Nel secondo
dopoguerra, per salvaguardare il benessere raggiunto e le possibilità di
accrescerlo da possibili rischi legati alla presenza di stranieri, la Svizzera rafforzò
le misure non solo contro l’«inforestierimento», ma anche contro il pericolo
comunista. L’avversione al comunismo si era diffusa in ampi strati della
popolazione dopo lo sciopero generale del 1918 e si
era accentuata negli anni 1930-40, durante e dopo la seconda guerra mondiale,
ma soprattutto dopo la presa del potere dei comunisti in Cecoslovacchia (1948)
e la repressione della rivolta ungherese da parte dell’Unione Sovietica (1956).
Gli influssi sull’immigrazione italiana in Svizzera furono rilevanti e meritano
pertanto qualche considerazione.
Comunismo e
sicurezza nazionale
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Il PC, poi PdL, non superò mai il 3% di consenti, eppure era ritenuto da gran parte degli svizzeri molto pericoloso. |
Anzitutto mi sembra
giusto ricordare che la Svizzera è sempre stata accogliente nei confronti dei
rifugiati politici e sul suo territorio sono approdati socialisti, anarchici,
pacifisti, utopisti, comunisti, ecc. ma non ha mai tollerato la propaganda
politica che poteva rappresentare un pericolo per la sicurezza interna ed
esterna del Paese. Per questo, fin dal 1848, la Confederazione si è riservata
il diritto di espellere chiunque fosse o apparisse pericoloso per la sicurezza
dello Stato e ne ha fatto uso in più occasioni, anche nei confronti di
rifugiati e immigrati italiani.
Durante il fascismo, è
noto che numerosi fuorusciti trovarono rifugio in Svizzera. Al Cantone Ticino che
chiedeva istruzioni a Berna su come comportarsi di fronte al loro numero in
forte crescita, nel 1926 il Dipartimento politico federale rispose di
continuare ad accoglierli, ricordando però che la concessione dell’asilo da
parte di uno Stato neutrale comportava l’obbligo di astenersi da ogni attività
politica che potesse turbare le relazioni fra i due Paesi e quest’obbligo «essenziale»
andava osservato «scrupolosamente».
Negli anni 1930-40,
quando il Partito comunista della Svizzera (PC), fondato nel 1920, raggiunse il
massimo di «pericolosità» (nonostante il suo consenso elettorale esiguo: 2,9%),
molti ne chiesero il divieto. Per l’opinione pubblica e specialmente per i
partiti borghesi il comunismo era incompatibile con la democrazia.
Provvedimenti
anticomunisti
Il Consiglio federale intervenne
vietando dapprima (1932) a «chiunque appartenga al partito comunista o
partecipi a un’organizzazione comunista» di entrare e restare al servizio della
Confederazione. Successivamente (1936) prese provvedimenti «contro le mene
comuniste» in Svizzera, introducendo fra l’altro limiti alla partecipazione di
oratori stranieri ad assemblee politiche. Infine (1940), dopo lo scoppio della
seconda guerra mondiale, decise di vietare la propaganda comunista e lo stesso
Partito comunista.
Durante la
guerra, nonostante il divieto di
fare propaganda politica, molti rifugiati italiani civili e militari di fede socialista
e comunista non lo rispettarono completamente, ma le autorità elvetiche si
mostrarono tolleranti, forse ritenendo che dopo la guerra sarebbero tutti
rientrati in Italia e avrebbero magari rivestito importanti cariche nello Stato
con cui la Svizzera non avrebbe potuto fare a meno di collaborare.
Finita la guerra, le
autorità federali e cantonali ripresero in pieno la sorveglianza anticomunista
soprattutto tra gli immigrati italiani. Infatti, mentre si consideravano
definitivamente sconfitte le ideologie nazionalsocialiste e fasciste, si
riteneva l’ideologia comunista più che mai vitale e contagiosa, non tanto
attraverso il Partito del lavoro, rinato (1944) sulle ceneri dell’abolito PC,
quanto piuttosto tramite gli immigrati italiani in quanto provenienti da un Paese
dove la diffusione del comunismo sembrava non incontrare ostacoli
insormontabili.
Paura di una nuova
guerra e del sopravvento dei comunisti
L’atteggiamento
apparentemente sorprendente delle autorità svizzere si spiega con la
preoccupazione, assai diffusa durante la guerra fredda, che potesse scoppiare un
nuovo conflitto tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. Il pericolo di una guerra,
ritenuta inevitabile dagli americani, era percepito non solo dalla Svizzera, ma
anche da altri Paesi europei, fra cui l’Italia.
Soprattutto dopo la presa
del potere dei comunisti in Cecoslovacchia (febbraio 1948), il Consiglio
federale decide di seguire più da vicino l’evolvere della situazione, ma di non
stare solo a guardare. Era preoccupato soprattutto di quel che avrebbe potuto
accadere nei Paesi vicini, come risulta fra l’altro da una lettera del capo del
Dipartimento politico Max Petitpierre all’ambasciatore svizzero in Francia del 23.2.1948. In essa il ministro
si disse molto preoccupato per la situazione politica europea «precaria e
angosciante» e per la tenuta della Francia e dell’Italia, che
riteneva prede «troppo facili» del comunismo. Considerava pertanto un interesse
della Svizzera cercare «a qualunque prezzo» di evitarlo. E’ possibile che la
stretta sorveglianza dei comunisti italiani in Svizzera facesse parte del «prezzo».
(Segue)
Giovanni Longu
Berna, 24.5.2017
Berna, 24.5.2017