25 aprile 2025

LIBERAZIONE da che cosa? Per fare che cosa?

Nella celebrazione del 25 aprile, in cui si celebra l’80° della Liberazione si corre facilmente il rischio di «ricordare», non senza un pizzico di orgoglio, quel che è avvenuto in Italia 80 anni fa, raccontando atti di eroismo dei partigiani e di chi ha contribuito, insieme agli Alleati, alla liberazione dell’Italia dalla sopraffazione nazifascista. Si ricorda anche, giustamente, il forte desiderio del popolo italiano di riavere le libertà democratiche che il regime aveva soppresso.

In questa parte rievocativa la retorica gioca sempre un ruolo importante, perché ai lettori o ascoltatori piacciono i racconti delle lotte per la libertà, degli atti eroici di partigiani mal equipaggiati contro eserciti ben armati, della sollevazione corale delle città come dei piccoli centri, del mito della Resistenza. Poche rievocazioni, invece, raccontano come la Liberazione sia avvenuta, quanto odio e desiderio di vendetta l’abbia accompagnata, la guerra civile, quanto sangue sia stato versato, quanto sia stato difficile ritornare alla (quasi) normalità.

Ciò che solitamente si dimentica di più è tuttavia di rispondere in maniera se non esaustiva almeno sufficientemente completa alla domanda fondamentale: «per fare che cosa?”: perché si è combattuto con armi impari? perché si è versato tanto sangue? perché si sono sollevate in forma corale tutte le popolazioni dell’Italia occupata? Eppure una risposta c’è, anche se non è semplice: certamente per ridare agli italiani la libertà, per far rivivere in Italia la democrazia, per dare al popolo italiano una Costituzione antifascista, ma anche per garantire a tutti il diritto al lavoro, il diritto fondamentale alla salute, l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, la pari dignità senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

In molte rievocazioni pubbliche della Liberazione si dimentica o si accenna appena alle domande precedenti perché alcune risposte risulterebbero insoddisfacenti. Basti pensare, per fare un esempio, al diritto al lavoro e all'incapacità di tutti i governi che si sono succeduti di garantirlo. Si dovrebbe spiegare perché milioni di italiani sono dovuti emigrare per avere un lavoro e una dignità. Oggi, è vero, molte disparità si sono attenuate o sono addirittura scomparse, ma altre sono riemerse forse accentuandosi. La povertà in Italia oggi è forse più stridente di 80 anni fa. Il diritto allo studio non è affatto garantito per tutti in ugual misura. La stessa democrazia, invece di garantire una reale partecipazione del popolo a stabilire le sorti del Paese (sovranità popolare), è diventata vittima di schieramenti illiberali contrapposti. La libertà del dissenso è fortemente limitata. Gli esempi potrebbero essere molti di più.

In conclusione, forse bisognerebbe trasformare la celebrazione della Liberazione almeno con l’aggiunta di un attento esame di coscienza, delle istituzioni e dei cittadini, perché gli obiettivi non sono stati affatto raggiunti se non in misura minimale.

Giovanni Longu

23 aprile 2025

1915: Conferenza di Zimmerwald (5-8.9.1915)

Prima di trattare di una delle più gravi conseguenze indirette della prima guerra mondiale, l’avvento del Fascismo in Italia, mi sembra opportuno ricordare un evento poco noto organizzato 110 anni fa in Svizzera, a cui parteciparono numerosi socialisti europei: la Conferenza di Zimmerwald o Prima conferenza internazionale socialista. Essa viene qui rievocata non tanto per evidenziare un incontro che pur avendo avuto un certo seguito non raggiunse gli obiettivi che si proponeva, soprattutto quello di fermare la guerra, quanto piuttosto per ricordare che all'inizio del secolo scorso il socialismo riusciva ad aggregare in Svizzera molti immigrati (spesso in competizione con le Missioni cattoliche bonomelliane) e servì a gettare ponti con la sinistra organizzata svizzera, che sosteneva fra l’altro politiche immigratorie progressiste.

Perché in Svizzera?

Perché la Svizzera, nonostante fosse fin dal 1815 neutrale e attenta a mostrarsi come tale, era anche un Paese molto accogliente nei confronti di stranieri rivoluzionari, anarchici, perseguitati, rifugiati politici. Si sa che furono molti ad approfittarne a cominciare da Giuseppe Mazzini, Michail Bakunin, tedeschi, italiani, polacchi, russi, ecc. Alla vigilia della prima guerra mondiale erano migliaia gli esuli che avevano trovato rifugio nella Confederazione. Alcuni sono ancora oggi famosi come Wladimir Uljanow Lenin o Lev Trotskij, altri sono meno noti come Luigi Bertoni, Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, ecc.

In Svizzera tenevano incontri, conferenze, congressi, stampavano libri e riviste, anche se la Confederazione esercitava su di essi una discreta sorveglianza. Gli interessati a questi personaggi e agli eventi che li hanno visti come protagonisti in Svizzera, osserveranno facilmente che i nomi più ricorrenti riguardano uomini. Sarebbe tuttavia sbagliato concludere che la scarsa frequenza di nomi dell’altro sesso corrisponda a una scarsa influenza delle donne su quegli eventi. Esse furono infatti non meno protagoniste degli uomini, come risulterà da un prossimo articolo, benché le cronache e le successive rievocazioni storiche abbiano riservato loro meno spazio e meno importanza, anche nella storia dell’immigrazione.

Per rispondere alla domanda «perché in Svizzera?» bisogna anche ricordare che la classe colta russa conosceva bene la Svizzera e i rapporti bilaterali erano consolidati ormai da secoli. Del resto era una consuetudine frequente che molte ragazze russe, che non potevano proseguire gli studi universitari nella Russia autocratica zarista, s’immatricolassero nelle università svizzere. Per esempio, nel semestre invernale 1906-1907 negli atenei svizzeri risultavano immatricolati, accanto a 2660 studenti svizzeri (maschi e femmine), 2322 russi (maschi e femmine), ma mentre le studentesse svizzere erano appena 172, quelle russe erano ben 1507.

Va anche ricordato che gli eventi russi successivi al 1917 furono in gran parte preparati all'estero, come dimostra facilmente la biografia di Lenin, che trascorse in Svizzera circa sei anni e mezzo, prima di rientrare nel 1917 a San Pietroburgo per prendere la guida delle Rivoluzione (cfr. articolo del 19 marzo 2025).

Perché Zimmerwald?

Anche a questa domanda la risposta è semplice. Siccome la Svizzera neutrale non voleva che sul suo territorio si organizzassero eventi che avrebbero potuto creare difficoltà diplomatiche, gli organizzatori svizzeri guidati da Robert Grimm cercarono un luogo piuttosto appartato e di non facile accesso, soprattutto allora. Zimmerwald dev'essere apparso un luogo ideale (come lo sarà l’anno seguente per il seguito della conferenza Kiental, pure nel Cantone di Berna). 

Angelica Balabanoff (1878-1965)
Per precauzione, tuttavia, la piccola carovana di rappresentanti di diversi partiti socialisti europei, prima di partire da Berna dove si erano dati appuntamento sparsero la voce di voler partecipare a un incontro di ornitologia in quanto rappresentanti di un’associazione ornitologica. Trotsky ricorderà quel breve viaggio in quattro carrozze con un po’ d’ironia, facendo notare che mezzo secolo dopo la fondazione della Prima Internazionale «tutti gli internazionalisti potevano entrare in quattro carrozze».

Zimmerwald era ed è tuttora un piccolo villaggio del Cantone di Berna, che acquistò notorietà dopo la conferenza, che si tenne dal 5 all'8 settembre 1915, alla quale aveva partecipato una folta delegazione russa di cui facevano parte fra gli altri Lenin (1870-1924) e Lev Trotsky (1879-1940). Del Partito socialista italiano parteciparono solo esponenti contrari alla guerra come Angelica Balabanoff (1878-1965), Oddino Morgari Giuseppe Emanuele Modigliani,  Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati.

Di Angelica Balabanoff, personaggio chiave del socialismo italiano e delle conferenze internazionali di Zimmerwald e Kienthal (1916) si parlerà ancora in altro articolo. Qui basti ricordare che per alcuni anni fu anche di grande sostegno all’immigrazione italiana in Svizzera operando da quella centrale zurighese che fu il Ristorante «Cooperativo». Era però anche una rivoluzionaria che non esitava a criticare le condizioni di lavoro e di vita soprattutto dei lavoratori immigrati. Ritenuta una «pericolosa bolscevica» e una minaccia alla pace sociale, nel 1918 fu espulsa dalla Svizzera applicando l’articolo 70 della Costituzione federale allora vigente, che prevedeva l’espulsione dal territorio svizzero di quelle persone «che mettono a pericolo la sicurezza interna od esterna della Confederazione».

Bisogna anche aggiungere che la Balabanoff, marxista e anticlericale, criticava aspramente non solo le istituzioni svizzere, ma anche alcune organizzazioni che operavano in ambito sociale e religioso in favore degli immigrati, specialmente le Missioni cattoliche avviate da Monsignor Geremia Bonomelli (1831-1914), contrapponendo di fatto il Socialismo («la nostra grande utopia») marxista al Cattolicesimo e inimicandosi una parte consistente degli immigrati italiani.

La centrale di Zurigo

Per comprendere meglio l’ambiente degli immigrati italiani fino alla prima guerra mondiale è opportuno ricordare che negli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento gli immigrati italiani in Svizzera erano in forte crescita (nel decennio 1900-1910 gli italiani passarono da 116.693 e 202.809) e si concentravano soprattutto nelle grandi agglomerazioni. La maggiore concentrazione, escluso il Ticino, era quella del Cantone di Zurigo con rispettivamente 12.205 e 22.240 italiani.

Interno del mitico ristorante Cooperativo, abbellito da quadri di Comensoli
Bisogna aggiungere che a Zurigo i molti italiani sentivano fortemente l’esigenza di ritrovi, di ristoranti e centri di italianità, dove incontrarsi e stare insieme. Fu così che un gruppo di immigrati fondarono nel 1905 la Società Cooperativa Italiana di Zurigo con annesso un ristorante. Lo scopo della Cooperativa era di "rafforzare la Cooperazione Socialista", quello del ristorante di offrire pasti salutari e a buon mercato agli operai italiani.

Il Coopi o Copi, come veniva chiamato abitualmente, divenne un importante punto d’incontro non solo di italiani perché lo frequentarono socialisti, anarchici, politici e intellettuali di sinistra, provenienti da diversi Paesi europei. Tra i frequentatori più famosi ci sono stati Benito Mussolini, quando era ancora militante socialista, Giacomo Matteotti, Wladimir Uljanow Lenin Angelica Balabanoff, Antonio Gramsci, Filippo Turati, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Ignazio Silone, Bertolt Brecht, Max Frisch. In tempi più recenti erano di casa anche il grande sindacalista svizzero Ezio Canonica, il pittore italo-svizzero Mario Comensoli, politici come Dario Robbiani, l’ex Consigliere federale Moritz Leuenberger e molti altri personaggi della sinistra.

Il «Cooperativo» si dotò presto anche di una libreria e di un organo di stampa, L'Avvenire dei Lavoratori, molto diffuso (e ancora pubblicato, purtroppo solo sotto forma di newsletter) e, durante il regime fascista, fu l'unico foglio socialista italiano edito fuori dalla clandestinità. Oggi, purtroppo, anche la sede storica del Cooperativo ha chiuso i battenti.

Giovanni Longu
Berna 23.04.2025

 




22 aprile 2025

Papa Francesco: un pastore coraggioso

Papa Francesco (1936-2025) ci ha lasciato il 21 aprile 2025, all'età di 88 anni, dopo averci dato la benedizione Urbi et Orbi e consegnato un ultimo messaggio pasquale, il giorno prima, Domenica di Pasqua. Non so con quali sostantivi e aggettivi sarà ricordato di preferenza, ma se dovessi sceglierne uno tra quelli che gli sono stati attribuiti finora la mia preferenza andrebbe a «pastore» e «coraggioso».

E’ stato infatti un pastore di anime che ha sempre cercato di custodire con coraggio il gregge che il Padre, tramite il Collegio cardinalizio, gli aveva affidato il 13 marzo 2013, dai molti lupi che hanno tentato in vari modi di dividerlo e trasformarlo in fazioni contrapposte, attribuendogli atteggiamenti mutuati dal linguaggio politico, senza rendersi conto che la Chiesa non è identificabile con alcun regime politico. Papa Francesco ha sempre difeso con convinzione il Popolo di Dio, non le sue prerogative di capo della Chiesa, addirittura rinunciando all'appartamento papale al terzo piano del Palazzo apostolico in Vaticano, preferendo la più modesta sistemazione nella Casa Santa Marta.

Egli è stato un pastore coraggioso perché ha ricordato ai fedeli e alla Chiesa non solo il cammino (come ricerca del senso della vita), talvolta difficile, doloroso, esigente (e su cui la pastorale tende a soffermarsi a lungo), ma anche la meta: la Salvezza, la Resurrezione, il Regno di Dio, «l’incontro con il Signore Gesù» (di cui si parla poco). In questa ottica papa Francesco ha voluto dedicare l’Anno Santo 2025 al tema «Pellegrini di speranza» perché «la speranza cristiana non illude e non delude, essendo fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall'amore divino».


Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché ha cercato di far capire al Popolo di Dio, che ci si salva camminando insieme, pregando insieme, sperando insieme, in comunione anche con gli altri cristiani non cattolici e persino con i non cristiani. Ha sottolineato in più occasioni che la solidarietà cristiana è un'espressione fondamentale dell'amore e della comunione, come conseguenza dell'essere membra del corpo di Cristo e tutti figli dello stesso Padre («Fratelli tutti»!): «ci si salva soltanto insieme, incontrandosi, negoziando, smettendo di combattersi, riconciliandosi, moderando il linguaggio della politica e della propaganda, sviluppando percorsi concreti per la pace».

Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché non ha cercato solo di mettere in sicurezza la comunità delle persone che lo seguivano fedelmente, geograficamente vicine e lontane, ma ha cercato anche le persone smarrite, quelle allontanate da prospettive illusorie, ma soprattutto quelle discriminate per tanti pregiudizi, soprattutto i poveri, i malati, gli anziani, gli emarginati, i migranti, le persone trans e omosessuali, perché anch’essi figli di Dio e nel Popolo di Dio non ci sono figli di serie A e di serie B, non esistono persone da discriminare e da scartare. La Chiesa non discrimina nessuno. 

Papa Francesco ha dimostrato tutta la vita di essere rispettoso, accogliente, aperto al dialogo con tutti, nella Chiesa e fuori, perché andava ripetendo, specialmente negli ultimi tempi, ci si salva camminando insieme e solidarizzando con tutti, perché «Dio salva tutti». Nella Chiesa non ci sono «scarti». Non lo ammette la solidarietà cristiana e umana, non lo ammette il Vangelo. Semmai, ripeteva papa Francesco, siamo tutti peccatori, tutti abbiamo conti in rosso, siamo tutti debitori di Dio. La sua vita è stata una testimonianza coraggiosa del Vangelo. Specialmente negli ultimi giorni di vita non ha nascosto la sua malattia e le sue difficoltà a muoversi e a parlare.

Papa Francesco è stato un pastore coraggioso perché ha detto senza esitazione ai potenti della terra che «la pace è un bene prezioso, oggetto della nostra speranza, al quale aspira tutta l'umanità», che nessuna pace è possibile senza un vero disarmo, che la giustizia non risponde alla legge del più forte (secondo cui «il potente mangia il più debole»), che il negoziato è un atto di coraggio. Al contrario, riteneva la guerra ignobile, un trionfo della menzogna e dell'interesse, una sconfitta per tutti e che la corsa al riarmo è ingiustificata e dannosa. Sapeva che i suoi auspici non avrebbero avuto seguito, ma non si stancava di continuare a sperare.

Infine, papa Francesco è stato un pastore così coraggioso che anche durante la malattia ha pregato e lavorato per la Chiesa. Il giorno di Pasqua, vigilia del decesso, non ha voluto rinunciare alla benedizione Urbi et Orbi e al suo ultimo giro in papamobile tra i fedeli presenti in piazza San Pietro, come se, prima della sua definitiva partenza, volesse salutarli e abbracciarli tutti, uno per uno, anche quelli che non potevano essere presenti fisicamente. Credo che in questo abbraccio si siano riconosciuti in molti, anche non cattolici e non cristiani.

Grazie, papa Francesco. R.I.P.