24 maggio 2017

Italiani in Svizzera: 17. Il pericolo comunista nel dopoguerra



Nel secondo dopoguerra, per salvaguardare il benessere raggiunto e le possibilità di accrescerlo da possibili rischi legati alla presenza di stranieri, la Svizzera rafforzò le misure non solo contro l’«inforestierimento», ma anche contro il pericolo comunista. L’avversione al comunismo si era diffusa in ampi strati della popolazione dopo lo sciopero generale del 1918 e si era accentuata negli anni 1930-40, durante e dopo la seconda guerra mondiale, ma soprattutto dopo la presa del potere dei comunisti in Cecoslovacchia (1948) e la repressione della rivolta ungherese da parte dell’Unione Sovietica (1956). Gli influssi sull’immigrazione italiana in Svizzera furono rilevanti e meritano pertanto qualche considerazione.

Comunismo e sicurezza nazionale
Il PC, poi PdL, non superò mai il 3% di consenti, eppure
era ritenuto da gran parte degli svizzeri molto pericoloso.
Anzitutto mi sembra giusto ricordare che la Svizzera è sempre stata accogliente nei confronti dei rifugiati politici e sul suo territorio sono approdati socialisti, anarchici, pacifisti, utopisti, comunisti, ecc. ma non ha mai tollerato la propaganda politica che poteva rappresentare un pericolo per la sicurezza interna ed esterna del Paese. Per questo, fin dal 1848, la Confederazione si è riservata il diritto di espellere chiunque fosse o apparisse pericoloso per la sicurezza dello Stato e ne ha fatto uso in più occasioni, anche nei confronti di rifugiati e immigrati italiani.
Durante il fascismo, è noto che numerosi fuorusciti trovarono rifugio in Svizzera. Al Cantone Ticino che chiedeva istruzioni a Berna su come comportarsi di fronte al loro numero in forte crescita, nel 1926 il Dipartimento politico federale rispose di continuare ad accoglierli, ricordando però che la concessione dell’asilo da parte di uno Stato neutrale comportava l’obbligo di astenersi da ogni attività politica che potesse turbare le relazioni fra i due Paesi e quest’obbligo «essenziale» andava osservato «scrupolosamente».
Negli anni 1930-40, quando il Partito comunista della Svizzera (PC), fondato nel 1920, raggiunse il massimo di «pericolosità» (nonostante il suo consenso elettorale esiguo: 2,9%), molti ne chiesero il divieto. Per l’opinione pubblica e specialmente per i partiti borghesi il comunismo era incompatibile con la democrazia.

Provvedimenti anticomunisti
Il Consiglio federale intervenne vietando dapprima (1932) a «chiunque appartenga al partito comunista o partecipi a un’organizzazione comunista» di entrare e restare al servizio della Confederazione. Successivamente (1936) prese provvedimenti «contro le mene comuniste» in Svizzera, introducendo fra l’altro limiti alla partecipazione di oratori stranieri ad assemblee politiche. Infine (1940), dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, decise di vietare la propaganda comunista e lo stesso Partito comunista.
Durante la guerra, nonostante il divieto di fare propaganda politica, molti rifugiati italiani civili e militari di fede socialista e comunista non lo rispettarono completamente, ma le autorità elvetiche si mostrarono tolleranti, forse ritenendo che dopo la guerra sarebbero tutti rientrati in Italia e avrebbero magari rivestito importanti cariche nello Stato con cui la Svizzera non avrebbe potuto fare a meno di collaborare.
Finita la guerra, le autorità federali e cantonali ripresero in pieno la sorveglianza anticomunista soprattutto tra gli immigrati italiani. Infatti, mentre si consideravano definitivamente sconfitte le ideologie nazionalsocialiste e fasciste, si riteneva l’ideologia comunista più che mai vitale e contagiosa, non tanto attraverso il Partito del lavoro, rinato (1944) sulle ceneri dell’abolito PC, quanto piuttosto tramite gli immigrati italiani in quanto provenienti da un Paese dove la diffusione del comunismo sembrava non incontrare ostacoli insormontabili.

Paura di una nuova guerra e del sopravvento dei comunisti
L’atteggiamento apparentemente sorprendente delle autorità svizzere si spiega con la preoccupazione, assai diffusa durante la guerra fredda, che potesse scoppiare un nuovo conflitto tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. Il pericolo di una guerra, ritenuta inevitabile dagli americani, era percepito non solo dalla Svizzera, ma anche da altri Paesi europei, fra cui l’Italia.
Soprattutto dopo la presa del potere dei comunisti in Cecoslovacchia (febbraio 1948), il Consiglio federale decide di seguire più da vicino l’evolvere della situazione, ma di non stare solo a guardare. Era preoccupato soprattutto di quel che avrebbe potuto accadere nei Paesi vicini, come risulta fra l’altro da una lettera del capo del Dipartimento politico Max Petitpierre all’ambasciatore svizzero in Francia del 23.2.1948. In essa il ministro si disse molto preoccupato per la situazione politica europea «precaria e angosciante» e per la tenuta della Francia e dell’Italia, che riteneva prede «troppo facili» del comunismo. Considerava pertanto un interesse della Svizzera cercare «a qualunque prezzo» di evitarlo. E’ possibile che la stretta sorveglianza dei comunisti italiani in Svizzera facesse parte del «prezzo». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 24.5.2017