Gli italiani immigrati
in Svizzera negli anni '50 e '60 hanno dovuto affrontare condizioni di vita e
di lavoro molto difficili. La situazione di bisogno di gran parte degli
immigrati ha talvolta generato in essi sentimenti di rassegnazione e di
accettazione di qualsiasi lavoro, di qualsiasi salario e condizioni di vita
impensabili prima di emigrare. La stessa situazione, grazie anche a leggi e
regolamenti favorevoli all’economia (si pensi, per esempio, al divieto per i
nuovi immigrati di cambiare posto di lavoro o genere di attività), ha ispirato spesso
nei datori di lavoro svizzeri sentimenti di potere e di dominio sui loro
dipendenti stranieri. Non è pertanto banale affermare che la condizione
dell’immigrato in Svizzera era difficile e penosa.
Condizioni difficili
L'UNITRE è oggi una delle associazioni più sentite ed efficienti. |
Quasi sempre il motivo
determinante dell’emigrazione era la certezza di un lavoro e di un salario che
consentisse ampi risparmi. Se in Italia, a sud come a nord, ci fossero state le
stesse possibilità, sicuramente il fenomeno emigratorio del dopoguerra non si
sarebbe sviluppato, almeno nelle stesse proporzioni. Decidendo di partire,
spesso ignorando totalmente le caratteristiche essenziali del Paese di
destinazione e persino il lavoro esatto che si andava a svolgere, era dato per
scontato che specialmente all’inizio non sarebbero mancate le difficoltà.
Credo, tuttavia, che la stragrande maggioranza degli emigranti nella Svizzera
tedesca (la principale destinazione degli italiani negli anni ’50 e ’60) non si
rendesse minimamente conto delle difficoltà ambientali, linguistiche,
culturali, abitative e lavorative che avrebbe incontrato.
Molti racconti di
immigrati di quegli anni rievocano il disagio provato già al passaggio della
frontiera (a causa dell’obbligatoria visita medica), ma soprattutto alle prime
difficoltà incontrate sul lavoro e nella vita sociale, soprattutto a causa
della non conoscenza della lingua locale, alla sensazione di essere sfruttati, discriminati,
considerati diversi ed estranei e accusati di tanti difetti (per esempio, di
essere chiassosi, lamentosi, invadenti, arroganti, violenti, pericolosi…).
Dominavano su tutti i sentimenti la nostalgia e il desiderio del ritorno al
proprio paese, perché per quasi tutti gli immigrati italiani del dopoguerra
l’emigrazione era come una missione: lavorare, guadagnare, risparmiare e
tornare dov’era il principale centro degli interessi, la famiglia.
Il sorgere, negli anni ’60 e ’70, di
centinaia, forse migliaia di associazioni di tutti i generi (associazioni
locali, regionali, nazionali con le più svariate finalità: assistenziali,
scolastiche, culturali, sportive, politiche, religiose, ecc.) denota non solo
il grande isolamento e l’incomunicabilità degli immigrati nei confronti degli
svizzeri, ma anche la difficile convivenza tra gli stessi immigrati. La voglia
di respirare aria di casa propria, parlare la stessa lingua (molto spesso lo
stesso dialetto), praticare le stesse usanze spingevano gli immigrati a
rifugiarsi solo o prevalentemente in quelle associazioni dove erano
maggiormente presenti compaesani o immigrati provenienti dalla stessa provincia
o dalla stessa regione.
La risposta dell’associazionismo
Molte associazioni favorivano tale
rigenerazione e non c’è dubbio che esse hanno rappresentato per molti immigrati
una sorta di ancora di salvezza dalla depressione, dal senso di profondo
isolamento e di abbandono. L’associazione rappresentava una sorta di luogo
protetto e sicuro dove potersi esprimere liberamente, sorridere e per qualche
ora dimenticare. Soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, quando
maggiormente si sentiva soprattutto tra gli immigrati italiani il disagio di
essere confrontati con diffusi sentimenti xenofobi tra la popolazione svizzera
e con misure politico-amministrative percepite come limitazioni dei diritti
politico-sociali, l’attività delle associazioni era rassicurante.
Classe dell'UNITRE di SO durante un corso sulla Svizzera |
In alcuni ambienti, nonostante si percepisse
la pochezza dell’offerta associazionistica, non si riteneva possibile fare di
più, aprirsi. Una testimonianza di quegli anni, riferita ad alcune Colonie
libere (ma con una valenza sicuramente più ampia) è molto schietta: «Tutte
queste attività [sportive, ricreative, ecc.] sono finalizzate ad offrire
qualche cosa ai soci, ma nel medesimo tempo ci si rende conto che esse perpetuano
la situazione di “ghetto”, limitando l’apertura verso l’esterno. D’altra parte
non si vede altra strategia possibile date le condizioni di netta separazione
esistenti tra Italiani e Svizzeri» (De Marchi 1971-72).
Modello coloniale dell’associazionismo italiano
C’erano anche associazioni con altre finalità
apparentemente più serie perché si proponevano la lotta alla xenofobia,
l’elevazione degli emigrati, la lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori
emigrati, ecc. Anch’esse non si rendevano conto che favorendo le
contrapposizioni e tentando di scatenare piccole lotte di classe non facevano
che aggravare la situazione, allontanandosi sempre di più dal terreno fertile
dell’incontro e del dialogo con la popolazione locale.
Ovviamente non tutte le associazioni erano
uguali, ma almeno tutte quelle che avevano un certo peso «politico» e una
notevole capacità di mobilitazione e di comunicazione avevano in comune una
dipendenza più o meno stretta da istituzioni centrali italiane. Non va infatti
dimenticato che l’associazionismo italiano in Svizzera, specialmente nel
dopoguerra, si è sviluppato secondo un modello di tipo coloniale.
La collettività italiana immigrata era
concepita come una «colonia» italiana in diaspora, cioè un insieme di cittadini
italiani residenti più o meno stabilmente fuori dall’Italia, ma pur sempre
parte integrante dell’Italia. Doveva avere caratteristiche «italiane» e
pertanto anche i principali organismi di aggregazione (associazioni) e di
rappresentanza dovevano far capo, almeno indirettamente, a istituzioni centrali
(governo, regioni, patronati, sindacati, partiti, ecc.). Nemmeno le grandi
associazioni come le ACLI, le Colonie libere o i patronati, per non parlare dei
cosiddetti organi di rappresentanza (Comites, CGIE, ecc.), sono stati mai
veramente autonomi.
Questo modello «coloniale» ha funzionato
almeno fino agli inizi degli anni ’70, quando sembrava che il sistema
associazionistico avesse raggiunto finalmente l’unità o quasi. Un importante
processo di unificazione era stato avviato nel 1969 ed era culminato nella
convocazione di un Convegno (Lucerna 25 e 26 aprile 1970) a cui parteciparono
oltre 400 delegati in rappresentanza della principali associazioni di immigrati
in Svizzera. Il Convegno venne salutato come un evento decisivo dalle
principali associazioni, ma rivelò anche le lacune e la fragilità del sistema
associazionistico italiano.
Apparentemente, il risultato più importante
del Convegno di Lucerna fu l’elezione del Comitato Nazionale d’Intesa,
che per oltre un decennio fungerà da principale interlocutore delle autorità
italiane in Svizzera. Ad esso veniva affidato il compito impossibile di
rappresentare «unitariamente» le anime di oltre 400 associazioni di base «per
affrontare e risolvere concretamente i problemi dell’emigrazione». Non vi
riuscì. Le sue prese di posizione e i suoi appelli rimasero quasi sempre
lettera morta, soprattutto quando si chiedevano cambiamenti che la Svizzera non
era disposta a concedere (per esempio l’abolizione dello statuto dello stagionale)
e lo Stato italiano non aveva la forza per sostenere una linea dura.
L’influenza dei partiti è stata spesso deleteria.
Crisi dell’associazionismo tradizionale e nuove sfide
Molte associazioni cominciarono ad entrare in
crisi fin dagli anni ’70 perché non si resero conto dei cambiamenti che stavano
avvenendo proprio all’interno della collettività immigrata. Si stava passando
da un tipo di emigrazione temporanea (quando si veniva per qualche stagione o
anno e poi ritornare) in emigrazione stabile e gli italiani cominciavano ad
essere considerati non più Gastarbeiter (lavoratori ospiti), ma parte
integrante della società svizzera (grazie soprattutto alla seconda
generazione). Per di più, molte associazioni erano talmente cresciute su misura
di certi presidenti e dirigenti che col loro ritiro decretavano di fatto
l’estinzione delle loro organizzazioni.
Oggi, solo alcune delle vecchie associazioni
sono rimaste, soprattutto quelle con forti contenuti assistenziali, politici e
religiosi. Nel frattempo ne sono sorte nuove, poche in verità, per venire
incontro a nuove esigenze di una collettività italiana diversa, meno «colonia»
e più integrata e complessa. Penso in particolare a quelle dedite
all’integrazione culturale, politica, sindacale, alla diffusione dell’umanesimo
e dell’italianità. Un esempio per tutte: la moderna rete delle Università
delle Tre Età (UNITRE) in Svizzera.
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In visita al Palazzo federale |
Tassello si riferiva alla crisi
dell’associazionismo tradizionale italiano nel mondo, ma la validità della sua
osservazione in riferimento alla Svizzera mi pare evidente. Qui
l’associazionismo che svolge ancora qualche attività è talmente politicizzato
che le stesse persone che ricoprono cariche nelle associazioni sono spesso a
Roma in rappresentanza (politica) della vecchia «colonia» italiana, cercano
voti per qualche candidatura (partitica) propria o di altri. L’attrazione di
qualche poltrona a Roma dev’essere enorme!
Forse dipende tutto dal fatto che i
rappresentanti eletti dagli italiani all’estero sono ormai giunti in Parlamento
e questo basta? Spero di no, anche perché dalla loro elezione ben poco o quasi
nulla è cambiato, in meglio, per gli italiani all’estero. Le potenzialità
dell’associazionismo spontaneo non sono ancora esaurite, ma bisogna saperle
indirizzare bene, sul territorio, affrancandosi dalle influenze politiche estranee,
abbandonando definitivamente il modello «coloniale» romano. E’ un’opportunità
da non perdere. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 14.06.2017
Berna, 14.06.2017