14 dicembre 2011

Corsi di lingua e cultura in Svizzera: errore micidiale!

Da anni ormai si organizzano tavole rotonde, incontri e convegni per discutere del futuro dei corsi di lingua e cultura in Svizzera. A intervenire, denunciare e implorare aiuto sono soprattutto gli insegnanti, i dirigenti dei cosiddetti enti gestori (Casci, Fopras, Ecap, ecc.) e qualche timido rappresentante dei genitori. Per avere ascolto cercano di coinvolgere non solo le autorità diplomatiche e consolari ma anche i parlamentari eletti all’estero, rappresentanti di partiti e sindacati, esponenti dell’associazionismo e dei cosiddetti organismi di rappresentanza, affinché si adoperino a Roma per trovare una soluzione. Ma i loro discorsi, invece di apportare lumi e infondere speranza, lasciano il tempo che trovano perché sostanzialmente vuoti, spesso autoreferenziali, inevitabilmente terminati col retorico appello a «non mollare», «restare uniti», «non lasciar morire i corsi».
Ho seguito uno di questi incontri, quello organizzato a Berna il 3 dicembre scorso, e mi sono reso conto della gravità della situazione almeno in alcune circoscrizioni consolari. Sentendo i vari interventi, per lo più fuori tema perché non tentavano nemmeno di rispondere al quesito del convegno («Quale futuro per i corsi di lingua e cultura italiana in Svizzera?»), mi sono anche reso conto che attorno a questo tema si sta compiendo un errore micidiale.

Errore micidiale guardare solo a Roma
Sebbene consapevoli della gravità della situazione, le organizzazioni degli insegnanti e gli enti gestori continuano a vedere la soluzione solo in una sorta di intervento salvifico (soprattutto finanziario) di Roma. E qui sta il primo aspetto dell’errore micidiale: ritenere che il problema dei corsi di lingua e cultura destinati agli italiani in età scolastica sia risolvibile solo a Roma e non (anche) in Svizzera.
Eppure alcuni degli intervenuti hanno messo in chiaro che la crisi finanziaria ed economica italiana ha spostato le priorità del governo altrove e con l’imperativo dei tagli non c’è spazio alle illusioni. La tendenza al risparmio anche nel Ministero degli affari esteri e nei capitoli riguardanti la cultura e la lingua italiane all’estero andrà accentuandosi, non riducendosi. Nell’editoriale della Rivista del novembre scorso, il direttore Giangi Cretti poneva la domanda secondo lui ormai indifferibile: «A chi interessa davvero l’italiano fuori d’Italia?». E rispondeva: «Poco o nulla allo Stato italiano».
Di fronte a una tale evidenza, a quanti sta davvero a cuore la sorte non tanto della lingua italiana in Svizzera ma della lingua e della cultura dei figli degli italiani in Svizzera, dovrebbe nascere spontaneo lo stimolo per cercare alternative valide al minor finanziamento da parte dello Stato italiano. In realtà ne sono state avanzate alcune, dal risparmio nell’organizzazione e nel riordino del personale insegnante a una maggiore responsabilizzazione finanziaria dei genitori degli allievi e persino a una parziale o totale privatizzazione dei corsi, ma non mi sono sembrate benaccolte. Soprattutto la prospettiva di una privatizzazione dei corsi mi è parsa scartata senza dibattito, perché, si dice, ne andrebbe della qualità dell’insegnamento e solo pochi enti gestori e pochi corsi riuscirebbero a sopravvivere! Eppure la via privatistica non andrebbe esclusa a priori. Proprio a Berna in molti ricordano ancora la storia pionieristica e volontaristica della scuola di formazione professionale CISAP, di diritto privato, che ha consentito per oltre trent’anni a migliaia di italiani non solo di imparare un mestiere ma anche di riappropriarsi di una cultura e di una dignità minacciate.

Errore micidiale non coinvolgere la Svizzera
Il secondo aspetto di questo errore micidiale è che, individuando l’unica possibile soluzione in un intervento salvifico di Roma, non si prendono nemmeno in considerazione altre possibilità, né quella della privatizzazione con un sostegno sussidiario dello Stato italiano né quella di un coinvolgimento delle autorità scolastiche locali. Incredibile ma vero, nell’incontro di Berna non solo mancava qualsiasi interlocutore svizzero ma non c’è mai stato nemmeno un accenno all’idea che la Svizzera potesse essere interessata ad intervenire in questo campo. Non va infatti dimenticato che l’italiano in questo Paese è lingua nazionale e ufficiale.
Ovviamente questo interesse è ancora da dimostrare, ma ritengo un grave errore escluderlo in partenza. La recente legge federale sulle lingue e la relativa ordinanza d’applicazione offrono almeno in punto di diritto alcune possibilità che andrebbero approfondite. Penso per esempio all’impegno della Confederazione e dei Cantoni a promuovere «il plurilinguismo degli allievi e dei docenti» e adoperarsi «per un insegnamento delle lingue straniere che assicuri agli allievi, alla fine della scuola dell’obbligo, competenze linguistiche in almeno una seconda lingua nazionale e in un’altra lingua straniera», ricordando che «l’insegnamento delle lingue nazionali tiene conto degli aspetti culturali di un paese plurilingue». Si deve anche sapere che «la Confederazione può concedere aiuti finanziari ai Cantoni per creare i presupposti per l’insegnamento di una seconda e di una terza lingua nazionale, […] promuovere la conoscenza della loro prima lingua da parte degli alloglotti».
Sono convinto, come ho già scritto in altre occasioni, che per l’italiano occorre agire maggiormente sui Cantoni. Non esplorare anche questa possibilità mi pare un errore micidiale.

Giovanni Longu
Berna, 14.12.2011

12 dicembre 2011

Se l’Italia fosse stata un Paese federale…di fronte alla crisi

Di fronte alla crisi che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi e all’insediamento del governo «tecnico» di Monti mi sono chiesto se l’Italia sarebbe giunta (come sembra) sull’orlo del fallimento se fosse stata un Paese federale. La mia risposta è: probabilmente no. Di fatto, tutti i Paesi federali europei anche se non godono di ottima salute (persino la prima della classe, la Germania, deve adottare misure di risparmio e operare tagli) sono comunque ben lontani dal rischio del tracollo.
Provo a dare una spiegazione: in un Paese federale (e penso in particolare alla Svizzera) i meccanismi di controllo e di autodifesa (solidarietà) sono tali da rendere quantomeno improbabile un dissesto finanziario globale come quello rischiato da Paesi centralisti come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia. Questi Paesi, in mancanza dei meccanismi di autocontrollo interni (federalismo), per superare le loro criticità hanno dovuto subire un prematuro cambio di governo (praticamente imposto) e accettare senza opposizione le richieste (vincolanti) dei poteri forti (mercati, borse, banche) e dei tecnocrati europei. L’Italia ha dovuto ricorrere persino a un cambio di governo al limite della costituzionalità per affidare a «tecnici» il risanamento dei conti pubblici, l’attuazione di riforme strutturali dolorose e impopolari, l’imposizione di una tregua tra i belligeranti delle opposte fazioni parlamentari, incapaci di adottare qualsiasi misura significativa per allontanare il rischio del fallimento.

Gli Stati federali gestiscono meglio le crisi
Come detto, gli Stati federali europei come la Svizzera, la Germania, l’Austria reagiscono meglio alla crisi perché di fronte al pericolo incombente scatta quel meccanismo fondamentale di salvaguardia chiamato solidarietà, per cui ogni membro dell’unione è chiamato a produrre il massimo sforzo per il bene di tutti secondo il motto (di cui vanno fieri gli svizzeri) «tutti per uno – uno per tutti».

Un tale meccanismo in Italia non esiste, tanto è vero che il principale partito politico che s’ispira, a suo dire, al federalismo, la Lega Nord, è stato il primo a schierarsi all’opposizione del governo Monti, non certo in nome dei principi del federalismo, bensì per opportunismo e mero calcolo elettorale. L’ennesima dimostrazione di quanto debole sia in Italia il pensiero federalista.
Confesso che ho sempre avuto molti dubbi sul federalismo alla Bossi-Maroni-Calderoli, perché in esso non trovo alcun riferimento ai principi che animano, per esempio, il federalismo elvetico. Già il termine «federalismo» mi sembra per il caso italiano improprio e una forzatura della Costituzione che non lo menziona nemmeno. All’articolo 5 si parla infatti solo di «autonomia» e di «decentramento», non di «sovranità» e «federalismo». Per definizione lo Stato federale si contrappone allo Stato unitario e l’Italia, com’è noto, è «una e indivisibile». E’ quasi impossibile passare da una forma all’altra. Di solito, Stato federale si nasce non si diventa.

Il federalismo svizzero insegna
Il caso svizzero può essere illuminante. Quando alla Svizzera, nel 1798, sotto l’occupazione napoleonica, si tentò di imporre una costituzione che all’articolo 1 recitava: «La Repubblica elvetica è una e indivisibile» e riduceva i Cantoni a unità amministrative, ci fu un’indignazione generale. Tanto è vero che cinque anni più tardi Napoleone dovette fare marcia indietro e scrivere un’altra costituzione che riconosceva l’autonomia e la sovranità dei Cantoni svizzeri. La Svizzera era nata federata (secondo la tradizione nel 1291) e tale intendeva restare.
Il carattere federativo della Svizzera è stato persino rafforzato nella Costituzione del 2000 sottolineando a più riprese che la sovranità appartiene al Popolo e ai Cantoni e che «il Popolo svizzero e i Cantoni… costituiscono la Confederazione». Questo intreccio di sovranità tra Confederazione, Cantoni e Popolo ha dato luogo a un sistema istituzionale complesso e strutturato a più livelli che è irripetibile in Italia, soprattutto perché manca l’equivalente dei Cantoni. Non è pertanto nemmeno pensabile in Italia, allo stato attuale, un autentico federalismo, anche se è ipotizzabile e a mio modo di vedere auspicabile uno Stato «regionale» con Regioni dotate di una maggiore autonomia soprattutto finanziaria.
Anche uno Stato «regionale», tuttavia, deve basarsi su alcuni principi del federalismo quali il riconoscimento e il rispetto reciproco di tutti i livelli istituzionali, la garanzia delle autonomie, lo spirito di solidarietà, il principio di sussidiarietà e corresponsabilità (ciascuno deve fare la sua parte) e il principio di partecipazione. La Svizzera ha concentrato l’essenza del federalismo nel motto che compare nel grande mosaico sotto la cupola del Palazzo federale di Berna: «tutti per uno – uno per tutti». Quando lo si potrà scrivere nel «Palazzo» della politica italiana?

Giovanni Longu
Berna 12.12.2011