14 ottobre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 26. Scuola di vita per il futuro

La politica immigratoria svizzera ha subito negli anni Settanta una svolta radicale grazie alla seconda generazione e alla sua integrazione nella struttura scolastica locale. Una spinta al cambiamento era stata data già dall’Accordo d’immigrazione tra la Svizzera e l’Italia del 1964, ma furono soprattutto la crisi economica del 1974-76 e le ripercussioni sui flussi degli immigrati italiani e sull’economia a richiamare l’attenzione della politica svizzera sui problemi dei giovani stranieri della seconda generazione.

Esigenze di cambiamento nell’economia

Durante la crisi del 1974-76 tanti italiani
rientrarono, ma la maggior parte rimase.
Quest’autunno, ricordando il 50° anniversario della votazione sulla prima iniziativa antistranieri di Schwarzenbach, alcuni commentatori hanno dato l’impressione di considerare quell’iniziativa, più che la sua bocciatura, determinante per il cambio di rotta della politica immigratoria svizzera. Per qualcuno sarebbe stato addirittura proprio quel politico ad iniettare nell’opinione pubblica elvetica il virus del «prima i nostri», destinato durante questi cinquant’anni a contagiare una parte consistente della popolazione tanto da far temere un’accoglienza favorevole dell’ultima iniziativa della destra «Per un’immigrazione moderata (Iniziativa per la limitazione)».

Com’è noto, il 27 settembre 2020, questa iniziativa è stata sonoramente bocciata dal 61,7% dei votanti, confermando che quel presunto virus non era così letale, che le parole di Schwarzenbach cinquant’anni dopo pesano veramente poco, che il popolo svizzero non si lascia facilmente condizionare dalle ideologie e dai populismi, ma è mosso soprattutto da sentimenti naturali (preoccupazione, paura, interesse) e considerazioni pratiche (valutazione dei rischi).

Anche agli inizi degli anni Settanta a provocare la svolta non furono considerazioni ideologiche o demagogiche ma pratiche e la valutazione dei rischi delle singole opzioni. Per esempio, l’esigenza di stabilizzare la manodopera estera e di abbandonare la pratica della «rotazione» dei lavoratori stranieri nacque da una costatazione obiettiva e da valutazioni di opportunità e convenienza.

Già dalla metà degli anni Sessanta erano chiare le tendenze non solo degli stranieri (allora soprattutto italiani) a fermarsi sempre più a lungo in Svizzera, ma anche delle aziende a fidelizzare i propri dipendenti più che a investire continuamente nella preparazione dei nuovi arrivati. Inoltre, al Consiglio federale sembrava opportuno non dare motivi di critica ai movimenti antistranieri e agli stessi sindacati. Per queste ragioni cominciò, fra l’altro, a introdurre i «contingenti» annuali della manodopera estera e a condizionare le nuove assunzioni di stranieri nelle aziende alla mancanza di svizzeri o stranieri domiciliati disponibili.

Conseguenze per il mercato del lavoro

Negli stessi anni cominciava a delinearsi anche una nuova esigenza nell’economia e specialmente nell’industria: la razionalizzazione dei processi di produzione implicava una maggiore valorizzazione delle risorse umane presenti. La crisi economica del 1974-76 sembrava dare una mano al Consiglio federale nella sua nuova politica di riduzione e stabilizzazione della manodopera estera. La disoccupazione e il rischio di perdere il lavoro spingeva infatti moltissimi italiani a porre fine all’esperienza migratoria. Entro la fine del decennio la percentuale di stranieri sarebbe scesa dal 17,2 al 14,3%. Il numero di italiani residenti sarebbe passato da 583.850 a 418.989.

D’altra parte, nessuno s’illudeva che dall’Italia, visto il boom economico in atto, potessero arrivare ancora immigrati in massa dal nord come dal sud. Le statistiche non lasciavano dubbi: dall’inizio degli anni Settanta il saldo migratorio con l’Italia era costantemente negativo ed era inimmaginabile un’inversione di tendenza.

Per molte aziende la partenza di personale italiano già formato rischiava di aggravare la situazione. Anche la possibilità di assicurare la produzione razionalizzando i processi aveva i suoi limiti. Per garantire la sopravvivenza occorreva prevedere la possibilità di continuare ad approvvigionarsi di manodopera estera europea e possibilmente simile, quanto a laboriosità e capacità di adattamento, a quella italiana. Ne erano consapevoli gli ambienti economici ma anche alcuni ambienti politici.

La Svizzera, che avrebbe potuto aprire le frontiere ai Paesi extraeuropei, era molto restia a questo tipo di sostituzione perché le distanze culturali e i rischi di adattamento apparivano enormi. Sarebbe stato difficile se non impossibile adottare le misure di ammodernamento e di razionalizzazione che apparivano indifferibili. Per questo venne favorita piuttosto l’immigrazione dapprima di spagnoli e portoghesi, poi di greci, turchi, albanesi e altri.

Un’altra opzione, mai confermata esplicitamente, ma verosimile a partire da numerosi indizi, era quella di garantire nel mondo del lavoro la sostituzione della prima generazione di italiani con la seconda. Nessun mercato avrebbe potuto garantire una continuità più omogenea e sicura. Oltretutto i giovani italiani in età da zero a quattordici anni erano già oltre 150.000. La loro disponibilità era però tutta da verificare.

Scuola di vita o di mestiere?

Negli anni Settanta ci sono stati sicuramente imprenditori, politici e persone comuni che pensarono di poter contare sulla seconda generazione soprattutto italiana per garantire all’economia la manodopera necessaria alla propria sopravvivenza e al proprio sviluppo. Questo pensiero, agli inizi degli anni Settanta, sembrava suffragato da una costatazione abbastanza diffusa: i giovani italiani non brillavano nello studio, mentre anche secondo alcuni orientatori scolastici sembravano più portati per le attività manuali.

Lavoro o studio? Gli italiani volevano per i loro
figli che prima studiassero e poi lavorassero!

Effettivamente, com’è stato già ricordato (v. articolo precedente), soprattutto negli anni Settanta e Ottanta i bambini italiani non conseguivano buoni risultati a scuola e questo li predestinava quasi inesorabilmente a seguire apprendistati minori, a prevalenza manuale, e precludeva loro, fatte salve le eccezioni, la possibilità di accedere agli apprendistati più qualificati e, soprattutto al proseguimento degli studi.

Talvolta, tuttavia, il giudizio che si dava nei loro confronti sembrava più un pregiudizio che il frutto di una valutazione obiettiva. Se la media del successo scolastico dei bambini italiani si scostava troppo da quella dei bambini svizzeri, la differenza poteva dipendere non solo dalle capacità degli allievi ma anche da una eccessiva rigidità della selezione, dalla mancanza di una adeguata preparazione del corpo insegnante, dall’insufficiente supporto della famiglia e da altre carenze. La soluzione più equa andava cercata colmando le lacune e non compromettendo il futuro professionale dei figli degli immigrati. Bisognava dare loro una vera libertà di scelta per poter imparare per la vita e per il mestiere.

Le reazioni dei genitori e degli allievi

Per molti anni il sistema scolastico svizzero fu oggetto di aspre critiche nel campo della migrazione perché ritenuto troppo selettivo e discriminatorio nei confronti dei figli degli immigrati. Per molti genitori rimaneva inspiegabile l’assegnazione dei loro figli alle «classi speciali» (anche perché nessuno spiegava loro in che cosa consistessero, la loro durata, ecc.) e l’esclusione dalle scuole di secondo grado inferiore.

Le reazioni dei genitori portarono talvolta a modificare giudizi infondati, a far intervenire presso le direzioni scolastiche i rappresentanti stranieri nelle Commissioni cittadine, gli osservatori stranieri (se c’erano) nelle Commissioni scolastiche, i Comitati dei genitori, ecc. Anche molti allievi, come verrà ricordato in un prossimo articolo, rifiutarono i «consigli» di orientatori scolastici e professionali troppo schematici e poco psicologi.

Grazie al lavoro di tanti, in quegli anni si giunse a una diffusa presa di coscienza degli immigrati (prima generazione) sulla necessità dell’apprendimento della lingua locale, sull’importanza di assicurare ai propri figli un adeguato sostegno scolastico in famiglia, sull’esigenza di considerare la scuola la preparazione fondamentale per la vita prima ancora che per il mestiere da apprendere.

Col passare degli anni questa coscienza comune dei genitori immigrati sarà premiata perché porterà a una sorta di rivalutazione del percorso seguito con determinazione e costanza, al rafforzamento dell’italianità (fin dagli anni Ottanta) e soprattutto al conseguimento, dagli anni Novanta in poi, di titoli di studio di scuola secondaria superiore e universitari da parte di un numero crescente di giovani di seconda generazione.

Per molti genitori, tuttavia, la soddisfazione più bella è stata sicuramente vedere i propri figli percorrere strade diverse dalle loro. In fondo è quello che hanno sempre voluto, emigrando e dando loro la possibilità di studiare.

Giovanni Longu
Berna, 14.10.2020