27 febbraio 2013

1° marzo 1963: svolta nella politica immigratoria svizzera


L’immigrazione dall’Italia verso la Svizzera, ridotta a poche centinaia di persone l’anno durante la guerra, riprese vigore al termine delle operazioni belliche, per la congiunzione di tre fattori fondamentali: la grave crisi occupazionale italiana, soprattutto al nord, la forte ripresa congiunturale dell’economia svizzera e la politica immigratoria liberale delle autorità federali.

Per far fronte alle crescenti esigenze dell’economia svizzera, venivano reclutati ogni anno in Italia decine di migliaia di lavoratori, praticamente senza restrizioni da parte delle autorità federali. I permessi di lavoro e le autorizzazioni di soggiorno venivano rilasciati con grande facilità. In meno di quindici anni, dal 1946 al 1960, sono espatriati in Svizzera almeno una volta per motivi di lavoro oltre un milione e mezzo di italiani, gran parte dei quali, tuttavia, successivamente rimpatriati (fonte ISTAT). Nello stesso periodo, la popolazione italiana residente è passata da meno di centomila a ben 346.223 persone, senza contare il numero di stagionali, oscillante tra 100 e 200 mila persone l’anno, ininfluenti sulla statistica della popolazione residente.

Fabbisogno crescente di manodopera
A distanza di oltre cinquant'anni, credo che sia difficile per chiunque, anche per gli stessi protagonisti di allora, rendersi conto sia del fabbisogno svizzero di manodopera estera nel dopoguerra fino agli inizi degli anni ’60 e sia dei movimenti in entrata e in uscita dei lavoratori immigrati. Per averne un’idea, bisogna anzitutto ricordare che dalla fine della guerra tutte le industrie svizzere producevano pressoché al massimo delle loro capacità e le prospettive di sviluppo, dopo alcune incertezze iniziali, erano positive.
Per garantire anche in futuro i prodotti sempre più richiesti dalla società dei consumi che si stava profilando, le industrie avevano bisogno sia di grandi quantità di energia e sia di infrastrutture stradali efficienti, in aggiunta a quelle ferroviarie già disponibili, per la distribuzione dei prodotti. Inoltre, la popolazione crescente e sempre più benestante aveva enorme bisogno di nuove infrastrutture residenziali (abitazioni), commerciali (fabbriche, negozi, supermercati, ecc.) e pubbliche (scuole, asili, ospedali, alberghi, chiese, uffici, ecc.).
Per far fronte a tutte queste esigenze, occorreva uno sforzo enorme da parte di enti pubblici e privati, che si tradusse in un gigantesco cantiere che si estendeva praticamente su tutto il territorio nazionale. In pratica si lavorava e si costruiva ovunque. E’ facile comprendere, a questo punto, l’esigenza di una quantità crescente di manodopera, che non poteva essere solo quella locale, ma anche straniera. Soprattutto nei primi decenni del dopoguerra questa proveniva soprattutto dall'Italia.

Italiani soprattutto e dappertutto
In quel periodo vennero costruite imponenti dighe per la creazione di bacini di accumulazione in alta montagna in modo da sfruttare l’acqua della fusione dei ghiacciai e fornire regolarmente l’energia necessaria all'industria e ai trasporti. Era l’epopea delle grandi dighe e delle imponenti centrali idroelettriche. In tutti i grandi cantieri gli italiani erano presenti in gran numero.
Diga di Mauvoisin / Vallese
Una buona parte delle oltre duecento grandi dighe presenti in Svizzera sono state terminate o iniziate negli anni ’50. A titolo di esempio si possono ricordare quelle di Cleuson/Vallese (1946-1951), Salanfe/Vallese (1947-1952), Räterischsboden/Berna (1948-1950), Palagnedra/Ticino (1950-1952), Sambuco/Ticino (1951-1956), Mauvoisin/Vallese (1951-1958), che con i suoi 237 m di altezza, alla sua entrata in funzione, era la diga in cemento più alta del mondo, un record che dovrà cedere pochi anni più tardi alla Grande Dixence/Vallese (1951-1961), la diga più alta del mondo a gravità in cemento (285 metri), Vieux-Emosson/Vallese (1952-1955), Zeuzier/Vallese (1954-1957), Moiry/Vallese (1954-1958), Albigna/Grigioni (1955-1959), Les Toulles/Vallese (1958-1963), Luzzone/Ticino (1958-1963), ecc.
Altri lavoratori italiani erano adibiti alla costruzione di nuove arterie di traffico e al miglioramento di quelle esistenti. Nel 1962 venne inaugurato nella zona di Grauholz, vicino a Berna, il primo tratto della «Nazionale 1» (N1), destinata ad attraversare la Svizzera da Ginevra al Lago di Costanza. Nel 1963 venne terminata la tratta Losanna – Ginevra, giusto in tempo per accogliere i visitatori dell’esposizione nazionale di Losanna. Gli anni Sessanta e Settanta hanno conosciuto una sorta di euforia per la costruzione di strade, autostrade e tunnel (si pensi a quelli sotto il Gran San Bernardo tra la Svizzera e l’Italia, al tunnel del Bernina e soprattutto a quello di ben 17 km sotto il San Gottardo). Dovunque ci sono italiani all’opera.
Moltissimi italiani erano inoltre attivi nell’edilizia residenziale, commerciale, industriale e pubblica. Tutte le grandi città svizzere si rinnovavano e ingrandivano per far fronte alle nuove esigenze di una popolazione in forte crescita, anche in seguito all’immigrazione e al benessere, e costantemente bisognosa di nuove abitazioni.

Reazioni xenofobe
Per avere un’idea dei flussi di lavoratori stagionali che arrivavano in primavera e rientravano all’inizio dell’inverno basti pensare che per alcune settimane transitavano alla frontiera con l’Italia fino a cinque mila stagionali al giorno. Benché l’Italia vivesse in quegli anni (1959-1963) un boom economico mai conosciuto fino ad allora, con tassi d’incremento del prodotto interno lordo eccezionali, nello stesso periodo la Svizzera richiamava ancora decine di migliaia di lavoratori italiani.
Gli italiani costituivano nel 1960 circa il 60% degli stranieri residenti e una percentuale ben più alta conteggiando gli stagionali e i frontalieri. Si calcola che nel 1960 fossero presenti in Svizzera complessivamente circa mezzo milione di italiani.
La Svizzera, tuttavia, non era allora un modello di accoglienza e gli immigrati, soprattutto gli italiani, erano benvenuti solo per il lavoro che svolgevano, praticamente rifiutato o comunque non ambito dagli svizzeri. Già sul finire degli anni ’50 cominciarono a diffondersi soprattutto nella regione di Zurigo, dove era più massiccia la presenza degli italiani immigrati, i movimenti antistranieri, che si diffonderanno negli anni Sessanta e Settanta in tutta la Svizzera soprattutto di lingua tedesca.
Nel 1961 venne fondato a Winterthur il partito «Nationale Aktion gegen die Überfremdung von Volk und Heimat» (Azione nazionale contro l’inforestieramento del popolo e della patria), che produrrà in seguito le più insidiose iniziative popolari antistranieri all’insegna «la Svizzera agli Svizzeri» e «gli stranieri sono troppi». Vi aderivano soprattutto insegnanti di scuola, operai, piccoli impiegati e contadini.
Nel 1963 si costituì a Zurigo il «Movimento indipendente svizzero per il rafforzamento dei diritti del popolo e della democrazia diretta», chiamato abitualmente «Partito anti-italiano». Alcuni svizzeri cercarono di scatenare, tramite volantini e lettere razziste, in maggioranza anonime, l'odio contro gli stranieri e in particolare gli italiani del Sud. Fortunatamente non ebbe molto seguito, ma contribuì a diffondere il veleno antistranieri.

Forti pressioni sul governo
Occorre anche ricordare, per completare il quadro ambientale di quel periodo, che fin dalla metà degli anni ‘50 il sindacato svizzero chiedeva alle autorità federali di porre un freno all’immigrazione perché, così riteneva, minacciava una contrazione dei salari a danno dei lavoratori (svizzeri) e un aggravamento della penuria degli alloggi. In realtà i sindacati svizzeri erano anche preoccupati della perdita di iscritti. Infatti, con l’arrivo degli stranieri per occupare i posti meno retribuiti della produzione, molti svizzeri abbandonavano le attività di produzione per diventare impiegati e uscire così dal sindacato operaio.
Nel 1963 si stava discutendo il nuovo accordo italo-svizzero di emigrazione in sostituzione di quello superato del 1948. In esso si prevedevano alcuni miglioramenti per i lavoratori italiani, che agli occhi dei movimenti xenofobi sembravano così eccessivi da minacciare, in caso di ratifica dell’accordo, una marcia su Berna.
Di fronte alle pressioni provenienti da ogni parte, esclusa ovviamente quella interessata dell’economia, il Consiglio federale decise di intervenire. Fino ad allora aveva adottato una politica d’immigrazione molto liberale, atta a soddisfare in primo luogo le necessità dell'economia. Ora si trattava di raffreddare il clima che rischiava di arroventarsi, venendo incontro alle richieste sindacali e della maggioranza dei partiti svizzeri e imporre misure volte a diminuire la dipendenza dell’economia dalla manodopera estera, ridurre gradualmente la percentuale di stranieri in Svizzera, frenare le tendenze inflazionistiche (aumento della domanda di alloggi e di beni di consumo e quindi dei prezzi), ma anche dare un segnale di risposta ai movimenti xenofobi, che cominciavano a creare malcontento nel Paese.

La svolta: il contingentamento
Così, il 1° marzo 1963, il Consiglio federale introdusse per la prima volta il «contingentamento» della manodopera estera, per limitare l’immigrazione incontrollata, che cresceva ad un ritmo fino all’11% annuo. Con un’ordinanza venne determinato il numero massimo autorizzato di stranieri per azienda. In questo modo intendeva anche venire incontro alle richieste sindacali e della maggioranza dei partiti svizzeri.
La misura non si rivelerà molto efficace, ma segnò una svolta nella politica federale d’immigrazione, determinando un intervento dello Stato sempre più diretto in materia. Decretò, di fatto, la fine di un lungo periodo d’immigrazione orientata quasi esclusivamente a soddisfare le esigenze dell’economia elvetica. Purtroppo non segnò allo stesso tempo l’avvio di una nuova politica orientata all'integrazione. Per questa si dovrà attendere ancora quasi un decennio.
Giovanni Longu
Berna, 27.02.2013