21 dicembre 2023

ANNIVERSARI: 7. 1943-2023 Pio XII, il genocidio e la pace

Il 1943 è stato per l’Italia un anno drammatico: nonostante la destituzione di Mussolini come capo del fascismo e del governo, la guerra continuò a mietere morti e a spargere dolore e lacrime. L’armistizio dell’8 settembre provocò la spaccatura dell’Italia in due parti: quella del centro-nord occupata dai nazifascisti e sconvolta da episodi di guerra civile e quella del sud liberata dagli Alleati dopo la fuga del Re Vittorio Emanuele III in Puglia. Roma, la Città eterna e centro della cristianità, non fu risparmiata né dai tedeschi, che l’occuparono, né dagli americani che la bombardarono. Lo stesso Vaticano si sentì minacciato e la sua diplomazia ammutolì di fronte alle minacce naziste. Persino il papa sembrò rinunciare a far sentire la sua voce, forse ritenendola ininfluente e persino dannosa per molte persone. Nel 1943, tuttavia, Pio XII (ruppe il silenzio, ma non riuscì a fermare la guerra.

Pio XII e gli ebrei

Sul «silenzio» di Pio XII si continua a discutere, ma nessun documento e nessun ricercatore serio potrà mai sostenere che Pio XII non abbia agito secondo coscienza o senza un’attenta valutazione delle informazioni che riceveva da ogni parte del mondo, sia attraverso la propria rete diplomatica ed ecclesiastica (nunzi, vescovi, ordini religiosi) e sia tramite i diplomatici accreditati presso la Santa Sede. Poiché non tutte avevano lo stesso grado di fondatezza è comprensibile che al papa venissero inoltrate dai servizi di controllo solo quelle informazioni ritenute importanti e credibili. Del resto sarebbe stato impossibile anche per il geniale papa Pacelli leggere tutto e pure verificare l’attendibilità delle fonti e la veridicità dei contenuti.

Pertanto, dedurre, come ha fatto il noto giornalista italiano Massimo Franco, dal semplice ritrovamento negli archivi vaticani di una lettera del dicembre 1942 in cui si accennava ad alcuni campi di concentramento e a un forno crematorio, che Pio XII «era a conoscenza dei crimini compiuti dai nazisti nei campi di sterminio», ossia della Shoah, mi pare francamente azzardato e senza fondamento. Non è dato sapere, infatti, se quella lettera il papa l’abbia mai letta e se l’autore, «un gesuita tedesco antinazista» fosse considerato in Vaticano una fonte sicura. Del resto, non si parlava ancora né di genocidio né di sterminio.

Affermare che «Pio XII preferì tacere o al massimo esprimere in termini generici la sua pena», come se mancasse di coraggio e consapevolezza dei suoi poteri è un’accusa gratuita e senza fondamento. Avendo ereditato dal suo predecessore Pio XI un’avversione profonda al comunismo e al nazismo ed essendo fin dall'inizio del suo pontificato nel 1939 a conoscenza di tanti crimini nazisti sarebbe sicuramente intervenuto volentieri per condannarli. Se non lo fece è dovuto anche alla prudenza, dunque una virtù, che gli suggerivano soprattutto i vescovi tedeschi, ma anche considerazioni di opportunità.

Pio XII e la pace

L'ingresso del campo di sterminio di  Auschwitz con la
famigerata scritta: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.

Una chiave autentica di interpretazione del «silenzio» di Pio XII la diede egli stesso in un discorso al Collegio cardinalizio e alla Prelatura romana alla vigilia di Natale 1943. Dopo aver accennato al profondo turbamento che si stava diffondendo tra la popolazione e specialmente tra i romani e ricordato di aver raccomandato loro «la calma e la moderazione e di astenersi da qualsiasi atto inconsulto, che non farebbe se non provocare ancor più gravi sciagure», Pio XII fornì una spiegazione del suo silenzio: «Davanti a tale oscuro avvenire, il riserbo, inerente alla natura del Nostro ministero pastorale e da Noi sempre mantenuto di fronte alle vicissitudini dei conflitti terreni, Ci sembra in questo momento più che mai necessario, per evitare che l'opera della Santa Sede, rivolta al bene delle anime, corra il pericolo, per false o mal fondate interpretazioni, di venir travolta ed esposta ai colpi del fuoco incrociato dei contrasti politici».

In realtà si potrebbe anche aggiungere che il «silenzio» del papa sulla Shoah fu dovuto oltre che all'oscurità che regnava su di essa, almeno fino al 1942, anche al fatto che gli interessi di Pio XII erano focalizzati sui tentativi dapprima di evitare la guerra e poi di giungere presto alla pace. Allo scoppio della seconda guerra mondiale aveva ammonito: «Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra». Non fu ascoltato e «lo spirito della violenza vinse sullo spirito della concordia e della intesa: una vittoria che fu una sconfitta»

Pio XII non cessò mai, tuttavia, in particolare nei discorsi di Natale dal 1939 al 1943, di invocare la pace e «delineare con chiarezza le basi psicologiche, giuridiche e religiose di una pace duratura» (Hans Küng). Ma non si limitò a parlare e a scrivere. Durante l’occupazione di Roma il suo impegno a favore della cittadinanza, degli ebrei (riuscì a salvarne almeno15.000) e di quanti fuggivano dal nazifascismo fu incondizionato.

Ricordarlo, oggi, alla vigilia di un Natale nuovamente insanguinato, quando un altro grande papa, Francesco, rinnova costantemente gli stessi appelli per una pace giusta e duratura e si prodiga in tutti i modi per dare al mondo intero una casa sicura e accogliente per tutti, mi sembra doveroso e utile per la nostra riflessione.

Giovanni Longu
Berna 20.12.2023

13 dicembre 2023

ANNIVERSARI: 6. MCLI di Berna necessaria nel passato, utile nel futuro

La Missione cattolica di lingua italiana (MCLI) di Berna ha celebrato quest’anno nel corso di alcune manifestazioni e attraverso un libro i 60 anni della chiesa dedicata alla Madonna dei migranti. Sono stati anche ricordati il 1° anniversario della canonizzazione di San Giovanni Battista Scalabrini, fondatore della congregazione scalabriniana, i 96 anni della Missione cattolica italiana (MCI) di Berna e i 76 anni di attività dei missionari scalabriniani. Ciascuno di questi anniversari meriterebbe una trattazione specifica, ma evidenti ragioni di spazio la rendono impossibile. Mi limiterò pertanto ad alcune considerazioni generali sulla «missione» di questa istituzione bernese certamente benemerita.

La MCI è stata un punto di riferimento importante

Sede della MCLI di Berna.

La MCI, oggi MCLI, ha accompagnato per un lungo tratto l’evoluzione dell’immigrazione italiana nel Cantone di Berna, offrendo servizi importanti non solo religiosi, ma anche sociali, assistenziali e d’intrattenimento. Benché la sua storia, contrariamente a quel che si legge nel sito della Missione («la storia della MCLI di Berna è la storia della comunità italiana...»), non coincida con quella della comunità italiana di Berna, questa non sarebbe completa senza la prima. Ha contribuito, infatti, in misura rilevante, a dare unità, senso di appartenenza e sviluppo alla collettività italiana, rafforzandone alcuni caratteri identitari.

Bisogna tuttavia ricordare che allora, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, i bisogni esistenziali degli immigrati erano tanti e non c’erano istituzioni e servizi in grado di soddisfarli. Poiché nello spirito scalabriniano ed evangelico agli emigrati andava garantita comunque una forma di assistenza essenziale, la MCLI si è investita anche di compiti che hanno a che fare più col «sociale» che col «religioso».

Da alcuni decenni, tuttavia, la collettività italiana è molto cambiata. E’ venuta meno per la maggioranza dei residenti di oggi gran parte degli ostacoli (incomunicabilità, isolamento, nostalgia, precarietà, ecc.) che rendevano problematica la permanenza in Svizzera di molti immigrati. Purtroppo sta cambiando velocemente in Svizzera (ma non solo) anche il panorama religioso. Il virus della secolarizzazione, del relativismo e dell'indifferenza religiosa sta contagiando anche la collettività italiana. La MCLI ne ha dovuto tener conto, abbandonando alcuni compiti «sociali» che si era assunti per dedicarsi maggiormente alla «cura spirituale».

La MCLI di fronte a nuove sfide.

Se fino agli anni ’60 la stragrande maggioranza della popolazione residente era cristiana, oggi più del 30% si dichiara senza appartenenza religiosa e aumentano le persone che lasciano le confessioni cattolica ed evangelica, anche tra gli italiani. Inoltre, molti «credenti» considerano la religione una questione «privata» e non sentono alcun bisogno di chiese e di comunità. In effetti le chiese sono sempre più vuote e la pratica religiosa sempre più ridotta.

Questa situazione rappresenta per la MCLI una sfida difficile, anche perché la sua popolazione di riferimento ha ulteriori esigenze. I due gruppi principali che la compongono, quello «giovanile» (nuovi immigrati e giovani di seconda e terza generazione non «immigrati») e quello «anziano» (per lo più immigrati pensionati della prima generazione) hanno infatti bisogni diversi da quelli degli italiani degli anni Cinquanta e Sessanta. Se non incontrano risposte adeguate, la reazione è pressoché scontata: i giovani fanno a meno della chiesa e della MCLI, gli anziani si rassegnano.

Per questo la MCLI sta modificando da tempo la sua offerta, riorientandola verso la cura spirituale secondo lo spirito del fondatore san Giovanni Battista Scalabrini, che stimolava i sacerdoti a «lavorare, affaticarsi, sacrificarsi in tutti i modi per dilatare quaggiù il Regno di Dio e salvare le anime» (Lettera pastorale per la Quaresima del 1892). In questa prospettiva, la chiesa della MCLI, di cui si celebra quest'anno il 60°, riacquista la piena centralità.

La «cura spirituale»

Ambone della chiesa della MCLI di Berna, dedicata alla Madonna dei migranti.
Per vincere la sfida, i missionari della MCLI di Berna dovrebbero forse continuare ad autolimitarsi in qualche compito «sociale» (delegando ai laici, uomini e donne, tutto ciò che non compete al ministero sacerdotale) per concentrarsi nella «cura spirituale». L’offerta, già ampia, potrebbe estendersi ulteriormente, proponendo, per esempio, brevi corsi di autoanalisi dello spirito (esercizi spirituali), scambi di esperienze e di proposte, incontri di preghiera e di approfondimento religioso, migliorando la comunicazione scritta in italiano (utilizzando anche lo spazio disponibile sul Pfarrblatt), favorendo il dialogo interreligioso, promuovendo gruppi ecclesiali anche nelle parrocchie a forte presenza di italiani e stranieri, ecc.

«Prendersi cura di…», il tema del progetto pastorale della MCLI di Berna per il 2023-2024, potrebbe essere inteso non solo come «aver cura di…», ma anche come «cura spirituale degli emigranti», come voleva San Giovanni Battista Scalabrini, nel senso di «curare» le loro ferite, i loro dubbi, le loro fragilità. Poiché il compito non è facile, la MCLI dovrà continuare a chiedere e a favorire la collaborazione dei laici, al centro e nella periferia. Solo così sarà possibile garantire lunga vita alla MCLI e alla collettività italiana e italofona di Berna il suo prezioso sostegno.

Giovanni Longu
Berna, 13 dicembre 2023 

06 dicembre 2023

ANNIVERSARI: 5. 1949-2023: Le Convenzioni di Ginevra necessarie e utili, ma insufficienti

In questi tempi turbati dagli orrori di molte guerre, che evidenziano quanto odio e quanta ingiustizia ci siano ancora nel mondo, invano s’invocano le «Convenzioni di Ginevra» perché venga rispettato almeno il diritto umanitario internazionale. L’opinione pubblica è sconvolta da quel che avviene in Ucraina, nel Vicino Oriente e in altre parti del pianeta, ma non riesce a mobilitarsi contro i veri responsabili di crimini di guerra. Talvolta si ha l’impressione che trincerandosi dietro un senso d’impotenza, di fatto si voglia lasciare ad altri il compito di denunciarli, per esempio all'ONU, alla UE, al Papa o a qualche governo influente. Del resto è difficile escludere che questo senso d’impotenza nasconda una diffusa indifferenza e acquiescenza di fronte alla presunta inevitabilità della guerra.

Necessità di una presa di coscienza universale

Si può comprendere don Abbondio nei Promessi Sposi del Manzoni, che di fronte al rimprovero del cardinale Federico Borromeo di essere venuto meno ai suoi doveri cerchi di giustificare le sue paure dicendo che «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare»; infatti il povero prete rischiava davvero. Ma come si può comprendere che le nostre società, securizzate da servizi d'«intelligence» efficienti, da potenti sistemi di difesa e da alleanze militari superdotate, accettino che continui la guerra devastante in Ucraina con centinaia di migliaia di morti e una regione altamente popolata come la Striscia di Gaza sia rasa al suolo con migliaia di morti? Come si può non denunciare che la guerra è una violazione evidente dei diritti umani, del diritto alla vita, del diritto alla prosperità comune?

Purtroppo, anche quando si richiamano le Convenzioni di Ginevra, adottate soprattutto per proteggere le popolazioni civili, si dà per scontato che le guerre siano inevitabili, benché tutti aspirino a vivere in pace. Eppure è difficile dar torto a Papa Francesco, quando sostiene che «la guerra è sempre una sconfitta», che «non dobbiamo abituarci alla guerra, a nessuna guerra» e che «non dobbiamo permettere che il nostro cuore e la nostra mente si anestetizzino davanti al ripetersi di questi gravissimi orrori contro Dio e contro l'uomo».

Manca evidentemente la volontà comune di estirpare la guerra non solo dai vocabolari di tutto il mondo, ma anche e soprattutto dalle coscienze di quanti non hanno ancora recepito i nuovi orientamenti del diritto internazionale basato sui diritti delle persone prima che sul diritto degli Stati. Una falsa coscienza patriottica impedisce ancora di superare il vecchio principio dell’integrità territoriale degli Stati e di accettare principi come la soluzione pacifica delle controversie internazionali, l’uguaglianza dei popoli, il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione, ecc.

Le Convenzioni di Ginevra

Le Convenzioni di Ginevra, di cui ricorre quest’anno il 74° anniversario della loro adozione, hanno sempre ricordato ai belligeranti alcune esigenze minime nel condurre le operazioni militari, ma non sono ancora riuscite a indurli a risolvere pacificamente le controversie, evitando l’uso delle armi. Eppure, per citare ancora Papa Francesco, «la pace è sempre possibile», basta cercarla e volerla! Ma basterebbe anche solo ricordare l’origine di quelle Convenzioni. La prima e la seconda guerra mondiale avevano prodotto decine di milioni di vittime militari e civili, intere generazioni di giovani decimate, nazioni devastate dalle distruzioni e dalle lacerazioni profonde nel tessuto sociale, popolazioni ridotte alla fame e costrette ad emigrare.

Di fronte a questi disastri umani, su invito del Consigliere federale Max Petitpierre, nel 1949 si riunirono a Ginevra i rappresentanti di molti Paesi per cercare strumenti efficaci di protezione delle vittime della guerra. Furono discusse e firmate quattro Convenzioni (note appunto come Convenzioni di Ginevra), che impegnano gli Stati belligeranti a rispettare la dignità dei combattenti, a proteggere le strutture sanitarie (ospedali, posti di soccorso, infermerie, ambulanze, ecc.), il personale medico e paramedico, in particolare i malati e i feriti, ad assistere, curare e rispettare i prigionieri, a proteggere da atti di violenza e dall'arbitrio i civili che si trovano in mano nemica o in territorio occupato.

A distanza di 74 anni, nessuno può negare la necessità e l’utilità di quelle Convenzioni nei conflitti armati, ma non si può dimenticare che si tratta di misure «curative». E’ tempo di porre mano a misure «preventive» e non c’è dubbio che l’opinione pubblica può determinare la volontà delle Nazioni Unite e degli Stati membri ad adottarle e a farle rispettare. Se si è in pochi ad invocare la pace e la giustizia, quell'invocazione è come una voce che grida nel deserto; ma se è una moltitudine a reclamarle a gran voce è come un vento che scuote la foresta rigogliosa ma intorpidita.

Giovanni Longu
Berna 6.12.2023

22 novembre 2023

ANNIVERSARI: 4. 1948-2023 75 anni della Costituzione italiana

Il 1° gennaio 1948 entrava in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, dunque 75 anni fa. Per l’età e la lentezza di funzionamento di qualche suo organo, c’è chi la considera «vecchia» e, almeno in parte, da sostituire. Certamente è modificabile, ma prima di metter mano a cambiamenti discutibili, non si dovrebbe almeno cercare di realizzare pienamente le parti non modificabili (Principi fondamentali), che conservano un’incredibile potenzialità di sviluppo? Mi soffermerò, a titolo di esempio, soltanto su un paio di articoli, che illustrano bene sia la serietà e lungimiranza dei padri costituenti che li hanno pensati e imposti e sia la loro insufficiente attuazione da parte di Governi distratti evidentemente da altri interessi.

L’Italia è fondata sul lavoro e sui lavoratori

L’articolo 1 recita: L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Non può essere senza significato che la Costituzione italiana inizi con questo articolo di una forza e una portata straordinaria. Infatti, esso indica non solo il fondamento su cui i padri costituenti hanno voluto che nascesse e si sviluppasse l’Italia repubblicana, ma anche il metodo con cui gli organi dello Stato avrebbero dovuto svolgere le loro funzioni, ossia in maniera solida, democratica, costituzionale, sostenibile.

Nella prima frase, questo articolo stabilisce anzitutto che l’Italia è fondata sul lavoro dei propri cittadini, non potendo contare né su materie prime inesistenti nel suo sottosuolo, né su rendite coloniali o di altra origine e nemmeno sul prestigio internazionale perché l’Italia aveva perso la guerra e si trovava in uno stato pietoso. L’unica vera potenzialità su cui potevano e quindi dovevano contare gli italiani era il lavoro.

Solo attraverso il lavoro la nuova Repubblica si sarebbe riscattata dall'onta della sconfitta e avrebbe affrontato con determinazione e fiducia la grande sfida della ricostruzione, del riposizionamento nel contesto delle grandi democrazie occidentali, della riconquista del benessere e della spinta innovativa verso quella cooperazione fra i popoli che si stava prospettando a livello europeo e mondiale.

La sovranità appartiene al popolo

La seconda frase è un’estensione della prima, dove già si diceva che l’Italia è una Repubblica «democratica», ossia basata sul governo del «popolo» (demos). Ora, tuttavia, il popolo che lavora viene indicato espressamente come «sovrano», ossia come autorità suprema che non ne ha alcun’altra al di sopra. Non è «suddito» che dipende dalla sovranità dello Stato, ma è lui il «sovrano», protagonista e artefice del proprio destino, anche se esercita il potere solitamente tramite organismi delegati ad agire in suo nome.

Dicendo che «la sovranità appartiene al popolo», i costituenti non hanno voluto soltanto escludere altre fonti superiori del diritto e del potere (come si sosteneva spesso nel passato), ma hanno inteso segnalare che è il popolo che lavora l’unico «sovrano» d’Italia, a cui si deve rispetto e pieno sostegno per poter raggiungere attraverso il lavoro i suoi obiettivi di sviluppo e prosperità. E per non restare nel vago e nell'incerto hanno voluto precisare che la sovranità è esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione». E’ ovvio, perché una società ordinata ha le sue regole, le quali, però, non vengono imposte dall'alto, ma sono condivise dal basso.

La Repubblica tutela il lavoro

Per le ragioni dette, una delle principali conseguenze derivanti dall'articolo 1 della Costituzione dovrebbe essere l’obbligo dello Stato di tutelare il lavoro non solo in Italia la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», art. 35, comma 1), ma anche all'estero («tutela il lavoro italiano all'estero», art, 35, comma 4). E’ invece sotto gli occhi di tutti che questa tutela è carente, non solo perché si assiste ancora a troppe morti sul lavoro e a forme inaccettabili di sfruttamento, ma soprattutto perché mancano specialmente al Sud sufficienti e adeguati posti di lavoro e non si riesce a evitare che molti cittadini siano costretti a emigrare al Nord e persino all'estero.

Si può dire, come ripete spesso il presidente Mattarella, che emigrare dovrebbe essere un’«opportunità», ma di fatto è ancora una «scelta obbligata» e bisognerebbe richiamare lo Stato all'obbligo di tutelare maggiormente il lavoro, a favorire gli investimenti e l’occupazione specialmente al Sud e a porre in essere, finalmente, misure efficaci per arrestare i flussi emigratori involontari. Se lo facesse sarebbe un bell'omaggio alla Costituzione, sempre vitale, e ai padri costituenti che hanno visto bene e lontano, ma anche una forma di rispetto verso il popolo sovrano e un contributo alla prosperità comune.

Giovanni Longu
Berna 22.11.2023

15 novembre 2023

ANNIVERSARI: 3. 1913-2023: 110 anni della sede dell’Ambasciata d’Italia a Berna

Tra i tanti anniversari meritevoli di essere ricordati quest’anno, a molti italiani residenti in Svizzera, soprattutto nella regione di Berna, potrebbe interessare anche quello dei 110 anni della sede dell’Ambasciata d’Italia di Berna. Viene qui rievocato non tanto perché questa sede è un manufatto di pregio, ma soprattutto perché da 110 anni accoglie i massimi rappresentanti dello Stato italiano. Ricordandone l’origine non si può non parlare anche del marchese Raniero Paulucci di Calboli, il primo inquilino che l’ha scelta e acquistata per dare alla rappresentanza diplomatica italiana una sede «dignitosa» e corrispondente all'importanza che l’Italia aveva raggiunto in Europa e nel mondo agli inizi del secolo scorso.

Prima del 1913: sedi provvisorie

Berna, Elfenstrasse 10: dal 2013 splendida Residenza dell'ambasciatore d'Italia in Svizzera
Prima del 1913 la rappresentanza diplomatica italiana a Berna (allora Legazione… fino al 1953, quando divenne Ambasciata) non aveva una sede di proprietà dello Stato italiano, ma utilizzava in locazione locali privati nel quartiere storico Kirchenfeld, sviluppatosi negli ultimi decenni dell’Ottocento anche grazie al contributo lavorativo e imprenditoriale italiano. I capimissione (incaricati d’affari, plenipotenziari, ambasciatori) alloggiavano generalmente in ville isolate o nel Bernerhof (vicino al Palazzo federale), allora l’unico hotel di lusso della capitale, che accoglieva solitamente gli ospiti illustri della Confederazione.

Nel 1912 fu chiamato a dirigere la Legazione italiana il marchese Raniero Paulucci di Calboli, un brillante diplomatico con esperienze a Londra, Vienna, Parigi… Giunto a Berna e accreditato presso il Consiglio federale come ministro plenipotenziario di prima classe del Re d’Italia (febbraio 1913), deve aver trovato la sede assegnatagli inadeguata ai suoi compiti e al prestigio dell’Italia. Egli stesso (contrariamente a quel che si legge nel sito Web dell’Ambasciata), senza una residenza corrispondente al suo rango e vicino agli uffici della Legazione, preferì alloggiare, come il suo predecessore Fausto Cucchi Boasso, al Bernerhof.

Dopo il 1913: una sede propria «dignitosa»

La sede diplomatica italiana era in effetti inadeguata all'intensificarsi dei rapporti italo-svizzeri negli ultimi decenni, non da ultimo per il continuo flusso immigratorio dall'Italia e lo sviluppo incessante degli scambi commerciali, ma probabilmente anche ai nuovi compiti che lasciavano presagire i venti di guerra che cominciavano a soffiare in Europa. La Svizzera, Berna, era considerata centrale per le informazioni.

L'amb. Raniero Paulucci di Calboli (al centro) a Tokio nel 1920
Al marchese Paulucci, che godeva di grande notorietà e di notevoli beni di famiglia, non dev'essere stato difficile trovare una sede più consona nello stesso quartiere Kirchenfeld. Così, nel novembre 1913, acquistò in proprio una delle più belle ville (Villa Kern) della capitale con l’adiacente dépendance e un grande parco. La villa (Elfenstrasse 10) venne utilizzata dal marchese come residenza del Capo Missione e della sua famiglia (lui stesso, la moglie Virginia Lazzari Tornielli, nipote di un influente diplomatico e i due figli Fulcieri, futuro medaglia d’oro, e Camilla), mentre il secondo edificio (Elfenstrasse 14) fu destinato a Cancelleria diplomatica e sede ufficiale della Legazione italiana.

Il complesso architettonico, funzionale e «dignitoso», si distingue soprattutto per la varietà degli stili architettonici (l’Heimatstil che ben si accompagna con lo Jugendstil o Art Nouveau e alcune forme neobarocche) che gli conferiscono un carattere romantico per il facile richiamo a ville e residenze borghesi di fine secolo, spesso, come in questo caso, immerse in parchi lussureggianti. Evidentemente il marchese aveva anche buon gusto, oltre che straordinarie doti diplomatiche. 

«Il padre di Fulcieri»

Probabilmente, egli sarà ricordato, nella storia dei rapporti italo-svizzeri, oltre che per l’acquisizione della sede diplomatica, per il rafforzamento dell’«amicizia» tra i due Paesi (anche grazie ai legami di amicizia col consigliere federale Giuseppe Motta e con altre personalità della politica svizzera) in un periodo particolarmente difficile (prima guerra mondiale), per il prestigio che godeva negli ambienti letterari e artistici, per le sue grandi doti di comunicatore in più lingue, ecc.

Egli sarà ricordato certamente, nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, anche per la grande empatia dimostrata verso i connazionali immigrati. Per conoscere i loro problemi visitò numerosi cantieri, le principali «colonie» e le loro organizzazioni. Prima, durante e dopo la guerra intervenne più volte presso il Governo per segnalare i problemi, «le lacrime di dolore della parte più debole ed indifesa della nostra emigrazione», ma anche proponendo soluzioni. Ed era sincero. Ma sulla sua tomba volle che si scrivesse: «Fu il padre di Fulcieri».

Giovanni Longu
Berna 15.11.2023

08 novembre 2023

ANNIVERSARI: 2. 1868-2023: 155 anni di emigrazione/immigrazione «regolare»

In un ipotetico bilancio di fine «carriera lavorativa» della stragrande maggioranza degli italiani immigrati in Svizzera si troverebbero facilmente vantaggi e svantaggi, ma anche il saldo finale positivo. Lo fanno pensare indagini statistiche e cronache giornalistiche, smentendo quei denigratori nostrani di professione che vedono nell'esperienza migratoria solo aspetti negativi (sfruttamento, discriminazione, disgrazie, «infanzia negata» a mezzo milione di bambini, ecc.). Che questi abbiano torto lo dimostrano, fra l’altro, queste cifre: nel 1870 risiedevano in Svizzera poco più di 18.000 cittadini appartenenti al Regno d’Italia, mentre oggi i cittadini italiani, molti anche con la doppia cittadinanza italiana e svizzera, sono circa 700.000. Inoltre, da quasi un ventennio il saldo migratorio è nuovamente positivo (più arrivi e meno rimpatri) perché i «nuovi immigrati» continuano a venire.

1868: basi solide per l’emigrazione/immigrazione

Svizzera e Italia, come due sorelle (statua alla stazione di Chiasso
in ricordo della prima grande impresa ferroviaria comune)
Il bilancio positivo a cui si accennava non va considerato né casuale né merito di una parte piuttosto che dell’altra, ma il risultato di molteplici fattori che hanno trovato solide basi nel Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia del 1868, considerato anche il primo accordo italo-svizzero di emigrazione/immigrazione «regolare».

Chi conosce la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera sa che il suo sviluppo non è stato sempre né lineare né esemplare, ma ha conosciuto momenti difficili, sia nelle relazioni bilaterali (incomprensioni, intromissioni e persino una breve rottura diplomatica) che nella convivenza delle due popolazioni (a causa di pregiudizi, paure, diffidenza, incomunicabilità, ecc.). Eppure la storia… continua, non per forza d’inerzia, ma perché regge lo spirito che sostanziava quel Trattato del 1868, per altro ancora in vigore.

Di quell'accordo, si è soliti ricordare solo alcuni articoli (certamente importanti perché riguardavano la libertà di domicilio degli italiani e degli svizzeri rispettivamente in Svizzera e in Italia, la libertà di commercio e le immunità e i privilegi degli agenti consolari), mentre non viene quasi mai sottolineato lo spirito che lo animava. Eppure è soprattutto questo che ancora sopravvive e si è anzi rafforzato nel tempo, mentre il resto del Trattato è stato superato da altri accordi bilaterali e internazionali. Per questo merita di essere rievocato in questo 155° anniversario.

Spirito di amicizia e di buon vicinato

Si legge nel preambolo: «Il Consiglio federale della Confederazione Svizzera e Sua Maestà il Re d’Italia, mossi dal desiderio di mantenere e rassodare le relazioni d’amicizia che stanno fra le due nazioni, e dare mediante nuove e più liberali stipulazioni più ampio sviluppo ai rapporti di buon vicinato tra i cittadini dei due paesi, assicurando ad un tempo agli agenti consolari rispettivi le immunità e i privilegi necessari per l’esercizio di loro funzioni, hanno risolto di conchiudere una Convenzione di stabilimento e consolare…».

In queste parole è racchiuso, come in uno scrigno, lo spirito che animava la Svizzera e l’Italia in quell’epoca… e certamente ancora oggi. Lo si ritrova soprattutto in queste espressioni: «desiderio di mantenere e rassodare», «relazioni di amicizia» e «rapporti di buon vicinato». Il senso delle parole è facilmente intuibile da chiunque, ma potrebbe invece sfuggire il nesso che le unisce e le sostanzia. Non si tratta, infatti, soltanto del desiderio di intrattenere rapporti di buon vicinato tra Paesi che hanno un lungo confine in comune e nemmeno di generiche relazioni amichevoli tra i rispettivi governi e tra i cittadini delle regioni contigue, ma della volontà di rafforzare e sviluppare buoni rapporti in tutti i settori d’interesse reciproco.

Espressioni e convinti sostenitori di quello spirito e di quella volontà sono stati sicuramente i due governi interessati, ma specialmente i due plenipotenziari di Svizzera e Italia, Giovan Battista Pioda (1808-1882) e Luigi Amedeo Melegari (1805-1881), due giganti delle diplomazie svizzera e italiana. 

Collaborazione e interesse reciproco

Che non si trattasse solo di un «desiderio», ma di una volontà comune e di un impegno solenne, lo dimostra l’articolo 1 che afferma: «Tra la Confederazione Svizzera e il Regno d’Italia vi sarà amicizia perpetua, e libertà reciproca di domicilio e di commercio». Una tale amicizia, come si può ben capire, non può esserci tra istituzioni impersonali, per cui va intesa come condivisione di valori ideali e attività concrete e possibilmente continuative, di cui devono poter beneficiare, sia pure in forme diverse, entrambe le parti.

In 155 anni questi rapporti si sono consolidati e sviluppati sia nella sfera commerciale che in campo linguistico, culturale, scientifico, ma soprattutto umano e professionale, con flussi ininterrotti di immigrati che a questo Paese hanno dato molto e dal quale hanno ricevuto molto, secondo lo spirito del Trattato del 1868, che sostanziava collaborazione e interessi reciproci. Senza la reciprocità dei benefici, purtroppo ignorata ancora oggi in molte narrazioni dell'immigrazione italiana in Svizzera, i flussi migratori tra l'Italia e la Svizzera si sarebbero interrotti da tempo e la collettività italiana in questo Paese sarebbe più ridotta e meno importante.

Lo stesso spirito, al quale si è aggiunto nel frattempo quello dell’integrazione europea, continua a soffiare. A beneficiarne sono ora le seconde e successive generazioni e i nuovi immigrati, che, in condizioni e modi diversi, contribuiscono a loro volta ad avvalorare l’«amicizia perpetua» tra la Svizzera e l’Italia suggellata col Trattato del 1868, 155 anni fa.

Giovanni Longu
Berna 8.11.2023 

25 ottobre 2023

ANNIVERSARI: 1. 1848-2023: 175 anni della Costituzione federale

In una breve serie di articoli a partire da questo saranno rievocati alcuni eventi d’importanza nazionale e talvolta anche internazionale di cui quest’anno ricorrono anniversari meritevoli di essere ricordati. Dovendo operare per evidenti ragioni una scelta, questa è stata fatta seguendo in particolare questi criteri: l’interesse dei lettori per eventi di grande portata, la rilevanza che la maggior parte degli eventi commemorati ha avuto sull'evoluzione dell’immigrazione italiana in Svizzera e l’importanza che alcuni di essi hanno avuto nella storia mondiale anche recente. Comincio, per ragioni cronologiche (dal più remoto a quello più recente), dal 175° anniversario della Costituzione federale.

Prima del 1848: la Lega (litigiosa) dei Cantoni

La Costituzione federale ha garantito l'unità e le diversità cantonali
tradizionali, economiche, culturali, linguistiche, confessionali..

Prima del 1848 esisteva in Svizzera la «Lega dei Cantoni», piccoli ma veri e propri Stati, che si comportavano come tali anche fra loro, mettendo in luce le loro peculiarità e diversità (sociali, confessionali, economiche…) e dimenticando talvolta il «Patto», l’alleanza che li legava per difendersi da eventuali aggressioni nemiche e risolvere i dissidi interni. Spesso le divergenze finivano per prevalere e sfociavano talvolta in vere e proprie guerre.

Il Congresso di Vienna del 1815, aveva rafforzato la vecchia Confederazione verso l’esterno con l’integrazione dei Cantoni di Neuchâtel, Ginevra e del Vallese, ma non verso l’interno, dove i litigi intercantonali erano frequenti. Le Grandi Potenze (Austria, Gran Bretagna, Prussia, Russia e Francia), in competizione fra loro per il predominio europeo, probabilmente consideravano la Svizzera una sorta di «Stato cuscinetto», né troppo debole né troppo forte, per impedire eventuali mire espansionistiche dell’una o dell’altra potenza. Per questo le avevano anche imposto la neutralità permanente, ma non avevano pensato al suo rafforzamento interno (compattezza e stabilità) per poter svolgere agevolmente il suo compito.

Di fatto i Cantoni continuavano a comportarsi come Stati indipendenti specialmente in politica interna e senza alcun coordinamento con gli altri Cantoni in quasi tutti i campi. Per di più negli ultimi decenni della prima metà del secolo cresceva la divergenza tra i Cantoni (in maggioranza protestanti) che aspiravano a un maggiore centralismo (Stato federale) e i Cantoni (in maggioranza cattolici) che si battevano per la completa autonomia cantonale.

Di fronte al pericolo di una concentrazione dei poteri nelle mani della Confederazione prevalentemente protestante a scapito dei Cantoni cattolici gelosi della propria autonomia, sette di questi (Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo, Friburgo e Vallese) decisero di costituire una «Lega separata» (Sonderbund) e un proprio esercito (un po’ raccogliticcio). Non durò però a lungo perché i Cantoni protestanti (Zurigo, Berna, Glarona, Soletta, Sciaffusa, San Gallo, Grigioni, Argovia, Turgovia, Ticino, Vaud, Ginevra) organizzarono tempestivamente un esercito ben più forte alle dipendenze dell'esperto generale Guillaume-Henri Dufour (1787/1875), che sconfisse in pochi giorni e con poche vittime i separatisti.

1848: la Costituzione e il federalismo

Per porre definitivamente fine alle lotte interne, dopo lunghe trattative, si giunse all'approva­zione di una nuova costituzione (1848) che trasformava praticamente un’alleanza di Stati in un vero e proprio Stato federale, garantiva l’equilibrio dei poteri con organismi centrali ben definiti e separati (Assemblea federale bicamerale, Consiglio federale e Tribunale federale) e politiche centralizzate solo in alcune materie (difesa, politica estera, dogane, ecc.). Il potere supremo (sovranità popolare) restava saldamente nelle mani del Popolo, che lo esercitava attraverso la democrazia diretta.

Il motto della Confederazione: «Uno per tutti - tutti per uno»
La Costituzione federale del 1848, per quanto imperfetta, perché subordinata alla logica della ripartizione del potere tra maggioranza (vincitrice della guerra del Sonderbund) e minoranza (cattolici conservatori sconfitti), ma emendabile e aperta ai cambiamenti, costituì il cemento unificante di tutte le principali diversità del Paese: Cantoni vincenti e Cantoni sconfitti, protestanti e cattolici, progressisti e conservatori, popolazioni urbane e popolazioni rurali, svizzeri tedeschi e svizzeri latini (francofoni e italofoni), Cantoni economicamente forti e deboli, ecc. Fu più volte modificata, ma mai stravolta nella struttura fondamentale e nello spirito originario.

I pilastri della nuova Confederazione

Oltre al federalismo e all'equilibrio dei poteri, i pilastri di sostegno della nuova Confederazione erano (e sono) costituiti dalla neutralità, di cui aveva già beneficiato e di cui beneficerà ancora a lungo, ma anche da alcuni principi di politica interna come la sussidiarietà e la solidarietà, tradotti nella massima ben evidenziata all'interno della cupola di Palazzo federale: «uno per tutti - tutti per uno».

Grazie a questi elementi strutturali la Confederazione in questi 175 anni è cresciuta enormemente, ha acquistato prosperità e prestigio nel mondo e può persino proporsi come modello, facilmente adattabile, per la soluzione di tanti problemi di convivenza interna e internazionale.

Giovanni Longu
Berna 25.10.2023

18 ottobre 2023

Successo e formazione continua

Si è detto, nell'articolo precedente, che molti italiani residenti in Svizzera occupano posti di alto livello praticamente in tutti i rami dell’economia. Si deve aggiungere che per arrivare e restare a questi livelli sono almeno due le condizioni indispensabili: un solido punto di partenza e una formazione continua. Molti italiani hanno raggiunto livelli professionali elevati perché al termine della scuola obbligatoria hanno conseguito una solida formazione di base (scuola di secondo grado superiore o apprendistato) alla quale hanno potuto aggiungere una seria formazione professionale. Tuttavia, per conservare e sviluppare la professionalità raggiunta, tutti senza eccezione hanno dovuto praticare la formazione continua.

Qualche esempio

A dimostrazione delle affermazioni precedenti si potrebbero portare numerosi esempi di personalità di origine migratoria italiana o con la doppia cittadinanza, che hanno raggiunto in Svizzera posizioni apicali nella finanza, nella scienza, nella ricerca. Ne cito tre: Sergio Ermotti, figlio di un immigrato italiano nel Canton Ticino, da apprendista in una banca luganese è diventato amministratore delegato della più grande banca svizzera, l’UBS. Valentina Gizzi, italo-svizzera, manager di importanti aziende è divenuta una delle 100 persone più influenti della Svizzera romanda. Ritiene che i grandi risultati professionali sono il risultato di tenacia più che del talento («Se ho un obiettivo in mente sono inarrestabile e lavorerò senza sosta finché non lo raggiungerò»). Silvia Quarteroni, italo-svizzera figlia di immigrati italiani, dopo studi «classici» in latino e greco è divenuta al politecnico federale di Losanna (PFL) dapprima ingegnera informatica, poi ricercatrice nel campo del linguaggio naturale ed esperta in intelligenza artificiale. Attualmente è responsabile dell’innovazione dello Swiss Data Science Center del PFL.

Formazione continua necessaria

Si potrebbero fare numerosi altri esempi di «secondi» riusciti, ma quelli citati sono sufficienti per chiarire soprattutto due concetti: il primo, in Svizzera, Paese dell’innovazione per eccellenza [dal 2011 è il Paese numero 1 al mondo per l'innovazione; emerge soprattutto nelle condizioni quadro per le imprese, nell'uso delle nuove tecnologie, nei brevetti e nella produzione di know-how e tecnologie], è ovvio che la formazione continua e la ricerca hanno un’importanza primordiale nella formazione; il secondo: chi non si aggiorna e segue la formazione continua prima o poi perde la professionalità acquisita con i rischi connessi, mentre a chi ha voglia di perfezionarsi e di raggiungere traguardi possibili anche se ambiziosi la Svizzera offre enormi possibilità.

La formazione continua dopo una solida formazione di base si sta affermando nel mondo come una componente essenziale della formazione professionale in tutti i settori economici. La Svizzera è uno dei Paesi più avanzati in questo ambito perché la qualità (competenza) della forza lavoro e l’innovazione sono indispensabili per mantenere l’economia svizzera competitiva a livello mondiale. Ma non è solo una questione economica, garantisce infatti anche un alto tenore di vita e consente allo Stato (Confederazione e Cantoni) di investire molto nelle università, nella ricerca e nella formazione in generale. [Nel 2020 la Confederazione, i Cantoni e i Comuni hanno speso 40,8 miliardi di franchi per il sistema formativo, ossia il 5,9% del prodotto interno lordo (EU: 4,6%; Italia: 4,1%). A queste cifre vanno aggiunte le spese sostenute per la ricerca e lo sviluppo dalle imprese private, che ammontano a circa 17 miliardi di franchi].

Discontinuità col passato immigratorio italiano?

La trasformazione in questi ultimi decenni del sistema produttivo svizzero e le nuove esigenze riguardanti le persone impiegate introduce nella tradizione immigratoria italiana un notevole cambiamento facilmente riscontrabile nei nuovi immigrati (più informati e meglio formati degli immigrati del secolo scorso) e nelle seconde e successive generazioni di italiani (senza problemi linguistici e d’inserimento nel sistema formativo svizzero e più propense alla naturalizzazione).

Sotto questo profilo, la discontinuità col passato immigratorio italiano sembra inevitabile, ma pone notevoli problemi, per esempio nel campo dell’associazionismo e della rappresentanza (eletti per il parlamento italiano, per il CGIE e per i Comites). Queste vecchie strutture sono in grado di interpretare anche le problematiche riguardanti i nuovi immigrati e le giovani generazioni? E ancora, sono in grado di garantire elementi di continuità tra vecchia immigrazione e nuova immigrazione?

Manca lo spazio per approfondire questa tematica, ma i problemi sono innegabili. Chi garantirà la valorizzazione dell’italianità lasciata in eredità dalle generazioni di immigrati italiani del secolo scorso? Chi contribuirà, insieme ai ticinesi e ai grigionesi, alla salvaguardia dell’italianità quale componente essenziale e vitale della Svizzera? A questo punto sarebbe auspicabile che i nuovi immigrati e le nuove generazioni si facessero carico responsabilmente di questa problematica, introducendo nelle risposte da dare anche un peso politico che le prime generazioni hanno invano cercato di poter dare.

Giovanni Longu
Berna 18.10.2023

11 ottobre 2023

Italiani in Svizzera: cosa fanno?

L’economia italiana sembra in buona salute, ma non tanto da trattenere tutti i potenziali operatori e attirarne dei nuovi. Da decenni l’Italia vive un periodo di lenta crescita economica e occupazionale, ma soprattutto i giovani e molte persone con una buona formazione professionale non hanno la pazienza di aspettare e preferiscono emigrare, forse attratti da economie più dinamiche, più solide e più corrispondenti alle loro aspettative. Molti di questi giovani e persone formate o in formazione arrivano in Svizzera, dove la disoccupazione è bassa (attualmente 2,0%), l’economia tira, le prospettive sono buone, l’occupazione qualificata cresce. Il quadro economico generale sembra offrire maggiore sicurezza per il presente e maggiore speranza per il futuro con ampie possibilità di perfezionamento e di carriera. Ma cosa fanno in realtà gli italiani in età lavorativa in Svizzera?

L’occupazione degli italiani

Intanto va rilevato che gli italiani (senza contare i binazionali), pur essendo ancora, secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica, il gruppo straniero più numeroso (nel 2022: 332.700 persone, pari al 3,9% della popolazione residente totale dai 15 anni in su), non forniscono la quota più elevata di lavoratori occupati. Prendendo in considerazione la popolazione dai 25 ai 64 anni, gli italiani (circa 188.000 persone) hanno un tasso di occupazione dell’82,3 per cento, inferiore non solo a quello dei tedeschi (89,9%) e degli austriaci (89,5%), ma anche a quello degli slovacchi, dei francesi, degli svizzeri (85,5%), dei greci e di altre popolazioni europee.

La relativamente bassa percentuale di italiani occupati è dovuta al fatto che la popolazione residente con la sola cittadinanza italiana conta ormai molti anziani (circa 65.000) e tanti giovani, diventando svizzeri con la naturalizzazione, non figurano più nelle statistiche degli stranieri.

A ciò si deve anche aggiungere che il tasso di occupazione delle donne italiane è piuttosto basso (35,4%), ben al sotto di quello medio svizzero (48,6%), anche perché il 52,7 per cento delle donne italiane lavora a tempo parziale. Nella fascia d’età dai 55 ai 64 anni, per le donne italiane il tasso di occupazione scende addirittura al 18,3 per cento e si avvicina a quello delle donne provenienti dallo Sri Lanka (17,9%), dall'Austria (17,8%), dagli Stati Uniti (17,8%) e dalla Croazia (17,6%).

Formazione e attività professionale

Contrariamente a quello che spesso si racconta, non è vero che gli italiani che lavorano sono ormai tutti laureati o altamente qualificati, perché molti, anche tra i nuovi arrivati, svolgono attività non qualificate o poco qualificate. Gli italiani occupati con una formazione di grado universitario sono meno del 40%. Percentuali più elevate presentano americani (USA), russi, tedeschi, francesi, svizzeri, cinesi, polacchi, spagnoli.

Gran parte degli italiani lavora in una posizione subordinata; sono infatti relativamente pochi quelli che svolgono funzioni dirigenziali (26,5%), meno dei britannici (44,3%), degli americani (38,8%) e di altri stranieri (olandesi, greci, tedeschi, francesi, spagnoli, ecc.). Sono tuttavia numerosi anche gli italiani altamente qualificati come ingegneri, informatici, medici, insegnanti, ricercatori, consulenti, ecc. che occupano posti di alto livello.

Da tempo ormai anche l’attività professionale degli italiani si svolge sempre più nel settore terziario (72,9%). Sono tuttavia ancora molti coloro che lavorano nel secondario (26,6%), con percentuali inferiori agli stranieri provenienti dal Cossovo, dalla Macedonia del Nord, dalla Croazia, dalla Serbia, dal Portogallo, dalla Bosnia-Erzegovina e dalla Turchia. La media svizzera è solo del 18,6%.

Condizioni di vita e di lavoro

Le condizioni di lavoro sono generalmente buone, ma è intuibile che molti nuovi immigrati fatichino inizialmente a inserirsi soprattutto a causa di inevitabili difficoltà linguistiche, ma anche di conoscenza dei rapporti sociali. Una più attenta accoglienza dei nuovi arrivati nell'ambiente italofono potrebbe favorire in loro non solo il superamento delle difficoltà iniziali, ma anche una più facile integrazione nella vita sociale, culturale e ricreativa.

D’altra parte, il loro contatto e il loro contributo rappresenterebbe anche un forte stimolo al rinnovamento delle vecchie strutture associazionistiche italiane e l’avvio di nuove attività per la salvaguardia dell’immenso patrimonio di esperienza e di cultura proveniente dalla lunga storia dell’immigratoria italiana. Spetterà soprattutto a loro, alle nuove leve, proseguire e sviluppare la tradizione umanistica italiana e l’italianità in Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 11.10.2023

27 settembre 2023

Russia-Ucraina: il modello svizzero per la pace (terza parte/fine)

Invocare il dialogo tra Putin e Zelensky, tra russi e ucraini (come hanno fatto molti leader la settimana scorsa all'Assemblea generale dell’ONU) non ha molto senso se manca in entrambe le parti la disponibilità ad ascoltare, a trattare e a fare compromessi, partendo dalla realtà e non da una situazione sperata. Tradizionalmente la pace interviene quando il conflitto è terminato, ma in questo caso il cessate il fuoco e l’avvio delle trattative potrebbero cominciare subito, nello stato in cui si trova ora l’Ucraina, con i due eserciti schierati nei territori contesi, alla sola condizione di essere disponibili anche a rinunce importanti una volta conclusa la pace. In questo processo la Svizzera potrebbe rappresentare un modello da tener presente.

La Svizzera è nata per crescere

Mosaico della cupola del Palazzo federale con al centro la croce svizzera e il motto
«UNUS PRO OMNIBUS /OMNES PRO UNO»  (uno per tutti, tutti per uno)
La storia della moderna Confederazione non è cominciata con l’atto di resa dei Cantoni che avevano perso la guerra del Sonderbund e con l’imposizione delle condizioni di pace che solitamente i vincitori impongono ai perdenti, ma con l’entrata in vigore (12 settembre 1848) della Costituzione federale, in cui «federale» stava ad indicare l’unione, la Lega dei 22 Cantoni di allora, uniti e decisi a raggiungere lo scopo comune «di rassodare la Lega dei Confederati, di mantenere ed accrescere l’Unità, la Forza e l’Onore della Nazione Svizzera» (Preambolo), senza tener conto di chi aveva vinto e di chi aveva perso la guerra.

Rievocando l’inizio della moderna Confederazione, alcuni studiosi ne parlano ancora come se si fosse trattato di un Sonderfall, un caso particolare, per l’eccezionalità di uno Stato federale e repubblicano circondato da monarchie centralizzate. In realtà a rendere speciale il nuovo Stato erano anche gli obiettivi che si prefiggeva, abbozzati nel Preambolo, e le modalità con cui raggiungerli: federalismo, sovranità popolare, rispetto delle lingue e delle culture delle minoranze, uguaglianza e pari dignità dei Cantoni, sussidiarietà e solidarietàuno per tutti - tutti per uno»), neutralità, rapporti di buon vicinato con i Paesi confinanti, ecc.

Il fatto che gran parte degli obiettivi siano stati raggiunti rende la Svizzera un esempio per la soluzione di problemi analoghi a quelli dei Cantoni della prima metà dell’Ottocento anche in altre parti del mondo. Benché i confronti siano da utilizzare con molta prudenza, si può pensare che se dalla proclamazione dell’indipendenza (1991) l’Ucraina avesse imitato la Svizzera per risolvere i suoi problemi interni di convivenza (rispetto e autonomia delle minoranze) e con la Russia, e questa avesse rinunciato al suo nazionalismo insensato, probabilmente la guerra non sarebbe scoppiata.

Modello svizzero esportabile

La storia svizzera dimostra infatti che, per superare situazioni conflittuali interne, il federalismo, il rispetto delle minoranze, le autonomie locali, la tolleranza, ecc. non solo non ostacolano la coesione nazionale, la solidarietà, l’amor patrio, ma stimolano la collaborazione, lo sviluppo, la prosperità comune, costituendo un efficace baluardo contro i rischi del nazionalismo, del separatismo e della disgregazione.

Guillaume Henri Dufour (1787/1875)
Nel conflitto russo-ucraino, totalmente ingiustificato, la Svizzera avrebbe potuto giocare un ruolo di mediatrice saggia ed esperta, facendo notare a Russia e Ucraina che già nel 2014-2015 avrebbero potuto risolvere pacificamente le controversie all'origine della guerra. Avrebbe potuto avvertire ciascuna delle parti che prolungando la guerra nella speranza di arrivare al tavolo delle trattative da vincitrice non avrebbe fatto altro che infliggere ulteriori sofferenze e danni irrimediabili anche al proprio popolo.

Trovo inspiegabile che la Svizzera abbia di fatto rinunciato a esercitare questo suo ruolo congenito di mediatrice, che abbia dimenticato l’esempio del vincitore della guerra del Sonderbund, Guillaume Henri Dufour (1787/1875), il quale sollecitò che ai vinti fossero risparmiate sanzioni umilianti e che fosse ripristinato fra tutti i Cantoni lo spirito della concordia e della coesione. Anche grazie a lui si giunse nel 1848 alla Costituzione federale.

La Svizzera potrebbe far capire alla Russia e all'Ucraina che la «nazionalità» è diversa dall'appartenenza a uno Stato e che si può essere russi-ucraini (ticinesi-svizzeri, ecc.) e che certi problemi sono risolvibili pacificamente. Quando i Ticinesi, negli anni ’20 e ‘30 del secolo scorso, si lamentavano di essere soverchiati dagli svizzeri tedeschi, la Confederazione non lasciò che a soddisfare le loro rivendicazioni fosse Mussolini (come alcuni chiedevano), ma vi provvide direttamente con riconoscimenti e finanziamenti adeguati.

La diplomazia svizzera potrebbe ricordare all'Ucraina che la coesione nazionale tra maggioranze e minoranze va costruita non con imposizioni e divieti, ma col rispetto, la tolleranza, gli incentivi e la collaborazione. Lo sviluppo della Svizzera non è stato certo pregiudicato dal fatto di essere federale, neutrale, multiconfessionale, plurilingue, multiculturale, caratteristiche che anzi hanno contribuito a migliorare la sua immagine e il benessere dei suoi abitanti. Peccato che la diplomazia svizzera non sia stata finora capace di proporre questa storia di successo come modello imitabile e vincente anche alla Russia a all'Ucraina, ma forse c’è ancora tempo per rimediare. (Fine)

Giovanni Longu
Berna 27.9.2023

20 settembre 2023

Russia-Ucraina: il modello svizzero per la pace (seconda parte)

Il modello svizzero per la pace in Ucraina potrebbe non essere quello vincente, ma alcuni elementi potrebbero contribuire a risolvere l’attuale stato di guerra e a gettare le basi per uno sviluppo sostenibile dell’intera regione. La Svizzera moderna è nata nel 1848 (anno di grandi rivoluzioni in Europa) dopo un principio di guerra civile, adottando una Costituzione federale che si è dimostrata in grado di trasformare motivi di tensioni (linguistiche, culturali, confessionali, economiche, politiche…) in elementi utili di sviluppo (interno e internazionale). Alla base dell’ordinamento statale (federale e cantonale) furono poste nella politica interna la sovranità popolare (cfr. articolo precedente) e nella politica estera la neutralità attiva. Entrambe in 175 anni hanno dato buona prova, anche se da qualche decennio sembrano bisognose di ritocchi. Il modello, però, è sostanzialmente ancora in grado di funzionare e merita pertanto qualche approfondimento.

Cantoni uguali e sovrani

La Svizzera ha preferito l'unità dei Cantoni, sovrani e uguali.
L’affermazione che la sovranità appartiene al Popolo (cfr. articolo precedente) comportava non solo il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini svizzeri innanzi alla legge, ma anche il principio dell’uguaglianza dei Cantoni fra loro, a prescindere dalla loro ampiezza territoriale, dal numero di abitanti o dal loro potere economico e soprattutto della condizione al termine della breve guerra civile del Sonderbund del 1847 (con un centinaio di vittime in 26 giorni).

Considerare a livello costituzionale i Cantoni uguali, per dignità e potere sovrano (cantonale), fu una decisione coraggiosa e saggia perché evitava che eventuali sensi di frustrazione e discriminazione dei Cantoni sconfitti dessero adito in futuro ad altri tentativi secessionistici. Fu anche una scelta vincente perché, grazie alla loro inclusione, la coesione nazionale ne uscì rafforzata e il giovane Stato federale poté intraprendere con successo la via del progresso fino al raggiungimento dei livelli di sviluppo degli Stati vicini.

Del resto, senza il contributo di tutti, senza coesione nazionale, come avrebbe potuto la nuova Confederazione realizzare gli obiettivi ambiziosi che si era dati all'articolo 2 della Costituzione, ossia «di sostenere l’indipendenza della Patria contro lo straniero, di mantenere la tranquillità e l’ordine nell'interno, di proteggere la libertà e i diritti dei Confederati e di promuovere la loro comune prosperità»? A giusta ragione, alcuni giorni fa, il Presidente della Confederazione Alain Berset ebbe a dire che «la fondazione della Svizzera moderna fu un colpo da maestro, un’impresa ardita, un atto di conquista del futuro».

Berset ricordava pure che «la Svizzera moderna creata nel 1848 presentava però anche importanti “difetti di costruzione”. Quella che a tutti sembrava una democrazia modello, in realtà era soltanto una semi-democrazia, visto che donne, ebrei e poveri ne rimasero esclusi. In parte per molto, molto tempo». Verissimo! Ma basta guardarsi indietro e si nota quanto la Svizzera, grazie alle sue istituzioni abbia rimediato a gran parte degli errori del passato e sia cresciuta, non solo nell'ambito della prosperità comune, ma anche nell'affermazione dei principi e dei diritti democratici, come pure nella considerazione internazionale.

La neutralità è stata fondamentale

Neutralità sì, ma armata!
Un altro elemento che ha consentito alla Svizzera di svilupparsi e di godere di un ampio credito internazionale è stato quello della neutralità, considerata da sempre dalla Confederazione un principio fondamentale della sua politica estera, benché all'estero sia vista talvolta come opportunismo, ipocrisia, viltà, sete di profitto, ecc.

Attualmente è oggetto di grandi discussioni anche all'interno del Paese e non si intravede in quale forma verrà mantenuta, ma è innegabile ch'essa ha contribuito enormemente allo sviluppo del Paese e pertanto può essere ancora considerata un elemento integrante del modello svizzero che potrebbe contribuire alla pace in Ucraina. Merita tuttavia qualche approfondimento, in questo e nel prossimo articolo.

Anzitutto va dato atto alla nuova Confederazione di aver informato subito tutti gli Stati con cui intratteneva rapporti diplomatici sulla propria «neutralità», riconosciuta e garantita dalle grandi potenze (Austria, Francia, Gran Bretagna, Prussia e Russia) del Congresso di Vienna (1815). Questa informazione (importante per far comprendere che non si trattava di una scelta unilaterale di convenienza) era solitamente accompagnata dall'avvertenza che la Svizzera non avrebbe tollerato in alcun modo qualsiasi forma di violazione della sua sovranità territoriale (dando ad intendere che si trattava di una neutralità «armata»), ma soprattutto dall'intenzione del nuovo Stato di instaurare e sviluppare buoni rapporti di vicinanza soprattutto con i Paesi confinanti. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 20.09.2023

13 settembre 2023

Russia-Ucraina: il modello svizzero per la pace (prima parte)

Dopo quasi 19 mesi di guerra tra Russia e Ucraina e il fallimento di tutti i tentativi di mediazione, il pessimismo su un prossimo avvio di trattative di pace aumenta, pur restando possibile, anzi doverosa (cfr. articoli precedenti). Basterebbe che invece di produrre armi a favore dell’una o dell’altra parte, l’Europa e l’ONU investissero maggiori energie per cercare di appianare le divergenze tra i due belligeranti. In questa situazione mi colpisce in particolare l’inerzia della Svizzera, nonostante la lunga tradizione dei suoi buoni uffici e, soprattutto, l’esperienza storica di convivenza pacifica e fruttuosa di etnie, culture, lingue, tradizioni, confessioni religiose diverse. Eppure l’esempio svizzero potrebbe essere un modello vincente anche nell'attuale conflitto russo-ucraino. Merita ricordarlo.

Situazione iniziale difficile anche per la Confederazione

Svizzera, modello per la pace in Ucraina?
non schiacciata"

Poiché nella storia, nonostante i corsi e ricorsi storici teorizzati dal filosofo napoletano Giambattista Vico (vissuto a cavallo tra Seicento e Settecento), le situazioni sono sempre diverse e quelle che caratterizzano il dissidio tra Russia e Ucraina non fanno eccezione, potrebbe apparire azzardato proporre per la sua soluzione un metodo collaudato e riuscito altrove e in altri tempi. All'obiezione si potrebbe tuttavia rispondere che qui non si tratta di cercare analogie sui fatti, ma di esaminare se il metodo svizzero di far convivere le differenze è adottabile anche nel contesto russo-ucraino.

Chi conosce anche solo sommariamente la storia svizzera sa benissimo che la Confederazione moderna è nata (nel 1848) sostanzialmente per un atto di volontà comune degli svizzeri e degli Stati europei circostanti e non a seguito di conquiste territoriali o smembramenti e neppure per uno sviluppo naturale di sentimenti nazionalistici dei suoi abitanti come razza, lingua, religione, cultura, vincoli territoriali, economici, politici, sociali o altro.

La Svizzera ha potuto sopravvivere a grandi difficoltà (prima e seconda guerra mondiale, dissidi interni, ecc.) perché ha saputo mantenere salda e irremovibile la volontà dei suoi abitanti di stare insieme, respingendo ogni volta i forti richiami nazionalistici della Francia, della Germania e dell’Italia. Già quando si stava per costituire nel Nord Italia la Repubblica Cisalpina (1797) e i ticinesi furono invitati ad aderirvi («Popoli dei Baliaggi! Noi siamo liberi, e siamo italiani, una sola famiglia. Volgete lo sguardo alle fertili pianure Cisalpine dove portate le arti, e l’industria vostra, e donde traete il vostro sostentamento. Rammentatevi che dalla Cisalpina avete il pane, e dall’Elvezia non vi potete aspettare che dei sassi»), essi rifiutarono preferendo restare «liberi e svizzeri».

Quella volontà fu cementata nel 1848 con una Costituzione federale, entrata in vigore il 12 settembre 1848, che stabiliva i principi fondamentali della Confederazione Svizzera e regolava i rapporti tra i Cantoni e di questi con la Confederazione (federalismo). Soffermarsi su alcuni principi fondamentali mi sembra importante non solo per capire la solidità e la prosperità dello Stato svizzero, ma anche per comprendere come l’architettura dello Stato, se è solida, e la fedeltà ai principi riescono a superare grandi ostacoli.

La sovranità popolare

12.09.1848: entrata in vigore della Costituzione federale (litografia di C. Studer)
E’ interessante, anzitutto, osservare l’inizio delle «Disposizioni generali», ossia l’articolo primo della Costituzione, nel quale si afferma che «le popolazioni [il grassetto è mio] )dei ventidue Cantoni sovrani, riunite in forza della presente Lega, cioè: Zurigo, Berna […] costituiscono nel loro insieme la Confederazione Svizzera» (art. 1). In esso viene evocato implicitamente (lo sarà esplicitamente nella revisione costituzionale del 1874) il principio della sovranità popolare quale fondamento costitutivo della moderna Confederazione e della prima democrazia in Europa (anche se le donne erano ancora escluse dalla vita politica svizzera).

Poiché anche i Cantoni hanno nella sovranità popolare (cantonale) il loro fondamento, sono considerati anch'essi «sovrani» (art. 3), tant'è che nell'attuale Costituzione federale (1999) Popolo svizzero e Cantoni sono indicati separatamente: «Il Popolo svizzero e i Cantoni di Zurigo, Berna […] costituiscono la Confederazione Svizzera» (art. 1).

Non c’è dubbio tuttavia che la sovranità popolare è alla base della democrazia che la prima Costituzione federale ha inteso introdurre nella politica svizzera. Ne danno prova in particolare alcuni articoli, quando si afferma, per esempio, che «tutti gli svizzeri sono uguali innanzi alla legge» e «nella Svizzera non vi ha sudditanza di sorta, non privilegio di luogo, di nascita, di famiglia o di persona» (art. 4), sono garantiti «la libertà, i diritti del popolo e i diritti costituzionali dei cittadini» (art. 5), «il libero esercizio di culto delle Confessioni cristiane riconosciute» (art.44), «la libertà di stampa» (art. 45), «il diritto di formare associazioni» (art. 46), ecc. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 13.9.2023