Negli articoli precedenti, trattando delle problematiche relative alla seconda generazione nel periodo 1970-1990, si è accennato alle difficoltà che hanno incontrato i giovani stranieri al termine della scolarità obbligatoria nella scelta professionale. Per molti di essi non è stato facile né scegliere tra proseguire gli studi e apprendere un mestiere, né decidersi, nel passo successivo, cosa studiare o quale mestiere imparare. Gli aiuti esterni per operare una scelta conforme ai propri desideri e alle proprie capacità erano scarsi e spesso non tenevano conto che i figli degli stranieri, anche quando dovevano superare non poche difficoltà legate alla bassa scolarizzazione e all'ambiente sociale dei genitori, avevano in generale una straordinaria volontà di riuscita. Rievocare quell'epoca e quelle difficoltà aiuta a capire meglio non solo il fenomeno molto complesso della seconda generazione, ma anche la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera negli ultimi decenni del secolo scorso.
Precisazioni doverose
Teoria e pratica combinate, per giovani e adulti, nella formazione professionale al Cisap di Berna (anni ’70) |
Questa precisazione serve non solo a far capire che la
popolazione di giovani di cui si sta parlando era molto eterogenea, con
problematiche spesso assai diverse, ma anche ad evidenziare che negli anni
Settanta non esistevano ancora strutture di consulenza e di aiuto adeguate alle
esigenze. Questo spiega, almeno in parte, le difficoltà incontrate e spesso non
superate da numerosi giovani stranieri nella scelta dell’apprendistato, che in
molti casi probabilmente non corrispondeva alle reali possibilità degli
interessati.
A questo punto occorre anche precisare che tradizionalmente,
in Svizzera, il sistema «duale» di formazione professionale (pratica in azienda
e teoria a scuola) è molto sviluppato, ma anche molto pretenzioso, perché deve
soddisfare oltre ai desideri personali i bisogni di un’economia in costante
trasformazione, che vuol essere competitiva e innovativa. Per disporre sempre
di personale adeguato, le condizioni poste a chi si appresta a seguire un
apprendistato sono pertanto severe, specialmente per chi non può esibire, come
nel caso di molti stranieri, risultati scolastici di buon livello.
Per aiutare i giovani in questa difficile scelta esiste da decenni
un apposito servizio pubblico di orientamento professionale, ritenuto
solitamente utile. Nei confronti dei giovani della seconda generazione, però,
nel periodo in esame (1970-1990), non sempre ha saputo tener conto delle
effettive capacità degli interessati, dando probabilmente troppo peso alle
prestazioni scolastiche e scarsa importanza alle capacità di ricupero e alle
motivazioni dei giovani stranieri.
Preoccupazioni per il futuro
Da queste premesse
sarebbe un errore dedurre che i giovani stranieri fossero sistematicamente
trascurati, anche se circostanze varie e soprattutto le prestazioni scolastiche
e lo scarso aiuto dell’ambiente familiare hanno fatto sì che molti di essi non
fossero indirizzati verso apprendistati (mestieri) più confacenti alle loro
possibilità. D’altra parte, gli orientatori professionali di allora non erano
in grado di valutare l’adeguatezza delle loro proposte in funzione dei
desideri, delle possibilità e dei progetti di vita dei richiedenti il loro
consiglio, perché erano abituati a verificare soprattutto la compatibilità
(presunta) tra i risultati scolastici e la professione consigliata.
Formazione professionale per tutti, uomini e donne, un imperativo degli anni ’70 e ’80 (allievi Cisap). |
Infatti, nessuno (a
parte qualche xenofobo incallito) s’illudeva, nella seconda metà degli anni
Settanta, che gli italiani rientrati a seguito della crisi economica potessero
essere sostituiti dai giovani della seconda generazione rimasti in Svizzera e
da quelli che continuavano ad arrivare per il ricongiungimento familiare
previsto dalla normativa in vigore. Tanto più che l’andamento dell’economia
esigeva personale sempre più qualificato, mentre quello partito in gran parte
non lo era.
A questa
considerazione se ne deve aggiungere un’altra di natura demografica. Dalla
seconda metà degli anni Sessanta si cominciò ad osservare una costante
diminuzione delle nascite, accentuatasi nel decennio successivo con la partenza
in seguito alla crisi economica di numerose famiglie straniere notoriamente con
molti più bambini di quelle svizzere. Per evitare un possibile squilibrio
intergenerazionale la soluzione più opportuna non poteva che essere una
politica chiara e lungimirante d’integrazione della seconda generazione.
Politica d’integrazione necessaria
In alcuni osservatori,
la preoccupazione della denatalità nasceva dalla costatazione della
contemporanea tendenza dell’invecchiamento della popolazione e dal rischio che
la diminuzione delle nascite e poi delle persone attive potesse mettere in
crisi il sistema delle assicurazioni sociali. Alla fine del decennio la
preoccupazione divenne seria perché tra il 1964 e il 1978 il numero delle nascite era diminuito di oltre
il 25 per cento.
Poiché le conseguenze
per le assicurazioni sociali avrebbero potuto essere drammatiche se fosse
diminuita ulteriormente l’attività economica degli stranieri con altre
partenze, il Consiglio federale era sempre più convinto della necessità di
un’efficace politica d’integrazione professionale soprattutto della seconda
generazione. Per questo, fin dal 1973, sosteneva la necessità di «offrire agli stranieri uguali possibilità per quel che concerne la
scuola, la formazione professionale, la casa».
In un Messaggio del
1978, il Consiglio federale, riconoscendo che «l'integrazione
sociale e l'esercizio dei diritti riconosciuti agli stranieri sono spesso
intralciati dal fatto che gli interessati non conoscono sufficientemente le
nostre lingue, non dispongono di una formazione di base e patiscono delle
differenze socio-culturali tra il loro Paese d'origine e il nostro» ne indicava
così la soluzione: «ebbene, occorre rimediare a questo stato di cose. Ragioni
d'ordine umano, sociale ed economico esigono infatti che si faciliti e promuova
l'integrazione degli stranieri nel loro ambiente di lavoro e nella nostra
comunità. Un isolamento della popolazione straniera in seno alla popolazione
autoctona non può, a lungo termine, ch'essere pregiudizievole per ambedue».
Anni più tardi, nel
1990, parlando dei giovani stranieri, il presidente della Confederazione Arnold
Koller affermò chiaramente che «questi giovani devono poter realizzarsi entro l'ambito di due culture, quella
svizzera e quella dei genitori. La ricerca di un posto di lavoro dev'essere
facilitata loro nel segno della parità d'opportunità». La formazione
professionale era un imperativo valido anche per gli stranieri.
Ottimismo del Consiglio federale
Nel periodo in esame non c’erano dubbi: una buona integrazione non
poteva fare a meno di una buona scolarizzazione e di una solida formazione professionale
di base. Soprattutto nel Consiglio federale regnava un certo ottimismo sulla
loro efficacia e sulle possibilità di riuscita, anche se nessuno era in grado
di prevederne tempi e modi. Per il governo, però, l’ottimismo era fondato. Secondo
il consigliere federale Koller, già in passato «molti [lavoratori stranieri venuti nel nostro Paese]
hanno saputo migliorare le loro conoscenze professionali, parecchi sono
divenuti essi stessi imprenditori» e negli anni Settanta e Ottanta gli svizzeri
sono riusciti a integrare un numero rilevante di cittadini stranieri,
rispondendo all'enorme sfida «con un impegno massiccio».
La strada, tuttavia, non sarebbe stata comunque facile perché non solo la scuola svizzera era molto
esigente e selettiva, ma lo era pure la formazione professionale. Fra l’altro,
a riguardo dell’una e dell’altra, negli anni Settanta e Ottanta c’erano ancora,
anche tra gli italiani, alcuni pregiudizi e incertezze difficili da superare. In
realtà, furono diverse le ragioni che rallentarono la piena implementazione
della politica d’integrazione del Consiglio federale nel campo della formazione
professionale. Per contare i maggiori risultati bisognerà attendere il periodo
successivo, ma già in quello in esame molti segnali giustificavano l’ottimismo.
(Segue)
Berna, 8
dicembre 2021
Giovanni Longu