Nel dopoguerra,
man mano che gli immigrati italiani aumentavano, crescevano anche la xenofobia
e le difficoltà della convivenza con la popolazione indigena. Le differenze
culturali erano enormi, le regole sembravano fatte apposta per accrescere la
distanza, le istituzioni non favorivano il dialogo. L’associazionismo rappresentava
per molti immigrati un rifugio e la salvezza dallo sconforto e dalla
depressione, ma per lungo tempo non favorì né il dialogo tra le due comunità né
l’integrazione. Solo dalla metà degli anni Sessanta si cominciò a percepire da
entrambe le parti l’esigenza di un avvicinamento, di conoscersi meglio, di
superare i tanti luoghi comuni che ostacolavano il dialogo e la collaborazione.
Anzitutto associazioni
assistenziali
La Casa d’Italia è sempre stata un grande centro d’incontro. |
In questa terra
sono fiorite fin dalla seconda metà dell’Ottocento anche innumerevoli
associazioni di immigrati italiani. Sorgevano soprattutto nelle città
industriali principalmente per un’esigenza di assistenza alle famiglie in caso
di infortunio, disoccupazione, malattia, morte di un loro congiunto (le famose
società di mutuo soccorso).
Dall’inizio del
secolo scorso, a queste associazioni se ne aggiunsero altre ancora a scopo
assistenziale ma di altro tipo: Missioni cattoliche e segretariati dell’Opera del
vescovo monsignor Bonomelli per l’assistenza soprattutto spirituale ma anche
sociale e materiale degli immigrati, associazioni musicali e
filodrammatiche, associazioni culturali per la difesa dell’italianità come le Società Dante Alighieri, associazioni ricreative e sportive per
la gestione del tempo libero e altre.
Sotto il fascismo, anche le varie Case d’Italia, create
nelle principali città (Zurigo, Berna, Losanna, Lucerna, ecc.) dove la presenza
italiana era significativa, avevano una finalità di assistenza varia e di
sostegno alla collettività italiana.
Associazionismo nel dopoguerra
Nel dopoguerra, quando la collettività italiana immigrata
assunse proporzioni sempre più consistenti e la convivenza con la popolazione
svizzera divenne sempre più problematica, le associazioni italiane si
moltiplicarono per offrire, ciascuna a modo suo, sostegno, assistenza,
opportunità per il tempo libero (attività sportive, artistiche, culturali,
ecc.). Il boom dell’associazionismo si è avuto negli anni Sessanta e
Settanta del secolo scorso, quando la distanza, l’incomprensione e
l’incomunicabilità tra le due popolazioni erano maggiori.
Così descriveva la situazione un contemporaneo: «Non
esistono praticamente rapporti tra italiani e svizzeri, se si escludono quelli
puramente formali derivanti dai contatti quotidiani sui luoghi di lavoro, e dal
vivere nella stessa città. Italiani e svizzeri, pur lavorando nelle medesime
fabbriche, abitando talvolta fianco a fianco, usando gli stessi servizi e
infrastrutture, si ignorano reciprocamente, svolgendo vite parallele, ma
completamente separate. […] Le discriminazioni non avvengono con limitazioni e
prescrizioni, ma piuttosto in modo automatico, per cui alcuni quartieri,
locali, abitazioni diventano “per italiani” e non vengono frequentati dagli
svizzeri e viceversa. Da ambo le parti si riscontra la tendenza a mantenere le
proprie caratteristiche ed abitudini, senza sentire l’esigenza di un
interscambio ed anzi l’un gruppo etnico guardando con un certo senso di
fastidio l’altro» (Da Ros, 1975).
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Attuale sede della MCI di Berna |
Le associazioni rappresentavano un ambiente «ricreativo» nel
senso proprio del termine per il corpo e per lo spirito. Erano una sorta di
luogo protetto e sicuro dove si giocava, si scherzava, si organizzavano feste,
ma soprattutto si dimenticavano almeno per qualche ora le frustrazioni e le
pene quotidiane del lavoro, della fatica e dei contrasti con gli svizzeri. Le
associazioni con una propria sede, soprattutto se dotate di servizio ristorante
e sale da gioco, erano divenute i principali ritrovi degli italiani, a
cominciare dalle Missioni cattoliche e dalle Case d’Italia. A molti
immigrati l’associazionismo ha garantito la sopravvivenza dal rischio, alquanto
diffuso, di cadere in depressione e di abbandonarsi allo sconforto.
Altri rischi a lungo trascurati
Purtroppo altri rischi furono trascurati o non vennero
percepiti come tali. La voglia di respirare aria di casa propria, parlare la
stessa lingua (molto spesso lo stesso dialetto), praticare le stesse usanze
spingevano molti immigrati a rifugiarsi solo o prevalentemente in quelle
associazioni frequentate specialmente da compaesani o corregionali con la
conseguenza di aggravare inconsapevolmente la situazione di isolamento e di
chiusura.
La maggior parte delle associazioni svolgeva, magari
egregiamente, un ruolo consolatorio, ma non aveva visioni per il futuro, non
riusciva ad immaginare che bisognava rompere il cerchio dell’isolamento,
imparare la lingua del posto per entrare in sintonia con la popolazione
svizzera. In alcuni ambienti era diffusa l’illusione di poter risolvere i
problemi degli immigrati con le proprie forze, soprattutto protestando. Alcune
associazioni ritenevano addirittura che i problemi si potessero risolvere con
la lotta senza passare per il dialogo e la collaborazione.
Anche le Colonie libere italiane (CLI), le associazioni
più diffuse nel dopoguerra, si resero conto solo tardivamente della
irrealizzabilità di tante loro proposte e dell’improprietà dei metodi di lotta
per la difesa degli interessi degli immigrati. Sviluppatesi in Svizzera tra gli
esuli italiani dopo la caduta del fascismo con intenti politici, aspiravano ad
assumere «la rappresentanza unitaria di
tutti gli italiani dimoranti in Svizzera» sia verso l’Italia che verso la
Confederazione, ignorando altri tipi di rappresentanza (per esempio i sindacati
locali) e i tradizionali metodi di mediazione svizzeri. Dagli anni Sessanta,
tuttavia, anche le CLI cominciarono ad aprirsi maggiormente alla collaborazione
e a moderare le rivendicazioni senza lasciarsi dominare da presunte
(nell’ottica svizzera) forze eversive (comuniste).
Negli anni Sessanta e Settanta vennero sprecate in sterili
lotte di stampo ideologico tante energie, che avrebbero prodotto ben altri
risultati se si fossero investite nella cultura, nella formazione, nell’apprendimento
linguistico, nell’accompagnamento scolastico mirato dei figli degli immigrati,
nell’integrazione. Purtroppo in molte associazioni mancavano idee chiare sul
futuro dell’immigrazione e dello stesso associazionismo.
Eccezioni benemerite
Ci furono tuttavia associazioni che attorno alla metà degli
anni Sessanta cominciarono a rendersi conto che la soluzione di tanti problemi
passava necessariamente attraverso il coinvolgimento di istituzioni diverse,
italiane e svizze
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Sede del CISAP (1972) |
Un’istituzione tra quelle che meglio si sono inserite in
questo filone, assumendo dalla seconda metà degli anni Sessanta un’importanza
notevole nel campo dell’integrazione sociale e professionale degli immigrati, è
stata il CISAP, sorta nel 1966
a Berna come centro italo-svizzero di formazione
culturale e professionale. Il suo esempio è rilevante nella storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera del secondo dopoguerra perché ha fatto
capire che, in questo Paese molti problemi importanti sono risolvibili solo partendo
da una solida formazione scolastica e professionale e attraverso un’ampia
collaborazione istituzionale.
Il CISAP, di cui si parlerà diffusamente in altro articolo,
fu il maggior esempio di riuscita nel campo della formazione professionale per
adulti perché individuò chiaramente il percorso più idoneo per raggiungere
determinati obiettivi professionali, economici e sociali e fondò la sua forza
nella collaborazione diffusa e responsabile tra autorità italiane e svizzere, organizzazioni
professionali sindacali e padronali, associazioni e singole persone interessate.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando il discorso
dell’integrazione specialmente delle seconde generazioni si fece più chiaro e
convincente, anche i media (stampa, radio e televisione) diedero un grande
contributo al superamento di numerose forme d’incomprensione e d’intolleranza,
mettendo in evidenza i vantaggi delle sinergie, del dialogo, della
collaborazione anche allo scopo di neutralizzare meglio le forze xenofobe
sempre in attività. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 15.05.2019
Berna, 15.05.2019