15 giugno 2016

Difficile collaborazione per salvaguardare l’italiano



Periodicamente c’è sulla stampa svizzera in lingua italiana un forte richiamo alla problematica della lingua italiana. Se ne parla generalmente in un contesto ampio (plurilinguismo) e rivolto a un pubblico di un certo livello politico-istituzionale e se ne parla talvolta in un ambito più specifico e rivolto a un pubblico prettamente italiano. Se da una parte trovo utile e importante che il tema non venga abbandonato, mi dispiace che ancora una volta i due livelli e i due pubblici di riferimento siano tenuti distinti.

Italiano in Svizzera: problema complicato e confuso
Il problema dell’italiano mi pare giunto ormai a un livello tale di complicazione e di confusione che è difficile intravederne la soluzione. Probabilmente ciascun pubblico ha presente obiettivi differenti e li persegue con mezzi diversi.
Dal punto di vista ticinese ho l’impressione che interessi soprattutto una maggiore attenzione di Berna ai problemi ticinesi, per cui, ad esempio, si plaude alla nomina a vicecancelliere di Jörg De Bernardi perché «avrà un occhio attento al Ticino». Dal punto di vista italiano, invece, gli interessi mi sembrano altri, in particolare la sopravvivenza dei corsi di lingua e cultura e la garanzia dell’impiego per gli insegnanti.
Mi pare difficile individuare un terreno comune su cui costruire una piattaforma per concordare rivendicazioni, proposte, iniziative. Intanto manca, a mia conoscenza, un coordinamento tra le varie organizzazioni, per altro molto eterogenee, attive nella promozione dell’italiano. C’è soprattutto una dicotomia che trovo preoccupante tra organizzazioni più o meno istituzionali svizzere (Forum Helveticum, Forum per l’italiano in Svizzera, Intergruppo parlamentare Italianità, Coscienza Svizzera, Associazione svizzera dei professori d’italiano, ecc.) e altre operanti prevalentemente tra il pubblico italiano sul base volontaria (Coordinamento degli enti gestori in Svizzera, Associazione svizzera della lingua italiana, Comitati genitori locali e regionali, UNITRE, ecc.).
Non è nemmeno facile dire cosa hanno in comune tutte queste organizzazioni se non un generico auspicio di veder crescere l’italiano in Svizzera, un riferimento altrettanto generico al fatto che la lingua italiana va difesa perché di rango costituzionale (senza per altro trarne mai conseguenze pratiche vincolanti), un certo interesse comune a non veder sacrificato l’italiano nell’insegnamento primario e secondario, oltre evidentemente al riferimento esplicito alla lingua e alla cultura italiana.
Che cosa ancora? Beh, spesso hanno in comune il genere d’intervento, la rivendicazione (specialmente finanziaria), anche se lo stile è parecchio diverso. Il primo gruppo ricorre spesso a interventi parlamentari, convegni, pubblicazioni (suppongo con finanziamento pubblico!); il secondo gruppo deve purtroppo accontentarsi di comunicati stampa, passa parola, Facebook, petizioni rivolte per lo più all’Ambasciata d’Italia.
Data questa disparità, a mio parere si può sperare in una qualche forma di collaborazione tra i due gruppi, ma diventa difficile raggiungere intese operative, a meno che si riesca ad individuare da una parte o dall’altra un qualche tema d’interesse comune. Anni fa avevo suggerito di esaminare insieme il tema dei corsi di lingua e cultura perché d’importanza fondamentale sia per la conservazione delle radici culturali originarie tra i discendenti degli immigrati italiani e sia perché solo i bambini delle scuole dell’obbligo possono dare una prospettiva abbastanza sicura all’insegnamento dell’italiano nelle scuole secondarie.

La «cantonalizzazione» dei corsi
Allora sostenevo che senza un qualche ragionevole compromesso non sarebbe stato possibile conservare a lungo tali corsi (per i quali quest’anno è stata lanciata l’ennesima petizione, perché minacciati di ridimensionamento) e suggerivo la loro «cantonalizzazione», ossia la loro integrazione nell’offerta ordinaria della scuola pubblica, eventualmente con parziale finanziamento da parte dello Stato italiano. Non è detto, soprattutto con l’aria che tira riguardo all’insegnamento delle lingue nella scuola primaria (e in parte secondaria), che i Cantoni siano disponibili a questa integrazione, ma si tratterebbe quantomeno di fare il tentativo.
«Non capisco perché da parte italiana ‑ e intendo Ambasciata, Consolati, Enti gestori, ecc. ‑ si continui a considerare la questione di competenza esclusivamente italiana e non anche svizzera. E’ infatti anche nell’interesse della Svizzera sostenere ovunque la lingua italiana perché è una della quattro lingue nazionali e ufficiali ed è funzionale alla coesione interna del Paese».
Così scrivevo quattro anni fa in un articolo. Ritenevo anche che la «cantonalizzazione» dei corsi fosse una via da esplorare. Non so se sia stato fatto nel frattempo qualche tentativo, ma, vista la situazione, mi pare quantomeno utile ritentare, con un impegno diretto dell’Ambasciata, in quanto responsabile dell’organizzazione e del finanziamento dei corsi attuali.
Sarebbe tuttavia troppo ottimistico ritenere che basti la valorizzazione dei corsi di lingua e cultura per considerare salva la lingua italiana in Svizzera. La salvezza verrà infatti soprattutto dal numero delle persone che intenderanno continuare a servirsene (nel Ticino e nel resto della Svizzera), dagli stimoli che esse riceveranno circa la sua utilità provata, ma anche dal sostegno finanziario che le iniziative fuori dal Ticino riusciranno ad attirare.
Giovanni Longu
Berna, 15.6.2016

13 giugno 2016

Immigrazione, accoglienza e formazione



Secondo i dati dell'ONU, oltre 10'000 migranti e rifugiati sono morti nel Mediterraneo dall'inizio del 2014 nel tentativo di raggiungere l'Europa. Un quotidiano ticinese la settimana scorsa ha ripubblicato su quattro diverse pagine alcune foto di quel bambino siriano, Aylan, trovato morto l’estate scorsa su una spiaggia mentre insieme alla sua famiglia e ad altri profughi cercava la sopravvivenza in Europa. Accanto all’ultima foto, in cui il soccorritore indica il punto della spiaggia dove fu trovato, è riportato il commento di Mario Calabresi della Stampa del 3 settembre 2015 col titolo: «La spiaggia su cui muore l’Europa».

L'Europa deve agire
Aylan e la spiaggia su cui anche l'Europa rischia di morire!
 Spero che l’Europa abbia ancora risorse sufficienti per salvarsi, ma condivido l’opinione di Calabresi quando dice che questa «è l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia». L’Europa cristiana non può rimanere indifferenze di fronte ai continui naufragi e ai rischi che corrono in mare (ma anche in terraferma) le migliaia di persone in fuga da guerre e da ogni sorta di pericolo dall’Asia e dall’Africa.
La confusione tra profughi, richiedenti l’asilo e migranti (nel senso tradizionale del termine in occidente) non ha certo aiutato ad elaborare una strategia comune di soccorso e di accoglienza, ma non può essere addotta a giustificazione dell’inefficienza dell’Unione europea nel cercare soluzioni possibili.
Non credo che la soluzione migliore contro l’«invasione» (il termine continua ad essere usato anche se brutto) di stranieri sia la chiusura delle frontiere interne (per altro contraria ai Trattati) e nemmeno lo spostamento della difesa del fortino Europa ai suoi confini esterni (che vanno certamente controllati, sapendo tuttavia che sarà ben difficile controllarli interamente, soprattutto lungo il fronte marittimo del Mediterraneo). Meno ancora mi convince la soluzione (oltretutto molto costosa) di delegare il (brutto) compito di arginare la marea dei profughi a Stati che non hanno l’imbarazzo di una tradizione umanitaria e della presenza al suo interno di un Papa che non passa giorno in cui non richiami i doveri dell’accoglienza e dell’umanità.

Occorre una chiara strategia del «dopo»
A mio parere, nei momenti di emergenza, la domanda non dovrebbe essere quanti profughi possiamo accogliere, ma come dobbiamo accoglierli. Il dovere della prima accoglienza dovrebbe essere sacrosanto per tutti, anche senza richiamarsi alle opere della misericordia cristiana. Evidentemente la prima accoglienza ha un tempo limitato, per cui è imperativo che l’Unione europea elabori con determinazione una chiara strategia del «dopo», vincolante per tutti gli Stati membri. Non è ammissibile che in un sistema che aspira all’Unione dei suoi membri, alcuni siano più caricati di altri.
Mi rendo conto che tra il dire e il fare la distanza è piuttosto lunga, ma rappresenterebbe una resa e la disfatta del progetto europeo se non si riuscisse in tempi ragionevoli a calcolare la capacità di ospitare per un tempo medio-lungo un certo numero di stranieri, a valutarne i benefici sia in termini economici che demografici (possibile che l’invecchiamento della popolazione europea non sollevi qualche interrogativo?), a organizzare una strategia comune per offrire ai nuovi arrivati desiderosi di restare forme di apprendimento accelerato della lingua del posto e corsi di formazione professionale adeguati alle capacità degli individue e alle esigenze dell’economia.
Osservando la storia, si nota che alla vigilia di una guerra ogni popolo è capace di adeguarsi in brevissimo tempo all’economia di guerra. Perché i nostri popoli non dovrebbero essere capaci di adeguare il proprio tenore di vita, le strutture di accoglienza e i servizi primari alle nuove esigenze dovute all’ingresso di un numero grande (ma non grandissimo) di nostri simili, persone innocenti, sfortunate, in grave pericolo, dipendenti dalla nostra apertura nei loro confronti?
Anche da un punto di vista interessato bisognerebbe riflettere che il flusso di chi aspira, legittimamente, alla libertà e a vivere meglio, non è destinato ad arrestarsi nel breve periodo; tanto varrebbe sforzarsi (ma non ci vuole tanto) di vedere nel fenomeno inatteso e incontrastabile qualche aspetto positivo di non poca importanza. La storia insegna.

Il caso della Svizzera
Il caso della Svizzera (ma non solo) è particolarmente emblematico. E’ risaputo che senza l’immigrazione questo Paese non sarebbe quello che è, soprattutto nei suoi aspetti più positivi. Gli immigrati, infatti, non sono «serviti» solo all’economia (che si sviluppò grazie a loro fino a raggiungere livelli incredibili per un piccolo Paese senza risorse naturali), ma anche, almeno fino al 1960, alla ricostruzione di una struttura demografica normale, compensando il forte deficit di nascite degli anni Venti e Trenta.  
L’Europa di oggi non è molto diversa! Ovviamente non vanno trascurate nemmeno le misure previste dal cosiddetto «Migration Compact» o patto sulla migrazione, tra cui investimenti finanziari consistenti nei Paesi di provenienza dei profughi; ma non c’è dubbio, a mio parere, che si debba cominciare senza ulteriori indugi dalle azioni sopra accennate: accoglienza, insegnamento linguistico, formazione professionale.
Giovanni Longu
Berna, 13.6.2016