Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera Schwarzenbach è probabilmente il personaggio più noto. Io stesso ho scritto più volte di lui, ma a differenza di molti che ne scrivono senza averlo conosciuto (intendo personalmente) e senza aver mai avuto la pazienza di leggere i suoi scritti e i suoi principali interventi politici, io l’ho incontrato, ho discusso con lui di immigrati (italiani) e del futuro della Svizzera, ho letto molti suoi interventi, interviste e prese di posizione. Credo pertanto di poter fornire ai lettori qualche considerazione sostenibile sul personaggio, sulla xenofobia di quel periodo a cavallo degli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, sulle condizioni dell’immigrazione (in particolare di quella italiana) e anche sulla nuova politica federale verso gli stranieri successiva alla sconfitta del 1970.
Schwarzenbach e la situazione
Schwarzenbach è considerato da molti immigrati un estremista di destra, xenofobo, razzista, anti-italiano, che negli anni Sessanta reclamava la riduzione del numero di stranieri (da «cacciar via») a danno soprattutto degli immigrati italiani, perché era diffusa l’incertezza sul futuro e la paura dell'«inforestierimento» (Überfremdung). Benché non sia stato lui a creare la xenofobia, come molti ancora credono, in essa trovò un terreno fertile per la diffusione della sua ideologia anti-stranieri e della sua ricetta: ridurre la popolazione immigrata al 10 per cento della popolazione residente complessiva.
Per capirne la portata è bene ricordare, anche in questo anniversario, che nel secondo
dopoguerra, con la ripresa dell’economia e dell’immigrazione in massa dall'Italia,
si ripropose in alcuni ambienti svizzeri il tema dell'inforestierimento. E quando
i dati del censimento della popolazione del 1960 rivelarono che gli stranieri costituivano
oltre il 10 per cento (10,8%) della popolazione complessiva, molti politici,
sindacalisti e lavoratori comuni cominciarono a preoccuparsi, ritenendo fra
l’altro che non fossero rispettate le prescrizioni della legge federale sugli
stranieri del 1931, che obbligavano le autorità a concedere permessi di dimora
(annuale) tenendo conto «degli interessi morali ed economici del Paese nonché
dell’eccesso della popolazione straniera» (art. 16). In effetti sembrava che a
prevalere fossero solo gli interessi economici. Fu allora che Schwarzenbach e
altri sostenitori dei presunti «valori tradizionali» decisero di battersi «per
la protezione della Svizzera».
Purtroppo, il governo federale, debole di fronte allo
strapotere dell’economia (che non si faceva scrupolo di far venire masse di
operai, anche analfabeti, per sfruttarle e rimandarle al loro Paese quando non servivano
più), non potendo intervenire né per rallentare lo sviluppo economico né l’afflusso
di manodopera straniera (e frenare così l'inforestierimento), cercò di
ostacolare il soggiorno prolungato degli stranieri e delle loro famiglie (nel
1969 avevano superato il milione e il tasso di crescita era più rilevante di
quello degli svizzeri) introducendo misure di contingentamento, irrigidendo i
controlli e favorendo la stagionalità dei permessi. Si sa, però, che nonostante
tutte le restrizioni la popolazione straniera continuava a crescere come l’economia
chiedeva.
L’«iniziativa Schwarzenbach»
Detto così sembrerebbe che Schwarzenbach ce l’avesse più con
gli imprenditori e i politici svizzeri che con gli stranieri e non è
un’impressione completamente sbagliata. Ne ebbi conferma durante un incontro
con lui negli anni Settanta quando gli chiesi perché invece di prendersela con
i politici e i datori di lavoro avesse preso di mira gli immigrati, i meno
responsabili di quella situazione.
In realtà Schwarzenbach ce l’aveva anche con gli immigrati, che
riteneva funzionali all'economia ma non alla cultura svizzera perché non assimilabili.
E quando gli obiettai che per «assimilarsi» gli stranieri avevano bisogno di
motivazioni e di stimoli, mi rispose che «un numero grande di persone non è mai
assimilabile» e che le masse di stranieri, racchiuse in ghetti, rappresentavano
un pericolo per la sopravvivenza della cultura svizzera: «così facendo noi
alimentiamo nel nostro Paese le sottoculture, che finiranno per rovinare
inevitabilmente la nostra cultura nazionale».
Replicai che non tutti gli stranieri erano analfabeti o
senza cultura e che comunque la maniera per evitare che finissero per
costituire dei ghetti culturali e sociali non era quella di cacciarli via, ma insistette
sulla sua convinzione che la massa non è mai assimilabile.
A distanza di anni, continuo a ritenere quell'iniziativa ingiustificabile, ma che meriti comunque una spiegazione. Eccola. Schwarzenbach e buona parte dell’opinione pubblica non avevano fiducia nella politica del Consiglio federale (benché fin dal 1963 cercasse invano di ridurre gli ingressi degli stranieri per motivi di lavoro), perché il predominio dell’economia che li voleva era assoluto. D’altra parte, benché si sentisse sostenuto incondizionatamente da un partito molto combattivo, com'era allora l’Azione Nazionale, ma irrilevante politicamente, Schwarzenbach considerava velleitario ingaggiare una lotta contro la politica e l’economia, per cui, facendo leva sul malcontento della gente, puntò tutto sulla democrazia diretta e sul voto popolare in grado, in caso di vittoria, di modificare la Costituzione e costringere il governo a ridurre drasticamente la minaccia straniera.
Fallimento dell’iniziativa Schwarzenbach
Dovrebbe invece importare che dopo quella votazione fu riorientata la politica immigratoria federale, mutarono gli atteggiamenti del Consiglio federale, dei sindacati, delle Chiese e dell’opinione pubblica verso gli stranieri, fu avviata una vera politica di stabilizzazione e d’integrazione della popolazione straniera, soprattutto delle seconde generazioni, ma di questi cambiamenti si tratterà nel prossimo articolo.
Giovanni Longu
Berna, 10 dicembre 2025