Se si chiedesse
in un semplice sondaggio: chi sono stati i primi immigrati del dopoguerra, la
risposta ovvia comincerebbe così: «i primi immigrati sono stati…», pur sapendo (cfr.
articolo precedente del 6 marzo) che i primi immigrati sono state 300
donne della Valtellina. Si sa che nell’Ottocento e nel secolo scorso emigravano non solo uomini
ma anche donne, eppure nelle narrazioni dell’emigrazione italiana si usano
quasi esclusivamente sostantivi maschili, quasi che gli «emigrati», gli
«immigrati», gli «italiani all’estero», i «lavoratori» fossero solo uomini. Difetto
solo lessicale?
Insensibilità e
disinformazione
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Omaggio a tutte le donne, immigrate e non! |
Quando però si
racconta l’emigrazione italiana, l’uso quasi esclusivo del maschile non indica
solo una carenza di linguaggio appropriato, ma anche una carenza di conoscenza e
di sensibilità e forse anche una forma di sottovalutazione del ruolo delle
donne emigrate.
Raramente,
soprattutto nelle narrazioni sull’emigrazione italiana del secondo dopoguerra,
si ricorda che furono le donne a emigrare per prime e che le donne italiane
immigrate in Svizzera sono state maggioritarie fino all’immigrazione di massa
della fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Nel 1950 le donne italiane
erano 77.423, i maschi italiani 62.835. Nel 1960 gli uomini presero il
sopravvento: 217.428 contro 128.795. Da allora le donne sono state considerate
meno protagoniste e forse meno importanti degli uomini.
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«Si pensava di restare poco», film del 2004 |
Le donne sono
state sempre in prima linea nelle lotte contro la discriminazione, l’intolleranza,
i soprusi, la violenza nei confronti degli stranieri (per esempio, durante i
tumulti di Berna e Zurigo del 1893 e 1896, durante gli scioperi e le
manifestazioni pubbliche), hanno valorizzato l’associazionismo non solo quello
assistenziale, ma anche quello formativo e culturale, sono state collaboratrici
generose delle Missioni cattoliche italiane quando queste erano punti di
riferimento importanti per moltissimi immigrati, anche per i rapporti con le
autorità. E poi, come non ricordare le numerose suore, sempre
presenti a fianco dei missionari, come «angeli custodi» degli immigrati
italiani e delle loro famiglie, per sostenerli e aiutarli soprattutto là dove maggiore era il bisogno!(cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2011/10/le-suore-angeli-custodi-degli-emigrati.html).
Sottovalutazione
del ruolo delle donne
Che la narrazione
dell’emigrazione italiana, almeno di quella in Svizzera, sia manchevole e forse
ingiusta nei confronti delle donne lo dimostra non solo il fatto che se ne
parli ancora poco, ma anche il parlarne mettendo in evidenza più aspetti
negativi che virtù. Di molte donne italiane immigrate a cavallo tra Ottocento e
Novecento si diceva che erano rozze, sporche, incolte e analfabete, ma non che
si sacrificavano per la famiglia, che risparmiavano per mandare i soldi a casa
e che molte si davano da fare per imparare oltre che a leggere e a scrivere
anche un mestiere.
Spesso gli
immigrati celibi o sposati ma non accompagnati dalla famiglia venivano
considerati dei poveri disgraziati perché erano «uomini senza donne», per
cui risultava comprensibile che questa
condizione li trasformasse in persone «normali», che non disdegnavano il
divertimento, le avventure sentimentali e persino l’infedeltà coniugale e il
concubinato. Delle donne nubili si pensava invece facilmente che fossero poco
serie, mentre delle mogli rimaste nel paese (povere «vedove bianche»!) si
diceva che sollevavano «questioni morali preoccupanti» (Gabaccia).
Oggi per fortuna la considerazione delle donne immigrate è
cambiata, anche perché dal dopoguerra in poi la loro evoluzione è stata un
continuo avanzamento non tanto nelle organizzazioni degli immigrati (dove il
maschilismo è ancora predominante), quanto nella società, nel mondo delle
professioni, nella scuola, nella cultura, nella politica.
Giovanni Longu
Berna, 8 marzo 2019
Berna, 8 marzo 2019
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