi significativi di malcontento o di maltrattamenti. La maggior parte dei reportage di inviati speciali o corrispondenti dalla Svizzera del periodo in questione erano particolarmente tranquillizzanti.
Si sa inoltre che dal 1945 fino a buona parte degli anni Cinquanta i lavoratori italiani, che provenivano allora prevalentemente dal Nord Italia, erano benaccetti perché le loro professionalità corrispondevano alle esigenze delle aziende svizzere. Molti di essi venivano dall’industria ed erano quindi in grado d’integrarsi bene nel mondo del lavoro industriale e commerciale svizzero. Erano persone che conoscevano il mestiere che svolgevano, anche perché, contrariamente a quel che molti ancora pensano, gli immigrati del dopoguerra non erano tutti disoccupati in cerca di un lavoro qualsiasi. Molti avevano lasciato il lavoro che svolgevano perché attratti dalle migliori condizioni salariali e di lavoro che venivano loro offerte dalle aziende svizzere
A questo punto è comprensibile che né i datori di lavoro svizzeri né le autorità federali sentissero il bisogno di un accordo d’immigrazione formale tra la Svizzera e l’Italia.

Verso l’accordo del 1948
Fu l’Italia a chiedere un accordo di emigrazione/immigrazione formale, sebbene a Roma si sapesse che la Legazione italiana in Svizzera, dapprima sotto la direzione dell’incaricato d’affari ad interim Alberto Berio e successivamente del ministro plenipotenziario Egidio Reale, svolgeva un eccellente lavoro per assicurare «alle comunità italiane nella Confederazione di continuare a svolgere, secondo le antiche amichevoli tradizioni, la loro proficua attività nell’interesse dei due Paese» e per intensificare i buoni rapporti tra Svizzera e Italia. Già il 10 agosto 1945 era riuscita a concludere con la Svizzera un accordo commerciale, che non poté purtroppo entrare in vigore per la contrarietà degli Alleati; ciononostante gli scambi andarono intensificandosi.
La richiesta italiana di avviare un negoziato con la Svizzera fu dettata essenzialmente, come si vedrà appresso, da motivazioni di politica interna. Nel dopoguerra, come si è visto (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/02/immigrazione-italiana-1950-1970-3-la.html), si considerava l’emigrazione una necessità dovuta all’impossibilità di garantire la piena occupazione. Senza di essa i rischi di conflitti sociali sarebbero stati altissimi e la ripresa economica sarebbe stata compromessa. In questa ottica ne aveva parlato fin dal 1946 l’allora capo del governo Alcide De Gasperi e ne aveva discusso la Costituente. In effetti si decise di inserire la «libertà di emigrazione» e la «tutela del lavoro italiano all’estero» nella Costituzione al Titolo III riguardante i «Rapporti economici».
Si trattava, com’è facile capire, di una questione non secondaria, che nessuna forza politica e sindacale sottovalutava. Tanto è vero che i primi governi repubblicani di coalizione, a guida democristiana, avviarono subito dopo la conclusione del conflitto negoziati con diversi Paesi interessati per garantire un’emigrazione assistita. Non fu convenuto alcun accordo formale con la Svizzera perché, date le buone relazioni bilaterali, non era sembrato necessario.
Motivi economici e politici
Nel frattempo, il panorama economico e politico italiano stava mutando radicalmente. La situazione economica peggiorava. Alla fine del 1946 oltre due milioni di italiani erano iscritti nelle liste dei disoccupati e appariva necessario favorire ulteriormente l’emigrazione, soprattutto verso i Paesi vicini. Anche il quadro politico stava mutando perché, in seguito al deterioramento dei rapporti tra i partiti, soprattutto tra la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito Comunista Italiano (PCI), e all’adesione dell’Italia al blocco occidentale, De Gasperi decise di estromettere dalla maggioranza di governo i comunisti, forse sottovalutando la forte opposizione che il PCI avrebbe esercitato da quel momento su tutti i governi a guida democristiana, ergendosi a paladino delle masse operaie e dei lavoratori emigrati.
La Democrazia Cristiana (DC) evidentemente non era disposta a cedere la difesa delle masse come pure degli emigrati italiani ai comunisti. Un primo segnale fu dato già nel 1947, quando il Ministero del lavoro escluse dal reclutamento degli emigranti le Camere del lavoro, ritenute «spesso egemonizzate dal PCI», in modo che fosse direttamente il Governo, tramite i ministeri del lavoro e degli affari esteri, a gestire i contratti di lavoro e il controllo degli emigrati. Da parte sua, il PCI non mancherà di contrastare il governo su tutte le questioni importanti riguardanti gli emigrati italiani in Svizzera.
Un altro motivo della richiesta italiana alla Svizzera di aprire un negoziato sull’immigrazione dei lavoratori italiani fu senz’altro la volontà dei governi De Gasperi di attuare l’obbligo costituzionale (art. 35 della Costituzione) di tutela del lavoro italiano all’estero e quindi anche degli emigrati in Svizzera, che senza un accordo bilaterale sembrava impossibile.
A questo punto è bene ricordare che probabilmente l’ondata emigratoria dall’Italia verso la Svizzera dei primi anni del dopoguerra (153.920 immigrati in due anni su un totale di 364.430 espatri complessivi dall’Italia nel mondo) aveva dato l’impressione che fosse facile emigrare in quel Paese. Lo era, in effetti, per certi versi, attraverso il reclutamento diretto da parte delle imprese svizzere, ma anche aggirando le norme italiane sull’emigrazione. In entrambi i casi al governo italiano era impedito il controllo sistematico degli emigrati finalizzato alla loro tutela e sperava di porvi rimedio mediante un accordo sull’immigrazione con la Svizzera.

Obiettivi e speranze
Per i negoziatori italiani la possibilità concessa alle imprese svizzere di reclutare il personale di cui avevano bisogno direttamente in Italia doveva finire. Essa era stata concessa quando i canali burocratici ordinari erano poco rispondenti alle esigenze dei richiedenti, ma ora lo Stato intendeva gestire efficacemente tutto il sistema della mediazione nel mercato del lavoro, attraverso uffici di collocamento da creare almeno nei Comuni più importanti.
Nelle intenzioni del governo, anche le imprese straniere dovevano essere assoggettate al regime a cui saranno sottomesse dal 1949 le imprese italiane. Il datore di lavoro che intendeva assumere più lavoratori doveva farne richiesta agli uffici competenti indicando il numero e la qualifica richiesta (la cosiddetta chiamata numerica). Solo in casi particolari il datore di lavoro poteva inoltrare una «richiesta nominativa» o addirittura evitare di passare attraverso l’Ufficio di collocamento.
Attraverso un accordo con la Svizzera nel quale fossero precisate tutte le procedure del reclutamento e le modalità dei controlli in uscita e in entrata dei migranti, l’Italia sperava anche di eliminare o almeno limitare il fenomeno della cosiddetta «emigrazione clandestina», ma soprattutto di garantire meglio ai lavoratori italiani emigrati le tutele previste dalla Costituzione e dalle leggi italiane. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 27 marzo 2019