Gli italiani che
arrivavano in Svizzera per la prima volta erano spesso ignari della vita e del
lavoro da emigrati. Se la visita medica al passaggio della frontiera poteva
causare uno shock, le sorprese non finivano lì. Ad attenderli sul luogo di
destinazione e di lavoro c’erano le baracche, non sempre preparate e gestite in
modo appropriato, c’erano il lavoro, duro e a volte pericoloso, i salari sempre
inferiori a quelli dei colleghi svizzeri, la costante sottomissione ai capi,
senza poter dire «questo non mi va, è troppo, me ne vado» com’era invece
possibile a uno svizzero che poteva decidere di andarsene senza paura di
restare disoccupato, c’era l’assenza della famiglia e molto altro ancora.
Partenza amara
Partenza amara dell'emigrante. |
In Svizzera, per
molti immigrati italiani le condizioni di vita e di lavoro sono state
tutt’altro che facili, anche se le loro priorità erano il lavoro, la famiglia,
il futuro dei figli, il risparmio da inviare o portare a casa, per cui tutto il
resto passava in secondo piano e diveniva in qualche modo sopportabile: il
vitto, l’alloggio, i pericoli sul lavoro, la mancanza di tempo libero o di un
minimo di divertimento e persino la lontananza dalla famiglia.
Limitazioni della mobilità
Gli stagionali
italiani sapevano, se non nel dettaglio, almeno in generale il lavoro che
avrebbero svolto, ma forse nessuno si rendeva conto delle limitazioni che
comportava il contratto ottenuto in base all’Accordo italo-svizzero del 1948.
Probabilmente nessuno sapeva che i posti che andavano ad occupare erano per lo
più disertati dagli svizzeri perché a basso contenuto di professionalità, con
scarsa possibilità di sviluppo e poco pagati.
Con la seconda
ondata d’immigrazione di massa, proveniente soprattutto dal Mezzogiorno, la mobilità
professionale dei lavoratori italiani, già limitata, si ridusse
ulteriormente. Infatti, per evitare eccessivi cambiamenti di posti di lavoro e
di datori di lavoro, soprattutto dall’agricoltura all’industria e ai servizi,
furono introdotte regole rigide che vietavano, salvo esplicita autorizzazione,
qualsiasi cambiamento del posto di lavoro, della professione e del Cantone di
residenza.
La mobilità
orizzontale diventava possibile solo dopo diversi anni di permanenza in
Svizzera. Più difficoltosa è sempre rimasta la mobilità verticale, la carriera
professionale. A renderla difficile, quasi impossibile, erano le circostanze.
In teoria, col permesso annuale, anche i lavoratori italiani avrebbero potuto
perfezionarsi nel mestiere e salire di qualche gradino. Fino agli inizi degli
anni Settanta ne approfittarono pochi, che avevano già una qualifica
professionale e conoscevano l’organizzazione del lavoro.
Requisiti
mancanti
Oggi è facile
incontrare italiani e soprattutto italo-svizzeri in tutte le principali
attività economiche e a tutti i livelli, compreso il management superiore.
Allora era diverso. Mancavano soprattutto due requisiti fondamentali: una buona
formazione scolastica e professionale di base e la conoscenza della lingua
locale. Anche il contesto generale non era favorevole, non era affatto superata
la concezione dell’emigrazione/immigrazione «temporanea» (sancita dagli accordi
bilaterali e dalle leggi svizzere) e pertanto non era ancora realistica
l’opzione dell’integrazione da parte degli stranieri immigrati (prima
generazione).
E’ stato
osservato che dagli anni Sessanta era possibile, in Svizzera, recuperare
entrambi i requisiti assenti o carenti per la mobilità verticale, ma mancava
l’interesse da parte degli immigrati. Non è possibile negarlo, perché almeno
fin verso la metà degli anni Sessanta ben pochi immigrati prendevano in seria
considerazione la possibilità del perfezionamento e della carriera
professionale. Tuttavia l’osservazione
andrebbe precisata e spiegata (e lo si farà in altra occasione), tenendo
presente che fino agli anni Settanta erano completamente assenti dai programmi
statali e dagli accordi bilaterali tra l’Italia e la Svizzera, in riferimento
alla prima generazione, gli stessi concetti di recupero scolastico, formazione
professionale, integrazione.
Si potrebbe anche
aggiungere che nel periodo considerato erano ben altre le preoccupazioni e gli
interessi della maggior parte degli immigrati italiani.
Grandi
sofferenze e frustrazioni
L’esperienza
emigratoria dei primi decenni del dopoguerra è stata per moltissimi italiani
traumatica, anche se, in quella specie di giuramento al momento della partenza,
le privazioni, le difficoltà, le frustrazioni erano messe in conto.
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Baracca per stagionali. |
Non andrebbero inoltre
dimenticate o minimizzate le logoranti paure e persino le fobie di tanti
immigrati di perdere il lavoro, di dover tornare a casa a mani vuote non avendo
avuto il tempo di risparmiare abbastanza, di non riuscire a mantenere la
promessa fatta il giorno della partenza, la paura della propria impotenza.
Intanto le
preoccupazioni col tempo non solo non diminuivano ma anzi aumentavano. Il «mito
del ritorno» era sempre in agguato ed era fonte di preoccupazioni, perché i
risparmi ancora non bastavano eppure una decisione andava presa, che andasse
bene ai genitori ma pure ai figli. Molti genitori erano impreparati a
fare la scelta giusta. Interminabili
discussioni pubbliche spesso non facevano che alimentare i dubbi.
Negli anni
Sessanta i figli divennero forse la maggiore preoccupazione degli immigrati
italiani, soprattutto al momento della scelta scolastica. Ogni decisione
sembrava problematica, non c’erano certezze, ma solo dubbi: era nell’interesse
dei bambini mandarli a studiare in Italia, affidandoli a nonni o altri parenti,
o in un collegio appena varcato il confine oppure in una scuola italiana qui in
Svizzera o direttamente nella scuola svizzera? Le autorità italiane non erano
in grado di dare indicazioni precise, quelle svizzere erano drastiche: tutti i
bambini devono essere integrati nella scuola svizzera. Molti genitori dovettero
farsene una ragione.
L’ostilità xenofoba
A tutto quanto precede si deve aggiungere che negli Anni
Sessanta e Settanta l’ostilità nei confronti degli stranieri immigrati
era al massimo. Se un bel numero di essi avesse potuto scomparire da un giorno
all’altro, molti svizzeri avrebbero gioito salvo poi piangere lacrime amare per
il disastro causato alla loro economia, ai loro salari, al loro benessere.
Gli immigrati italiani, allora in grande maggioranza, non
potevano certo restare indifferenti a sentire i vari Stocker, Schwarzenbach,
Hoehen che chiedevano la riduzione del numero di stranieri. Molti
maturarono la decisione di terminare il più presto possibile l’esperienza
migratoria. Altri, invece, decisero di proseguirla, soprattutto per il bene dei
loro figli.
Non tutti, evidentemente, si rendevano conto che anche
questa scelta non sarebbe stata indolore, ma probabilmente pensarono che fosse
quella migliore. Anche senza conoscere l’antico proverbio, tutti sapevano che
basta insistere e prima o poi, inghiottendo magari ogni tanto qualche boccone
amaro, i risultati arrivano: «chi la dura la vince».
Chi la dura la
vince!
In effetti, la speranza di futuri miglioramenti e la
certezza di poterli raggiungere hanno consentito a generazioni di immigrati
italiani di sopportare condizioni di disagio, di paura, di frustrazioni, che in
patria, forse, non avrebbero sopportato. Certo, qui la paga era buona, i
risparmi erano possibili tanto da sfamare la famiglia, far studiare i figli e
magari farsi anche la casa. Tanto valeva continuare a fare qualche sacrificio…
ancora per qualche anno!
L’immigrazione degli italiani in Svizzera avrebbe richiesto
una adeguata preparazione degli interessati prima della partenza, le
informazioni fondamentali sulle istituzioni di tutela, qualche buon indirizzo a
cui rivolgersi in caso di bisogno, ecc. Molti di essi o forse quasi tutti
furono mandati allo sbaraglio, nella speranza di consentire al governo di
sentenziare, in qualche discorso pubblico o in Parlamento, «missione compiuta»,
perché in Italia diminuiva la disoccupazione e aumentava la prospettiva di
tante rimesse! (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 8 maggio 2019
Berna, 8 maggio 2019