13 gennaio 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 34.Relazioni italo-svizzere (prima parte)

Nel ventennio in esame (1970-1990), mentre diminuiva costantemente il flusso immigratorio dall’Italia (e il saldo migratorio diveniva dopo decenni negativo), cresceva con l’avanzare della seconda generazione il numero complessivo degli italiani e la loro (difficile) integrazione. Parallelamente, le relazioni italo-svizzere ufficiali andavano rafforzandosi, non senza qualche contrasto, contribuendo al lento ma costante miglioramento del clima generale dei rapporti tra italiani e svizzeri. A distanza di anni è interessante osservarne a grandi linee l’evoluzione.

Malcontento e iniziative parlamentari

Ambasciata d'Italia - Residenza dell'ambasciatore
Negli anni Settanta, quando gli italiani costituivano la maggioranza della popolazione immigrata, in Svizzera le tensioni tra svizzeri e stranieri raggiunsero il massimo. Le frequenti iniziative xenofobe suscitavano grande interesse tra la popolazione svizzera, ma anche forti tensioni sociali che spinsero il governo federale a decidere misure per limitare l’immigrazione e stabilizzare gli stranieri residenti. Gli italiani si sentivano particolarmente minacciati e frustrati, vanificando le speranze che aveva suscitato nel 1965 l’entrata in vigore del nuovo accordo sull’emigrazione.

Nel 1970, quando il malcontento giunse a Roma, il governo di centro-sinistra a guida democristiana venne interpellato ripetutamente soprattutto dall’opposizione comunista per chieder conto delle iniziative prese o che intendesse prendere nei confronti del governo svizzero per «tutelare i lavoratori italiani emigrati in Svizzera», «adeguare l'accordo di emigrazione italo-svizzera alle giuste esigenze dei lavoratori italiani», «annullare le norme e prescrizioni restrittive sui permessi di lavoro e soggiorno», «adottare nuove norme per la garanzia del lavoro, della dimora e del ricongiungimento familiare e per garantire agli emigrati stagionali parità di condizioni di vita, di abitazione, di previdenza e assistenza», ecc.

La stessa opposizione chiedeva al governo anche misure idonee a favorire il reinserimento dei lavoratori italiani che rientravano dalla Svizzera «in ordine ai problemi della occupazione, della casa, dei trasporti, dell'assistenza […] soprattutto nel Mezzogiorno e nelle Isole.

Provvedimenti analoghi erano chiesti anche dall’opposizione di destra «per bilanciare la minore quota di emigrazione di nostri lavoratori specie giovani in Svizzera, a seguito dei provvedimenti già presi da quel governo, e per prevedere, inoltre, l’assorbimento di quelle maggiori aliquote di lavoratori che, in dannata ipotesi, potrebbero essere costretti a rientrare in Italia dalle nuove iniziative legislative in atto in Svizzera».

Prudenza della diplomazia

Ambasciata d'Italia - Cancelleria
L’Ambasciata d’Italia in Svizzera era molto preoccupata non solo della xenofobia di molti svizzeri, ma anche di certe rivendicazioni delle opposizioni italiane. Si riteneva che occorresse molta prudenza sia nel denunciare soprusi o presunte discriminazioni senza prove evidenti e sia nell’avanzare richieste di improbabile accoglimento. In quel momento sembrava prioritario per la collettività italiana non esacerbare i contrasti. Oltretutto, come risulta da un’intervista del consigliere federale Nello Celio, la buona collaborazione con l’Ambasciata consentiva di risolvere senza difficoltà molti casi singoli.

E’ plausibile ritenere che le buone relazioni tra la Svizzera e l’Italia abbiano influito positivamente sull’esito negativo dell’iniziativa antistranieri di James Schwarzenbach, perché il Consiglio federale aveva attirato l’attenzione dei votanti s

ulle gravi conseguenze, anche sul piano internazionale, che avrebbe provocato l’eventuale accettazione dell’iniziativa, costringendo decine di migliaia di immigrati (soprattutto italiani) a lasciare la Svizzera.

Blocco del negoziato per un nuovo Accordo

La stretta vittoria dei No (54%) servì a scacciare la paura nell’immediato, ma non ad attenuare i contrasti e il malessere che provavano da tempo molti immigrati italiani. Fu probabilmente questa la causa principale che bloccò sul nascere i lavori delle due delegazioni negoziali incaricate di preparare un nuovo accordo di emigrazione/immigrazione, richiesto soprattutto dalla Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS).

Già al primo incontro a Berna (dicembre 1970), le due delegazioni si resero conto che le posizioni erano troppo distanti e inconciliabili (soprattutto riguardo allo statuto degli stagionali) e decisero di interrompere il negoziato, sebbene il sottosegretario Mario Toros, uno dei negoziatori italiani, fosse ancora convinto nel 1971 che le trattative sarebbero riprese e che una soluzione fosse ancora possibile. (In realtà lo scoglio dello statuto dello stagionale non verrà mai superato fino agli accordi tra la Svizzera e l’Unione europea nel 2002).

Il corrispondente del Corriere della Sera da Zurigo Mario Barino, nel dare la notizia dell’interruzione della trattativa commentava: «Intanto alcune associazioni italiane in Svizzera, come le Colonie libere, che in passato avevano duramente attaccato il governo di centrosinistra, accusandolo di non accogliere le loro istanze, si trovano ora a corto di argomenti polemici. In effetti la delegazione italiana a Berna ha portato avanti globalmente le rivendicazioni del Comitato nazionale di intesa, che raggruppa associazioni di ogni tendenza degli emigrati italiani in Svizzera».

In realtà nessuno si faceva illusioni su una ripresa del negoziato a breve termine, anche perché i margini di manovra delle due delegazioni erano alquanto stretti e sarebbe stato imprudente riproporre la stessa situazione conflittuale che si era verificata con l’accordo in vigore.

Foschi «sgradevole» interprete del malessere italiano

Il malessere tra gli immigrati italiani era destinato inevitabilmente a continuare, nonostante la conclusione dell’accordo del 1974 sull’imposizione fiscale dei frontalieri (rinegoziato e concluso nel 2015, ma firmato solo il 23 dicembre 2020) e di altri accordi di collaborazione tra l’Italia e la Svizzera. Se ne faranno interpreti esponenti politici e diplomatici, ma senza fornire, almeno direttamente, alcun contributo alla sua soluzione.

Arnaldo Forlani (a sin.) con Pierre Aubert (a d.) ricevuti dal
Presidente della Repubblica Sandro Pertini (12.07.1978).
Nel 1977, il sottosegretario del Ministero affari esteri Franco Foschi, prima di una sua visita in Svizzera e soprattutto durante la visita, lanciò una serie di accuse nei confronti delle autorità federali, a suo modo di vedere eccessivamente passive di fronte alle iniziative talvolta arbitrarie della Polizia federale degli stranieri ed eccessivamente disinvolte nell’adottare misure unilaterali di regolamentazione del mercato del lavoro concernenti gli stranieri.

«Ciò che il governo svizzero – egli disse - è stato costretto a concedere agli immigrati negli ultimi cinque anni in sede di trattative bilaterali con l’Italia è stato sistematicamente vanificato dai regolamenti dell’Ufficio di polizia per gli stranieri». E ancora: «Il governo federale, sotto la pressione degli organismi internazionali e degli interlocutori (particolarmente l’Italia) sottoscrive in materia di manodopera straniera impegni bilaterali tendenzialmente rivolti al risanamento di condizioni inumane e giuridicamente inaccettabili; tuttavia, nel suo legiferare interno in materia di lavoratori migranti, il governo federale adotta misure unilaterali di regolamentazione del mercato del lavoro che puntualmente vanificano e rendono inoperanti gli impegni presi sul piano internazionale».

Le dichiarazioni di Foschi fecero grande scalpore nella stampa svizzera e colpirono «sgradevolmente» il direttore dell’Ufficio federale della polizia degli stranieri Guido Solari (e dunque il governo federale), soprattutto per l’affermazione secondo cui il governo italiano si riservava la possibilità di sollevare il problema della tutela degli emigrati in Svizzera alla conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, in corso di svolgimento a Belgrado.

La pacificazione Forlani-Aubert

Non si giunse a tanto perché il Ministro degli esteri Arnaldo Forlani disapprovò l’intervento di Foschi, ricordando che l’osservanza degli accordi bilaterali era demandata ad apposite commissioni miste, che anche a giudizio delle autorità diplomatiche italiane lavoravano in maniera soddisfacente.

Le dichiarazioni di Foschi ebbero comunque, indirettamente, un effetto benefico sulle relazioni italo-svizzere, che ripresero la strada delle consultazioni bilaterali nelle sedi adatte. La situazione volse decisamente al meglio con la visita del consigliere federale Pierre Aubert a Roma nel luglio del 1978. Dal suo incontro con l’omologo Forlani scaturirono importanti impegni di entrambi per far avanzare le trattative in materia di assicurazione contro la disoccupazione per i frontalieri, di sicurezza sociale, di scuola e di formazione professionale ecc.

Quell’incontro, ritenuto molto positivo da entrambe le parti, instaurò un nuovo stile nell’affrontare i problemi e nella ricerca di soluzioni accettabili per le due parti. Pierre Aubert tenne a sottolineare lo spirito di amicizia e di collaborazione che ha regnato durante tutta la durata dei lavori, affermando anche che «l’Italia per noi non è solo un Paese confinante e un importante partner commerciale, ma anche un prezioso partner politico». Del resto, aggiunse, «la Svizzera non sarebbe quella che è senza il contributo degli italiani». (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 13.01.2021

11 gennaio 2021

Il CISAP negli anni 1970-1990: 3. Centro d’italianità

Quando il 18 febbraio 1966 i promotori del CISAP vollero identificare con l’acronimo C.I.S.A.P. il «Centro Italiano in Svizzera per l’Addestramento Professionale» che stavano per fondare, fu come se volessero incidere in ogni lettera una sua caratteristica fondamentale a cominciare dalla C di «Centro» e a seguire con la I di «Italiano», la S «in Svizzera», la A di «Addestramento» e infine la P di «Professionale». Il nome CISAP doveva richiamare immediatamente la realtà nuova, innovativa, solida, moderna e orientata al futuro che avrebbe potuto condurre i futuri frequentatori a una svolta decisiva nel lavoro, nella vita e nella società.
Ognuna di quelle lettere era una specie di contenitore di idee, di speranze, di propositi che meriterebbero un’analisi approfondita. Ma forse basta qualche accenno per rendersi conto che quei promotori non erano dei visionari sprovveduti ma pionieri coraggiosi e lungimiranti. Non si nascondevano i rischi, ma li si volevano affrontare tutti.

«Centro» operativo e di coordinamento

Prospetto dei primi corsi previsti dal Cisap (1966)
«Sotto il Patronato del Consolato d’Italia a Berna»,
su uno sfondo tricolore della bandiera italiana.
Poteva rappresentare un rischio già la prima lettera di C.I.S.A.P. corrispondente a «Centro», perché allora, a livello svizzero, le strutture fisiche che facevano capo ad associazioni o gruppi di immigrati erano pochissime (Case d’Italia, Missioni cattoliche italiane e qualche associazione). Non esistevano strutture destinate appositamente alla formazione professionale degli immigrati, tanto è vero che tutte le esperienze in questo campo avvenivano nelle sale delle organizzazioni menzionate o in locali messi a disposizione da ristoranti, quando si riusciva a riservarli. Nel mondo dell’immigrazione, un «Centro» dedicato esclusivamente alla formazione professionale non era mai stato pensato. Realizzarlo divenne una sfida, ma non fu un azzardo.

Il Centro poté sorgere perché i promotori, anche grazie alla Colonia libera italiana di Berna e al Consolato d’Italia a Berna, riuscirono a vincolare il loro ambizioso progetto formativo alla disponibilità di una sede propria (dapprima allo Jägerweg 7, a cui si aggiunsero quasi subito altri locali alla Wylerstrasse 40, e dal 1969 alla Freiburgstrasse 139c di Berna).

Questo atto di coraggio, si sa, fu ampiamente ripagato dai numerosi partecipanti ai corsi che trovarono sempre nei locali del CISAP non solo le aule e le officine dove si formavano, ma anche un personale attento alle loro problematiche, competente nell’insegnamento e costantemente alla ricerca di metodologie e tecnologie moderne e idonee.

Grande interesse per il CISAP

Per la sua attività e il suo dinamismo il Centro s’impose subito all’attenzione non solo delle autorità italiane, ma anche delle parti sociali, specialmente del sindacato di categoria FLMO (Federazione lavoratori metallurgici e orologiai) e delle industrie bernesi, e soprattutto delle autorità cantonali e federali preposte alla formazione professionale, avviando con loro una feconda collaborazione. (Su di essa seguirà più avanti un ampio approfondimento).

Intanto il Centro di Berna era divenuto in pochi anni non solo la sede operativa per l’organizzazione di numerosi corsi e il coordinamento dei vari centri che si venivano creando nel Cantone di Berna e in altri Cantoni, ma anche un punto di riferimento importante per la metodologia della formazione professionale degli immigrati adulti soprattutto italiani.

Centro d’italianità

Il CISAP è stato anche, specialmente agli inizi della sua attività, un grande centro d’italianità, sia pure tenendo sempre conto della realtà svizzera in cui operava. Il carattere «italiano» del Centro era nettamente dominante già nel nome «Centro Italiano in Svizzera per l’Addestramento Professionale» non solo per l’aggettivo «Italiano» (anche se nella prima targa con la scritta «Centro Addestramento Professionale Italiano in Svizzera» sembra più in relazione con «in Svizzera» che con «Centro»), ma anche per l’espressione «Addestramento Professionale», allora molto diffusa in Italia, quando ancora non si parlava di «formazione».

Il console A. Mancini, al centro tra il sen. Giorgio Oliva (a sin.)
e il direttore del Cisap Giorgio Cenni (Berna 20.11.1967)
Per quanto riguarda l’«addestramento professionale» va anche ricordato che, come risulta fin dalla prima bozza di statuto (febbraio 1966), l’associazione CISAP non si sarebbe limitata ad organizzare corsi di mestiere per «addestrare» allievi desiderosi di svolgere lavori qualificati, ma aveva lo scopo, in primo luogo, «di consentire ai lavoratori italiani di formarsi culturalmente». Questo avverbio, apparentemente indefinito, lascia facilmente intravedere una grande sensibilità culturale dei promotori del Centro, preoccupati del livello scolastico, linguistico e culturale della recente ondata di immigrati, ma allo stesso tempo convinti della possibilità di potersi anch’essi formare ed elevare non solo professionalmente, ma anche socialmente e culturalmente. Il riferimento alla cultura «italiana» (allora in grande fermento in Italia), integrata da una buona dose di cultura svizzera, era evidente anche se non esplicito.

Per diversi anni l’italianità ha sopravanzato tutte le altre caratteristiche del CISAP e non poteva essere altrimenti. Erano italiani quasi tutti i promotori del Centro, i rapporti del CISAP con le autorità diplomatiche e consolari italiane a Berna erano costanti, gran parte dei primi macchinari e delle attrezzature necessari alla scuola erano stati forniti da industrie italiane ed essenzialmente «italiani» erano i programmi dei corsi, gli allievi come pure il personale insegnante e istruttore erano (inizialmente) quasi solo italiani, la lingua usuale al CISAP era l’italiano e persino il presidente del CISAP, lo svizzero professore di liceo Joseph Allenspach, parlava correttamente l’italiano.

Garanzie del Consolato d’Italia a Berna

I sottosegretari A. Bemporad (a sin.) e M. Toros
all'inaugurazione del centro Cisap di Langenthal
(16.12.1970)
L’Italia era il principale finanziatore del CISAP e fin dall’inizio ne aveva garantito il sostegno. Il primo garante era stato il console Mancini, che il 28 gennaio 1966 aveva organizzato un incontro importante all'Hotel Bellevue di Berna per una presa di contatto dei soci promotori con le autorità, col sindacato FLMO (allora FOMO) e con rappresentanti dei datori di lavoro, in vista della creazione del "Centro Addestramento Professionale Italiano in Svizzera». Ma anche dopo la sua partenza, il CISAP considerò per diversi anni il Console d’Italia a Berna garante dell’istituzione.

Egli era, per statuto (1966), il Presidente dei soci onorari del CISAP, anzi, secondo lo statuto del 1971, membro «di diritto» del Consiglio (l’organo supremo dell’associazione) e la nomina dei nuovi soci decisa dal Comitato Direttivo per diventare effettiva doveva essere «approvata dal Console d’Italia a Berna». Lo stesso Statuto prevedeva anche che in caso di scioglimento, l’eventuale patrimonio attivo del CISAP sarebbe stato devoluto al Consolato d’Italia a Berna «per fini di formazione».

Per diversi anni il Console d’Italia a Berna fu considerato anche il garante della qualità dei corsi
organizzati dal CISAP «sotto il patronato del Consolato d’Italia a Berna», fin quando questo ruolo fu svolto direttamente da un alto funzionario del Ministero del Lavoro italiano distaccato all’Ambasciata d’Italia in Svizzera. 

Del resto, anche l’impostazione dei corsi era, inizialmente, tipicamente italiana perché ispirata ai programmi e al materiale didattico dell’ANAP (Associazione Nazionale Addestramento Professionale) di Milano, con cui il CISAP aveva stretti rapporti.

Che il riferimento all’italianità fosse dominante agli inizi del CISAP lo dimostrano anche i primi cinque diplomi d’onore dell’istituzione attribuiti ad altrettante personalità italiane che avevano contribuito a vario titolo all’avvio dei corsi: Dore Leto di Priolo (imprenditore), Cesare Uboldi (imprenditore), Giovanni Bellocchi (direttore ANAP), Antonio Mancini (console), Giovanni Jannuzzi (console).

Giovanni Longu
Berna, 6.1.2021