Sul tema dell’«emigrazione clandestina» italiana regna ancora molta
confusione. Ritengo pertanto utile fornire ai lettori interessati al tema
qualche informazione in più sul contesto e sulla portata del fenomeno in relazione
ai flussi emigratori verso la Svizzera. Dal precedente articolo (http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/04/immigrazione-italiana-1950-1970-9.html) è emerso
chiaramente che la cosiddetta «emigrazione clandestina» altro non era che
l’aggiramento della lenta burocrazia italiana del dopoguerra da parte degli
emigranti interessati a un’occupazione in questo Paese. Pertanto l’aggettivo
«clandestino» è inappropriato, almeno da una prospettiva svizzera.
Confusione tra emigrazione e immigrazione
Purtroppo la confusione è diffusa non solo nei media, ma anche in opere di
ricerca storica. Nei media ha fatto scuola l’invito del noto giornalista Gian
Antonio Stella (2002) a non dimenticare «quando i clandestini eravamo noi».
Tra gli studiosi, sono molti quelli che confondono «emigrare clandestinamente»
e «immigrare clandestinamente». La differenza, invece, specialmente nel caso
dell’emigrazione italiana in Svizzera, non è di poco conto.
Solitamente, e anche qui, si considerano «clandestini» i migranti stranieri
che entrano e soggiornano illegalmente (= senza documenti d’ingresso e di
soggiorno validi) in un altro Paese. Si considerano invece «irregolari»
gli stranieri che soggiornano in un Paese senza un permesso di soggiorno
valido, pur essendovi entrati regolarmente. In molti testi riguardanti
l’emigrazione italiana spesso sono definiti erroneamente «clandestini» gli
italiani espatriati illegalmente, ossia senza un documento valido per
l’espatrio, anche se entrati legalmente nel Paese di destinazione, per esempio
in Svizzera. In certi periodi del dopoguerra (fino alla metà degli anni
Settanta) molti italiani adulti emigrati in Svizzera sono stati per qualche
tempo «irregolari», quasi mai «clandestini».
Un altro contributo alla chiarezza dovrebbe venire dall’uso corretto dei
termini «migrazione», «emigrazione» e «immigrazione»,
utilizzando il primo nel significato generico di movimento volontario di
persone (adulte) da un luogo ad un altro con l'intenzione di stabilirvisi almeno
temporaneamente, il secondo per indicare il trasferimento effettivo di persone da
un Paese a un altro (normalmente per svolgervi un’attività lavorativa) e il
terzo per indicare l’arrivo nel Paese ospite o di destinazione di persone
provenienti da un altro Paese. Purtroppo, spesso, i tre termini sono usati come
sinonimi, per cui non è raro incontrare anche in comunicati stampa ufficiali
l’espressione «migrazione clandestina» o «migrazione illegale» per indicare
entrate e/o soggiorni illegali o irregolari.
Usate in modo appropriato, l’espressione «emigrazione clandestina» farebbe
pensare subito all’espatrio «clandestino» (o illegale) e «immigrazione
clandestina» all’entrata e al soggiorno in un Paese in violazione delle leggi
sull’ingresso e sul soggiorno. Per oltre un secolo l’Italia unita non ha avuto
problemi rilevanti di immigrazione clandestina, mentre ne ha avuti molti di
«emigrazione clandestina» o «illegale».
L’«emigrazione clandestina»
italiana nella storia
Per esigenze di politica interna e internazionale l’Italia ha sempre voluto
controllare gli espatri. Molti cittadini, tuttavia, sul finire dell’Ottocento e
agli inizi del Novecento riuscivano ad aggirare i controlli e le norme
restrittive sull’«emigrazione clandestina» adottate dai governi postunitari
presieduti da Menabrea
(1868), Lanza (1873), Depretis
(1876), Crispi (1888) fino all’adozione della prima Legge
sull’emigrazione (1901) e successivamente del Testo unico della
Legge sull’emigrazione (1919).
In certi periodi lo Stato voleva scoraggiare l’emigrazione e impedire gli
espatri «clandestini» per frenare l’esodo dalle campagne, che creava gravi
problemi all’agricoltura, allora la principale attività economica. Si
voleva anche evitare che il governo fosse accusato di inadeguatezza e
incapacità a risolvere i problemi di arretratezza del Mezzogiorno.
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Il «passaporto rosso» per contrastare l'«emigrazione clandestina» |
Per controllare efficacemente l’emigrazione regolare e
contrastare l’emigrazione clandestina il Testo unico del 1919 prevedeva
fra l’altro il passaporto (chiamato anche «passaporto rosso» dal colore
della copertina) obbligatorio per ogni emigrante (art. 15) e la pena
detentiva e la multa a chiunque diffondesse notizie subdole per «eccitare ad
emigrare», come pure a chiunque indirizzasse un emigrante a uno Stato diverso
da quello dove intendeva recarsi.
Emigrazione
«clandestina» nel dopoguerra
Nel dopoguerra (tra il 1946 e il 1970), quando la Svizzera
aveva bisogno di molta manodopera, vennero messi a disposizione dell’economia
circa tre milioni di permessi stagionali. L’Italia fu la prima nazione europea
a consentire l’espatrio a centinaia di migliaia di stagionali. La richiesta da
parte della Svizzera e l’invio da parte dell’Italia di lavoratori e lavoratrici
stagionali erano regolati dalle intese bilaterali messe a punto nell’Accordo
di immigrazione del 22 giugno 1948 (cfr. articolo precedente).
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Nessuno, forse, in Italia si rese subito conto della portata
di quell’Accordo, che consentiva alla Svizzera di reclutare direttamente o
indirettamente nel mercato del lavoro italiano milioni di lavoratori per una o
più stagioni. Tutti gli interessati però sapevano che si trattava di
attività «stagionali» con forti limitazioni, anche nel caso del rinnovo del
permesso, almeno fino alla trasformazione del permesso «stagionale» in
«annuale», dopo un certo numero di stagioni.
In base all’Accordo, l’Italia doveva garantire il
reclutamento e l’invio delle persone richieste dalla Svizzera nel più breve
tempo possibile, al massimo entro pochi mesi. Invece, soprattutto all’inizio, i
ritardi erano tali da spingere molti emigranti a espatriare anche senza i
documenti necessari (permesso di lavoro vistato dall’Ambasciata o dal
Consolato, permesso di soggiorno, ecc.), col solo passaporto turistico (che
l’Italia non riconosceva valido per l’emigrazione), sapendo o illudendosi che
in Svizzera avrebbero comunque trovato un posto di lavoro entro tre mesi
(durata di validità del permesso turistico) e si sarebbero messi in regola con
i permessi. Per l’Italia questi emigrati erano «clandestini», per la Svizzera
no, essendo entrati con un documento (passaporto) valido.
Stagionali «clandestini»
A questo punto è inevitabile la domanda: ma quanti erano, nell’ottica
italiana, ogni anno i «clandestini»? Impossibile dare una risposta precisa perché
i «clandestini» come tali non sono censibili. Non è nemmeno possibile ricavare
qualche dato utile dalle statistiche svizzere perché in Svizzera erano considerati
«irregolari» solo coloro che soggiornavano senza un permesso di dimora valido
dopo tre mesi dal loro ingresso «regolare». Negli anni Settanta circolavano
cifre che davano da 30.000 a 50.000 «clandestini» o «irregolari», ma senza specificarne
la nazionalità. E’ pensabile che fino agli anni Settanta quella italiana fosse
la più rappresentata, ma con numeri nettamente al di sotto delle stime diffuse
dalla stampa.
Non va infatti dimenticato che allora era estremamente facile ottenere un permesso di lavoro e di soggiorno, soprattutto per gli italiani, per cui non era conveniente rischiare l’espulsione entrando e soggiornando «clandestinamente» o irregolarmente. Nel 1964 su 206.305 stagionali regolari di diverse nazionalità gli italiani «regolari» erano oltre 170.000; nel 1970 su poco più di 200.000 stagionali regolari gli italiani erano più della metà. Non è pensabile che ci fossero in Svizzera ancora decine di migliaia di «clandestini» o «irregolari».
Non va infatti dimenticato che allora era estremamente facile ottenere un permesso di lavoro e di soggiorno, soprattutto per gli italiani, per cui non era conveniente rischiare l’espulsione entrando e soggiornando «clandestinamente» o irregolarmente. Nel 1964 su 206.305 stagionali regolari di diverse nazionalità gli italiani «regolari» erano oltre 170.000; nel 1970 su poco più di 200.000 stagionali regolari gli italiani erano più della metà. Non è pensabile che ci fossero in Svizzera ancora decine di migliaia di «clandestini» o «irregolari».
Bambini «clandestini»

A sollevare il problema
nell’opinione pubblica furono alcuni articoli pubblicati nel 1971 dalla giornalista Anne-Marie Jaccard sui
risultati di un’inchiesta dedicata
ai «bambini dell'ombra», diecimila «piccoli stranieri», figli di
stagionali e annuali italiani e spagnoli introdotti in Svizzera
«clandestinamente», una situazione «scandalosa». La cifra indicata era una
stima, non riguardava solo gli italiani né solo gli stagionali. Eppure da
allora, senza mai interrogarsi sulla sua plausibilità e il periodo di
riferimento, è (stata) continuamente ripetuta e spesso amplificata (fino a
40.000!) da Delia Castelnuovo Frigessi, Marina Frigerio, Claudio
Calvaruso, Giovanna Meyer Sabino, Gian Antonio Stella, Sandro
Rinauro, Toni Ricciardi e altri. Già nel 1972 il Consiglio federale
aveva ritenuto quella stima «esagerata», ma tant’è…! (Segue)
Giovanni Longu
Berna 10.04.2019
Berna 10.04.2019