In una narrazione
oggettiva dell’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra non si
può non ricordare l’importanza che ha avuto la religione nel suo processo
identificativo ed evolutivo. Gli immigrati provenienti dall’Italia
s’identificarono ed erano identificati per molto tempo dalla popolazione
indigena oltre che come lavoratori stranieri «ospiti» (Ausländer, Fremdarbeiter,
Gastarbeiter) come italiani (die Italiener) e come cattolici (Katholiken).
Con la loro presenza e con la loro appartenenza confessionale hanno contribuito
a trasformare il panorama religioso della Svizzera. In questo processo e in
questa evoluzione hanno svolto una parte attiva rilevante le Missioni cattoliche
italiane.
La religione ha sempre avuto per la Svizzera
una grande importanza, sia prima che dopo la Riforma. Prima perché ha
contribuito alla sua identità nazionale, dopo perché, nonostante la divisione
introdotta tra Cantoni cattolici e Cantoni protestanti e ben quattro guerre di
religione, le radici cristiane comuni hanno contribuito a salvaguardare l’unità
nazionale. Tra i due gruppi, tuttavia, i cattolici hanno rappresentato quasi
sempre la parte debole nelle relazioni intercantonali, nella politica e
nell’economia, anche dopo la costituzione della nuova Confederazione (1848).
I cattolici hanno avuto negli ultimi decenni
dell’Ottocento e agli inizi del Novecento fino allo scoppio della prima guerra
mondiale un grande aiuto dall’immigrazione dai Paesi confinanti di migliaia di
persone, in prevalenza cattoliche, tanto da ridurre considerevolmente il
divario ancora notevole tra protestanti e cattolici, soprattutto nei Cantoni
più industrializzati. E’ significativo che solo nel 1891 i cattolici
conservatori svizzeri abbiano ottenuto il loro primo rappresentante nel Governo
federale e nel 1919 un secondo.
La religione degli immigrati del secondo
dopoguerra, ancora in prevalenza cattolici, ha modificato ulteriormente il
panorama religioso della Svizzera con importanti conseguenze anche sul piano
demografico, sociale e culturale. Si pensi all’incremento naturale degli
stranieri (inizialmente molto più accentuato di quello degli svizzeri), al
moltiplicarsi dei luoghi di culto, alla diffusione dei sacramenti, ai numerosi
matrimoni misti, alla facilità di circolazione delle persone e delle idee, ecc.
Inizialmente ostacolati nell’esercizio del culto, nella cultura e nella
società, i cattolici stranieri hanno via via acquistato spazio e importanza in
tutti gli ambiti della vita sociale, culturale ed economica.
Trasformazione del panorama religioso
Sotto il profilo strettamente
religioso-confessionale sono significative alcune cifre. Nel 1950, a
livello nazionale, il divario tra protestanti (2.655. 375) e cattolici (1.959.046)
era ancora significativo perché i primi rappresentavano il 56,3% dell’intera
popolazione, mentre i secondi appena il 41,6%, con una differenza di quasi 15
punti percentuali. Senza gli stranieri la differenza sarebbe stata ancora
maggiore perché gli svizzeri erano protestanti al 58,9%, mentre gli stranieri
erano cattolici al 76%.
Vent’anni più tardi, i dati del censimento
federale della popolazione del 1970 attestarono non solo un’ulteriore
riduzione del divario tra protestanti (2.991.674) e cattolici (3.096.654), ma
addirittura il sorpasso dei cattolici sui protestanti. La percentuale dei
cattolici era salita al 49,1%, quella dei protestanti era scesa al 47,7%.
Poiché gli svizzeri conservavano all’incirca le stesse proporzioni, il
contributo determinante all’ascesa dei cattolici, soprattutto nelle
agglomerazioni urbane, proveniva dagli stranieri, cattolici oltre l’80%. Dal
1970 il panorama religioso muterà ancora, ma dal 1990 si farà sempre più
consistente la percentuale dei «senza confessione» a scapito sia dei
protestanti che dei cattolici.
E’ interessante osservare che il paesaggio religioso svizzero è mutato nonostante le enormi difficoltà linguistiche, culturali e confessionali incontrate da molti immigrati nel processo integrativo, soprattutto nei Cantoni protestanti di lingua tedesca, dove l’egemonia della cultura protestante non lasciava molto spazio alla minoranza cattolica. E’ probabile che il sentimento religioso delle prime generazioni dipendesse molto dalla tradizione religiosa del Paese di provenienza, ma certamente esprimeva anche un sentimento di autentica spiritualità legato ai gravi rischi della vita lavorativa (soprattutto nei grandi cantieri degli scavi stradali e delle grandi dighe di alta montagna) e alle sofferenze quotidiane dovute all’incomunicabilità e all’isolamento.
E’ interessante osservare che il paesaggio religioso svizzero è mutato nonostante le enormi difficoltà linguistiche, culturali e confessionali incontrate da molti immigrati nel processo integrativo, soprattutto nei Cantoni protestanti di lingua tedesca, dove l’egemonia della cultura protestante non lasciava molto spazio alla minoranza cattolica. E’ probabile che il sentimento religioso delle prime generazioni dipendesse molto dalla tradizione religiosa del Paese di provenienza, ma certamente esprimeva anche un sentimento di autentica spiritualità legato ai gravi rischi della vita lavorativa (soprattutto nei grandi cantieri degli scavi stradali e delle grandi dighe di alta montagna) e alle sofferenze quotidiane dovute all’incomunicabilità e all’isolamento.
Contributo delle chiese e delle missioni
Negli anni Cinquanta e Sessanta, di fronte al
numero crescente di immigrati, le chiese ufficiali cominciarono a interessarsi
maggiormente al fenomeno migratorio e ai bisogni religiosi dei nuovi cattolici.
Furono costruite non poche nuove chiese e ristrutturate altre, vennero
costituite nuove parrocchie e aperte nuove missioni cattoliche per stranieri.
Si segnalarono in particolare i padri Scalabriniani, che sull’esempio del loro fondatore Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), seppero creare attorno alla chiesa tutta una serie di attività sociali e assistenziali che contribuirono non poco a rafforzare sentimenti di identità e di appartenenza a decine di migliaia di immigrati di ogni provenienza e cultura. Poiché i bisogni degli immigrati e dei loro figli erano enormi, aprirono MCI in molte città svizzere (Ginevra, Basilea, Berna, San Gallo, Soletta, Delémont, Thun, Losanna, Friburgo, ecc.).
Con l’intensificarsi dei flussi migratori,
cresceva tuttavia non solo il bisogno dell’assistenza religiosa, ma anche
dell’assistenza sociale, scolastica e professionale degli immigrati. Le
Missioni cattoliche italiane (MCI) che venivano implementate un po’ ovunque,
oltre ad essere centri di vita religiosa divennero sempre più anche centri
d’incontro, di socialità e di assistenza di ogni genere.
Si segnalarono in particolare i padri Scalabriniani, che sull’esempio del loro fondatore Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), seppero creare attorno alla chiesa tutta una serie di attività sociali e assistenziali che contribuirono non poco a rafforzare sentimenti di identità e di appartenenza a decine di migliaia di immigrati di ogni provenienza e cultura. Poiché i bisogni degli immigrati e dei loro figli erano enormi, aprirono MCI in molte città svizzere (Ginevra, Basilea, Berna, San Gallo, Soletta, Delémont, Thun, Losanna, Friburgo, ecc.).
Nel corso di un dibattito parlamentare in
Italia, nel 1954, il deputato Antonio Dazzi ebbe a dire che a suo
giudizio «l’unico organismo che ancor oggi segue ed assiste in misura veramente
larga, capillare ed umana i nostri emigranti - e lo dico non come cattolico, ma
per doverosa obiettività - è quello dei missionari e, in prima linea, dei
missionari scalabriniani, sorretti da mezzi materiali modesti, ma da una forza
morale immensa loro conferita dall’enciclica papale Exul Familia».
Le MCI hanno svolto un
ruolo rilevante e innegabile non solo nel campo dell’assistenza, spirituale e
sociale, ma anche nel processo identificativo ed evolutivo dell’immigrazione
italiana in Svizzera. Ora, però, il futuro è quanto mai incerto non solo perché
i flussi immigratori dall’Italia sono ben diversi e alquanto ridotti rispetto a
quelli dei primi decenni del dopoguerra, ma anche perché cresce pure tra gli
italiani la non appartenenza ad alcuna confessione religiosa (0,4% nel 1970,
2,1% nel 1980, 4,9% nel 1990 e 5,7% nel 2000) e la pratica religiosa è alquanto
ridotta.
In ambito ecclesiale si
considera talvolta il ruolo svolto dalle MCI come «qualcosa di temporaneo» (etwas
Vorübergehendes) e di «postmigrante» (postmigrantisch), legato alle
ondate immigratorie del dopoguerra. Resta tuttavia difficile stabilire se il
ruolo delle MCI sia veramente finito perché comunque c’è una popolazione italofona
che è ancora fortemente legata alla liturgia e all’amministrazione dei
sacramenti in lingua italiana e non si troverebbe a proprio agio in un percorso
di fede con un accompagnamento in altra lingua.
Prescindendo da
considerazioni di tipo prettamente organizzativo-finanziario-ecclesiale,
sarebbe una perdita per la collettività di lingua italiana la chiusura delle
MCI perché non appare più necessaria e urgente l’assistenza sociale ai nuovi
immigrati. Le Missioni di lingua italiana potrebbero infatti continuare a
offrire utilmente l’assistenza spirituale e l’attività pastorale alla collettività di lingua italiana, che ne avrebbe tra l’altro il
diritto, essendo riconosciuta come tale dalla Costituzione federale. Come lo
Stato rispetta l’esistenza e la dignità della lingua italiana così dovrebbe
fare anche la Chiesa ufficiale.
Resta comunque scolpita nella storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera l’impronta indelebile della religiosità dei primi immigrati e del
contributo generoso e disinteressato delle MCI.
Giovanni Longu
Berna, 9.10.2019
Berna, 9.10.2019