29 marzo 2023

Impegno costante a difesa dell’italiano in calo (3)

Nessuno mette in dubbio che l’italiano sia una delle quattro lingue «nazionali» e «ufficiali» della Svizzera. E’ scritto nella Costituzione federale ed è confortato dalla pratica in tutti i Cantoni e soprattutto nelle principali città (Zurigo, Ginevra, Basilea, Berna, Losanna, Lucerna, San Gallo, ecc.). Il contributo degli immigrati italiani della seconda metà del Novecento alla sua diffusione è innegabile. Grazie ad essi l’italiano ha raggiunto e superato nel 1970 una massa critica importante (11,9%), si è rafforzato nella Svizzera italiana e il resto della Svizzera è inimmaginabile senza l’italiano. Eppure chi segue l’evoluzione delle lingue nazionali e ufficiali in questo Paese non ha dubbi: l’italiano nelle regioni non italofone è in costante calo ed è insidiato dall'inglese (come si vedrà nel prossimo articolo) e nel breve e medio termine non è ipotizzabile un’inversione di tendenza.

Riconoscimenti importanti ma insufficienti

Era un fatto dovuto, nel 1848, inserire nella Costituzione l’italiano come una delle principali «lingue nazionali». Sarebbe stato illogico e incomprensibile ammettere nella Confederazione il Cantone Ticino senza la lingua, la cultura e la religione praticate dai suoi abitanti. Questo comportava implicitamente il riconoscimento dell’uguaglianza delle tre principali lingue nazionali e il diritto a un’equa rappresentanza della Svizzera italiana negli organismi federali, ma niente di più.

Anche nel 1938, quando furono precisate nella Costituzione le «lingue ufficiali», non si trattò per l’italiano di una novità perché già nella Repubblica elvetica (1798-1803) i testi di legge erano redatti nelle tre lingue, parificate, tedesca, francese ed italiana. Inoltre, gli atti ufficiali della Confederazione venivano pubblicati sistematicamente anche in italiano fin dal 1918. Per l’italiano si trattò comunque di un passo in avanti perché da allora è stato sempre più presente non solo nei testi ufficiali, ma anche nelle comunicazioni (messaggi, dichiarazioni) del Consiglio federale.

Questi riconoscimenti, per quanto importanti e utili, influirono tuttavia ben poco sulla diffusione dell'italofonia (oscillante per decenni fra il 4 e il 6%), soprattutto nella Svizzera tedesca e francese, fino all'arrivo in massa degli immigrati italiani nel secondo dopoguerra, quando raggiunse dapprima il 9,5% (1960) e poi l’11,9% (1970), il massimo storico. Peccato che gli italofoni (svizzeri e stranieri) non abbiano saputo approfittare di questa opportunità unica per rafforzare e diffondere ulteriormente la terza lingua in tutto il Paese! 

Dopo il 1970, infatti, nonostante l’impegno della Confederazione e di alcuni Cantoni in favore del plurilinguismo e delle due lingue minoritarie italiano e romancio, gli italofoni non solo non sono più aumentati, ma sono diminuiti costantemente sia in percentuale (1980: 9,8%, 1990: 7,6%, 2000: 6,5%) che in cifre assolute (1970: 743.760; 1980: 622.226; 1990: 524.116; 2000: 470.961). Alcuni osservatori ritengono che per mantenere la lingua italiana fuori del Ticino viva, ossia parlata, scritta e in grado di autoalimentarsi, dovrebbe avere un livello di diffusione intorno all'8-10%, quindi al di sopra, come si vedrà nel prossimo articolo, del livello attuale.

Calo inarrestabile e tendenza irreversibile?

Se qualcuno obiettasse che quel traguardo è irraggiungibile perché la tendenza sembra irreversibile, avrebbe in parte ragione (perché in tutta la storia svizzera il livello del 10% è stato raggiunto e superato una sola volta, in circostanze particolari e verosimilmente irripetibili) e in parte torto, perché rinunciarvi senza nemmeno tentare di raggiungerlo significherebbe lasciare che l’italiano continui a perdere terreno in tutte le regioni non italofone fino a ridursi a presenza simbolica e rischiare di mettere in crisi il tradizionale quadrilinguismo svizzero e forse la stessa coesione nazionale. Dunque tentare è necessario.

Per spiegare il calo dell’italiano dal 1970 al 2000 si è spesso detto che è stato inevitabile a seguito del saldo migratorio degli italiani sempre negativo dai primi anni Settanta al 2007. Ma questa tesi non è del tutto convincente, perché il calo è proseguito anche dopo, quando il saldo migratorio è ridiventato positivo. Si è anche detto che per salvaguardare le lingue minoritarie occorresse una legge sulle lingue. Questa è stata fatta, nel 2007, ma non è bastata ad arrestare il calo dell’italiano, anche perché i fattori che vi influiscono sono tanti (federalismo, integrazione, cambiamenti sociali e culturali, ecc.) e alcuni immodificabili perché concernono l'assetto strutturale della Svizzera.

Del resto, già il nome (Legge federale sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguistiche) denota la complessità della materia. Per esempio, si parla di «lingue» e non di «lingua», perché la Confederazione Svizzera non ha una ma tre «lingue ufficiali» e addirittura quattro lingue «nazionali»; si parla di «lingue nazionali» e non semplicemente di lingue e a dare un senso preciso al loro carattere «nazionale» provvede la seconda parte del titolo della legge, facendo capire che si tratta di quelle parlate dalle «comunità linguistiche» riconosciute dalla Confederazione, ossia quella tedesca, quella francese, quella italiana e quella romancia, tutte radicate a livello cantonale. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 29.03.2023


22 marzo 2023

Impegno costante a difesa dell’italiano in calo (2)

Che lo stato di salute dell’italiano nella Svizzera tedesca e francese sia sempre delicato è sotto gli occhi di quanti hanno a cuore la sua sorte, mentre non è sempre chiara la cura, che andrebbe ricercata anzitutto sfruttando il potenziale delle due espressioni in esame: «lingua nazionale» e «lingua ufficiale». Conoscerne il significato e la portata è anche utile per evitare errori di valutazione e attribuire erroneamente il calo dell’italiano scritto e parlato per esempio a una presunta inefficace politica linguistica della Confederazione e dei Cantoni. In altro articolo si cercherà di chiarire la situazione e avanzare qualche proposta.

Lingua «nazionale» dal 1848


L’italiano entrò nella Costituzione federale fin dal 1848 come «lingua nazionale», ma non come «lingua ufficiale» della Confederazione. Quest’ultimo riconoscimento, anche per le altre lingue, arriverà a tappe. Probabilmente nel 1848 si ritenne prioritario stabilire l’appartenenza alla Confederazione di tutti i Cantoni con pari dignità e nel rispetto delle peculiarità di ciascuno, compresa la lingua. Per questo le tre lingue principali (tedesco, francese e italiano) vennero riconosciute «lingue nazionali» (Nationalsprachen).

Benché tale riconoscimento non comportasse per alcuna di esse conseguenze specifiche di tipo linguistico o privilegi rispetto alle altre lingue (per esempio del tedesco nei confronti del francese o dell’italiano), si trattava di una decisione importante perché impegnava la Confederazione a riconoscere ed eventualmente a difendere l’esistenza, l’uso e la dignità delle lingue nazionali come peculiarità essenziali della maggioranza dei cittadini dei Cantoni interessati, ma anche ad applicare negli organi elettivi della Confederazione il principio di un’equa rappresentanza linguistica.

In effetti, fin dal 1848 ci furono italofoni nell'Assemblea federale e nel Consiglio federale, ma bisognerà aspettare la riforma costituzionale del 1874 per trovare una norma che prevedesse un’equa rappresentanza delle lingue anche nel Tribunale federale. L’articolo 107 stabiliva infatti che nella nomina da parte dell’Assemblea federale dei membri e dei supplenti del Tribunale federale si avesse riguardo «a che tutte e tre le lingue nazionali siano rappresentate».

Inizialmente il riconoscimento delle «lingue nazionali» comportava che la Confederazione garantisse la protezione e la difesa della lingua o delle lingue nazionali nei territori dei Cantoni interessati introducendo di fatto il principio della territorialità delle lingue. Su questa base la Confederazione ha versato fin dagli anni Quaranta del secolo scorso sussidi finanziari ai Cantoni Ticino e Grigioni per la difesa della loro cultura e della loro lingua. Da alcuni decenni tale principio è applicato opportunamente anche al di fuori della Svizzera italiana.

Italiano «lingua ufficiale»

Durante tutto il secolo scorso, con l’accresciuta esigenza d’informazioni, di conoscenze, di scambi, ma anche di partecipazione al processo politico nazionale, soprattutto al Ticino non bastava più il semplice riconoscimento dell’italiano come «lingua nazionale». Esigeva maggiori informazioni, migliori traduzioni e, in generale, di poter disporre degli atti e della corrispondenza ufficiale in buon italiano. A perorare la causa della «dignità della lingua italiana fu nel 1917 il consigliere federale ticinese Giuseppe Motta (1871-1940).

Non tutti, nella Confederazione, erano favorevoli alle richieste di Motta (si parlò persino di «nazionalismo ticinese» e di «pericolo irredentistico»), ma il buon senso prevalse e il Consiglio federale decise di migliorare e potenziare i servizi linguistici italiani con la creazione di un «Segretariato di lingua italiana» in seno alla Cancelleria federale e di pubblicare nel «Foglio federale» gli atti ufficiali del Consiglio federale.

Un notevole passo avanti fu compiuto nel 1938 quando fu deciso di aggiungere nell'articolo della Costituzione federale riguardante le «lingue nazionali» il romancio. In quell'occasione, infatti, fu anche deciso d’introdurre un nuovo articolo costituzionale, il quale stabiliva che «le lingue ufficiali della Confederazione sono il tedesco, il francese e l'italiano» e che «il romancio è pure lingua ufficiale nei rapporti con i cittadini romanci», rimandando i particolari a una legge specifica sulle lingue.

Da allora la qualità dell’«italiano federale» andò migliorando, ma andò crescendo anche la presenza dell’italiano al di fuori delle regioni tradizionalmente italofone del Ticino e dei Grigioni, acquisendo sempre più anche una portata nazionale in senso geografico. Con quali conseguenze? (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 22.03.2023

15 marzo 2023

Impegno costante a difesa dell’italiano in calo (1)

Grazie agli immigrati italiani degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, nel 1970 l’italiano parlato aveva raggiunto, in base ai dati dei censimenti del secolo scorso e degli anni 2000, il numero più alto di italofoni (svizzeri e stranieri). Dal 1970, la lingua italiana perde terreno, anche se in questi ultimi anni il calo è rallentato, e spesso le «colpe» sono (state) attribuite alla Confederazione, accusata di non fare abbastanza per la salvaguardia dell’italiano come «lingua nazionale» e «lingua ufficiale» al pari del tedesco e del francese. In questo articolo si esaminerà soprattutto la prima di queste espressioni, mentre nei successivi si prenderanno in esame la seconda espressione, le cause della diminuzione dell'italofonia e alcuni possibili rimedi.

Contesto preoccupante

Nel 2000, il calo dell'italiano rispetto al 1970-80-90 fece
temere un inesorabile declino dell'italiano in Svizzera.


Subito dopo la pubblicazione dei dati del censimento federale della popolazione del 2000, nonostante risultasse in maniera evidente la diminuzione degli italofoni rispetto ai censimenti precedenti, non ci furono nei media svizzeri segni di preoccupazione, perché imputavano il calo essenzialmente alla diminuzione degli immigrati italiani, soprattutto a partire dai primi anni Settanta, mentre tra gli svizzeri gli italofoni risultavano in (leggero) aumento.

Negli ambienti italiani, invece, ci furono segnali di forte preoccupazione perché il calo degli italofoni registrato in alcuni Cantoni (Zurigo: -27,8%; Berna: -26,5%; Basilea Città: -26,7%; Soletta: -29,7%; Vaud: -29,7%, ecc.) confermava una tendenza iniziata negli anni Settanta e sembrava preannunciare l’inesorabile declino dell’italiano a nord delle Alpi. Tra le conseguenze ipotizzate si parlava apertamente di un possibile disimpegno dell’Italia nel sostegno ai corsi di lingua e cultura, della probabile contrazione dell’offerta già esigua dell’italiano nei licei, dell’inevitabile riduzione delle cattedre d’italiano nelle università, ecc.

Alle previsioni temute dagli italiani, in alcuni ambienti svizzeri se ne aggiungevano altre di politica interna che vedevano nella diminuzione dell'italofonia un declassamento della terza lingua «nazionale» a lingua «regionale» e un rischio per la coesione nazionale. Tanto più che in un rapporto dell’Ufficio federale della cultura sull'applicazione della Carta europea delle lingue regionali e minoritarie era scritto che «la Svizzera ha definito lingue regionali o minoritarie ai sensi della Carta il romancio e l’italiano». Ma l’italiano, si chiesero alcuni osservatori, è ancora lingua «nazionale», come indicato nella Costituzione fin dal 1848, o è solo «regionale»?

In molti, anche in ambito politico, non esitarono ad attribuire alla Confederazione un certo disinteresse alla salvaguardia e alla promozione dell’italiano sia nell'amministrazione federale (visibilmente dominata da svizzero-tedeschi e, sia pure in proporzione minore, da francofoni) che nella politica linguistica e culturale della Svizzera. Spesso in queste critiche si celava un’accusa d’incoerenza della Confederazione in quanto depositaria della Costituzione a cui spettava, insieme ai Cantoni, di applicarla in tutte le sue parti, perché sembrava indifferente all’applicazione del dettato costituzionale che considerava l’italiano, al pari del tedesco e del francese «lingue nazionali» (art. 109 Cost. 1848) e «lingue ufficiali» (art. 116 Cost. 1874).

Necessità di una legge specifica sulle lingue

Plurilinguismo svizzero, 2000
Fu a seguito di queste discussioni e accuse velate o esplicite alla Confederazione che si giunse nel 2007 all'adozione di una legge federale sulle lingue, che già nel nome («Legge federale sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguistiche») denota la complessità della materia. Per esempio, si parla di «lingue» e non di «lingua», perché la Confederazione Svizzera non ha una ma tre «lingue ufficiali» e addirittura quattro lingue «nazionali»; si parla di «lingue nazionali» e non semplicemente di lingue e a dare un senso preciso al loro carattere «nazionale» provvede la seconda parte del titolo della legge, facendo capire che si tratta delle lingue parlate dalle quattro «comunità linguistiche» riconosciute dalla Confederazione, ossia quella tedesca, quella francese, quella italiana e quella romancia.

Si dicono «nazionali» perché nell'Ottocento, quando fu approvata la prima Costituzione federale, non si parlava di «comunità linguistiche» ma di etnie, stirpi, nazioni. La lingua era considerata «fattore decisivo nell'individualità d'una stirpe» (G. Motta). In Svizzera ce n’erano addirittura quattro aventi uguali diritti. In Ticino, dove la difesa dell’italianità era considerata irrinunciabile, si parlò di una sana forma di «nazionalismo ticinese».

I padri della Costituzione federale del 1848 non potevano ignorare lo spirito del tempo. Oggi però lo spirito è cambiato e la difesa della lingua italiana ha bisogno di strumenti più efficaci e un impegno costante anche da parte degli italofoni. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 15.3.2023

08 marzo 2023

8 marzo: giornata internazionale della donna!

Per ragioni d’età, alle giovani generazioni può sfuggire quanta strada abbiano dovuto percorrere le donne in Svizzera per giungere alla situazione attuale di quasi assoluta parità uomo-donna. Chi obiettasse che l’uguaglianza non è stata ancora raggiunta avrebbe ragione, ma dovrebbe ammettere che i pochi punti percentuali ancora mancanti sono ben poca cosa rispetto alla distanza che separava i due sessi 70-80 anni fa, quando l’uguaglianza appariva un’utopia. Rievocare oggi alcuni obiettivi raggiunti dovrebbe rafforzare l’ottimismo anche tra le donne con un passato migratorio.

Donne, forza di lotta e di sviluppo

Le donne sono sempre state in prima linea nella lotta contro le ingiustizie e per i diritti, ma sempre pacificamente. Durante la guerra avevano sperimentato con successo che potevano sostituire senza grossi problemi gli uomini in quasi tutti gli ambiti tipicamente maschili del lavoro agricolo e industriale. Purtroppo questi titoli di merito non hanno accelerato il processo di avvicinamento all'uguaglianza.

Ciò nonostante, da allora le donne sono state e sono sempre in prima fila nella lotta per la pace, la salvaguardia dei diritti umani, la tutela dell’ambiente, lo sviluppo sostenibile e contro la guerra, la dittatura, il razzismo, la discriminazione, il sottosviluppo. Nella Giornata internazionale della Donna si ricorda, in Svizzera, soprattutto la conquista (tardiva, rispetto ad altri Paesi) del diritto di voto delle donne nel 1971, ma andrebbe ricordato che non furono meno importanti altre conquiste in ambito sociale, formativo e professionale.

Nel dopoguerra le donne partivano svantaggiate in quasi tutti i campi rispetto agli uomini ed è difficile rendersi conto di quanto abbiano lottato per superare gli ostacoli non solo in politica, ma anche nell'istruzione (perché la formazione superiore non era un diritto uguale per tutti), nella preparazione professionale (perché si riteneva che il lavoro «femminile» non richiedesse grandi conoscenze), in campo retributivo (parità salariale per un uguale lavoro), nell'accesso a tutte le professioni e a tutti i livelli (anche a quelli riservati tradizionalmente agli accademici e agli ufficiali dell’esercito).

Le lotte per la formazione e la professione

Molti ricordano sicuramente che fino a poco tempo fa si faceva la distinzione tra professioni maschili e femminili. In effetti la statistica, che registra solo i fatti e non le intenzioni, registrava e forse continua a registrare che certe professioni sono praticate più dalle donne che dagli uomini e viceversa. Solo che in passato si attribuiva a questa costatazione un significato che in realtà non aveva. Spesso infatti non si trattava di propensioni (ai lavori domestici, alla cura dei bambini, all'assistenza…) ma di convenienze (soprattutto degli uomini).

la formazione e la professionalità hanno spianato
alle donne la strada del successo e dell'uguaglianza. 
Oggi non sorprende più nessuno che accanto alle casalinghe (per altro diminuite negli ultimi trent'anni dal 64,4% al 27,3%) ci siano anche uomini dediti a tempo pieno alle «faccende domestiche» e accanto ai meccanici o ai camionisti lavorino donne meccaniche e camioniste. Da tempo quella distinzione ha cominciato a vacillare perché nessun campo di attività professionale è rimasto estraneo all'interesse e alle capacità delle donne, che partecipano sempre più alle formazioni superiori e nell'attività professionale dimostrano di non essere meno brave degli uomini a tutti i livelli, anche dirigenziali.

I risultati si vedono

Negli ultimi trent'anni l’attività lavorativa delle donne dai 15 ai 64 anni è notevolmente cresciuta. Se nel 1991 il tasso di attività femminile era del 68,2% e quello degli uomini del 91,1%, nel 2022 i due valori si sono notevolmente avvicinati (risp. 79,6% e 87,4%). Per altro, del 20,4% di donne senza un’occupazione professionale quasi il 30% era in formazione (mentre 30 anni fa lo era solo il 17,5%). Nel 2022 sono risultati assai vicini anche i valori riguardanti la disoccupazione (donne: 4,7%, uomini: 4,2%), mentre nel 1991 il tasso di disoccupazione delle donne era più che doppio rispetto a quello degli uomini (risp. 2,6% e 1,2%), denotando che in campo professionale le differenze di genere si attenuano sempre più.

Ancora, nello stesso periodo è cresciuta più che nel campo maschile non solo l’occupazione, ma anche la posizione professionale delle donne perché le lavoratrici autonome sono passate dal 7,6% all'11,7% (uomini: dal 14,3% al 15,7%) e le dipendenti con funzione direttiva dal 12,2% al 14,1% (uomini: dal 21,5% al 20,5%), denotando anche qui che il livello professionale delle donne è in continua crescita.

Infine, mi sembra opportuno ricordare che a beneficiare di questo processo di avvicinamento tra i due sessi soprattutto in ambito professionale sono anche le donne con origini migratorie. Insieme è auspicabile continuare a lavorare per il raggiungimento della piena uguaglianza.

Giovanni Longu
Berna 8.3.2023

24 febbraio 2023

Ancora guerra in Europa. Fino a quando?

Avevo deciso di non scrivere nulla nell'anniversario di questa guerra insensata tra Russia e Ucraina perché le posizioni mi sembrano talmente fossilizzate da renderle inscalfibili. Se scrivo è per due ragioni. La prima, perché considero inutile e fastidioso sentir ripetere che la Russia ha invaso l’Ucraina, che i russi sono i cattivi e gli ucraini i buoni, che è giusto continuare a mandare armi sempre più sofisticate all'Ucraina fino alla sua vittoria finale e affermazioni simili. E’ una ripetizione inutile perché è evidente che la Russia ha invaso il Paese vicino e il diritto internazionale questo non lo consente. La seconda, perché ritengo la pace doverosa e possibile.

Una guerra ad oltranza?

A dire il vero lo consentì una volta, a favore degli USA, quando i giuristi americani e consociati nel mondo occidentale riuscirono a giustificare addirittura una «guerra preventiva» (dottrina Bush) contro l’Iraq accusata, senza prove, di disporre di armi di distruzione di massa. Fu certamente un errore, che però non fu mai sanzionato. Ora il mondo occidentale è schierato saldamente contro la Russia e non consente all'avversario storico degli USA di compiere impunemente lo stesso errore.

Per evitare una guerra nucleare, però, gli USA, la NATO e l’UE, che intendono sostenere economicamente e militarmente l’Ucraina fino alla sua vittoria finale, non sono disposti a entrare in guerra direttamente e a morire per l’Ucraina. Del resto, non è scontato che le democrazie occidentali continuino a seguire, anche se sempre meno convintamente, i loro capi e non si ribellino a questa volontà di guerra ad oltranza, anche se a morire, per ora, sono solo russi e ucraini. Sempre più persone si rendono conto che proseguire la guerra non conviene a nessuno, è una sciagura per tutti!

Quali sono le condizioni per una pace «giusta»?

Se decido di scrivere è soprattutto perché ritengo possibile ottenere un cessate il fuoco e avviare trattative di pace su basi un po’ più serie e più giuste rispetto a quelle vaghe e astratte ventilate dagli occidentali, compreso il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani e il consigliere federale Ignazio Cassis. Secondo Tajani, «non ci può essere pace senza giustizia» e per Cassis, «dopo un anno di guerra, dobbiamo unire le nostre forze, le nostre idee e i mezzi a nostra disposizione per ripristinare il senso di sicurezza in Europa e garantire il ritorno di una pace completa, giusta e duratura in Ucraina». Parlando all'undicesima Sessione di emergenza dell’Assemblea Generale dell'Onu convocata a un anno dall'invasione, Tajani ha tentato di precisare che «giustizia significa il pieno rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina all'interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti e delle sue acque territoriali».

Nessuno sembra rendersi conto che la prima condizione per giungere alla pace è odiare la guerra, ripudiarla, come dice la Costituzione italiana, anche se il governo italiano sembra intenzionato a sostenere la guerra a fianco degli ucraini piuttosto che sforzarsi di mediare la pace. Del resto, nessuno dice come giungere a una seria trattativa di pace e gran parte dei politici e degli osservatori occidentali dimenticano che prima di tutto la giustizia è dovuta alle persone, ai popoli, non agli Stati, ai territori, anche secondo la Carta delle Nazioni Unite invocata da più parti per condannare la Russia.

A riguardo dell’ONU, che ieri, come ci ricordano tutti i media, ha votato a grande maggioranza una risoluzione che invita la Russia a ritirarsi «incondizionatamente e immediatamente» dall'Ucraina per il raggiungimento, il prima possibile, di una pace «complessiva, giusta e duratura» nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite, molti cronisti non hanno evidenziato che «la maggioranza» dei votanti non comprendeva nazioni importanti come Cina, India, Sudafrica, e altri 36 Stati, compresa naturalmente la Russia. Questi Stati contrari o astenuti non capiscono niente di diritto internazionale o hanno qualche dubbio su come l’Occidente si prefigura la fine del conflitto? Del resto, è proprio così evidente «il diritto internazionale»?

Il «diritto internazionale»

Perché della Carta delle Nazioni Unite, che consta di 111 articoli, molti commentatori sembrano conoscerne solo due o tre in cui si tratta della sovranità degli Stati nazionali, tralasciando scrupolosamente quelli in cui si richiama l’obbligo degli Stati al rispetto dei diritti fondamentali del popoli? Per es. l’art. l, paragrafo 2 che considera tra i fini delle Nazioni Unite: «Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale». Non viene mai citato nemmeno l’art. 55 che recita «Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell’autodecisione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno…».

Perché non si parla mai della condizione delle popolazioni ucraine orientali prima e dopo il 2014? Lo Stato ucraino ha applicato nei loro confronti, specialmente in campo linguistico, culturale, formativo e informativo, il «rispetto dei diritti fondamentali dei popoli» e il «principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli»? Perché l’Ucraina non ha rispettato gli accordi di Minsk del 2014? Poteva farlo anche unilateralmente qualora la Russia per prima non avesse voluto osservarli?

Ripartire dagli accordi di Minsk

Le condizioni di una pace seria e giusta non ci saranno e quindi la guerra potrà continuare per anni finché non si riparte da quegli accordi e le Nazioni Unite non faranno in modo che l’Ucraina lasci decidere agli ucraini russofoni orientali da chi vogliono essere governati garantendo loro il rispetto dei diritti fondamentali e il principio dell’eguaglianza dei diritti. Dovranno inoltre garantire che tra Russia e Ucraina ci siano rapporti di buon vicinato, con le ovvie conseguenze della neutralità di quest’ultima. Del resto questa era anche la condizione a cui si sottoponeva la stessa Ucraina al momento dell’indipendenza da Mosca.

Perché non solo i politici ma anche i media occidentali non parlano mai di questi principi, di quegli accordi, dei diritti fondamentali dell’uomo e parlano invece di «sovranità nazionale», che non è mai menzionata nella Carta delle Nazioni Unite?

Si vuole davvero una pace giusta? Allora si cominci a rispettare integralmente la Carta dell’ONU e gli ucraini messi in condizione di scegliere liberamente da chi e come vogliono essere governati.

Giovanni Longu
Berna 24.2.2023

22 febbraio 2023

L’immigrazione italiana in Svizzera non è finita

La settimana scorsa è stato presentato a Berna presso la Missione cattolica di lingua italiana il «Rapporto Italiani nel mondo 2022» della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana. Oltre a molti dati sugli italiani nel mondo (5.806.068 al 1° gennaio 2022), sono stati forniti e analizzati anche dati specifici sugli italiani in Svizzera. Prendo lo spunto da questo evento per proporre alcune domande e qualche considerazione soprattutto in relazione alla popolazione italiana in Svizzera.

Migrazione italiana in generale

Nonostante la cura terminologica dei redattori del Rapporto è inevitabile che nelle trattazioni del tema migratorio si ricorra a generalizzazioni che rischiano di sminuire la ricchezza dei particolari. La stessa espressione «italiani nel mondo» o «italiani all'estero» potrebbe far pensare a una parte consistente di popolazione italiana abbastanza omogenea, sebbene dislocata in ogni parte del mondo e in contesti tra loro molto differenti. Il Rapporto tiene conto del rischio e fornisce numerose informazioni di tipo statistico e analitico offrendo una panoramica interessante sulla situazione degli italiani nel mondo, anche se sotto qualche aspetto lacunosa, ma non riesce a eliminare tutte le perplessità.

Nel Rapporto, infatti, a mio parere non emergono chiaramente alcuni aspetti della situazione quali la ragione fondamentale del perché così tanti italiani si trovino all'estero, la complessità della popolazione italiana (prima, seconda, terza… generazione, vecchi immigrati e nuovi immigrati, nati in Italia e nati nel Paese ospite, con la sola cittadinanza italiana o con una doppia cittadinanza …), le differenti problematiche riguardanti i vari gruppi, i rapporti tra «emigrati» e «italiani di origine migratoria» (o, come dice il Rapporto, «con background migratorio»).

Da quando il saldo migratorio (espatri meno rimpatri) degli italiani all'estero è ritornato positivo, ossia dal 2006-2007, il numero degli iscritti all'AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) è notevolmente cresciuto (da 3.106.251 a 5.806.068), ma proporzionalmente è cresciuto ancora di più il numero degli italiani nati all'estero (quindi non emigrati!) passati da 869 mila a 2.321.402. Questi dati esprimono una tendenza irreversibile? Con quali conseguenze?

Nella prospettiva di una tendenza consolidata, appare evidente che la seconda generazione e ancor più le successive generazioni faranno cambiare radicalmente il profilo complessivo degli italiani all'estero. Se poi si aggiunge che in tutti i Paesi si tende a favorire la naturalizzazione dei nati nei rispettivi territori, è ipotizzabile che l’integrazione nella lingua, nella cultura e nella società locale faccia attenuare progressivamente fino alla loro scomparsa la memoria storica dell’emigrazione/immigrazione italiana e le caratteristiche fondamentali dell’italianità?

Migrazione verso la Svizzera

Il Rapporto 2022 della Fondazione Migrantes comincia con questo richiamo: «Si era soliti affermare che l’Italia da Paese di emigrazione si è trasformato negli anni in Paese di immigrazione: questa frase non è mai stata vera e, a maggior ragione, non lo è adesso perché smentita dai dati e dai fatti. Dall'Italia non si è mai smesso di partire …». L’osservazione è generale, ma è pertinente anche per i flussi tra l’Italia e la Svizzera, che non si sono mai interrotti, anche se dagli anni Settanta il tasso migratorio è rimasto negativo fino al 2007, quando è ridiventato positivo. La situazione nel frattempo è notevolmente cambiata ed è difficile prevederne l’ulteriore sviluppo. Qualche dato può aiutare però nell'impresa.

Secondo le statistiche svizzere (che considerano i naturalizzati solo svizzeri), la popolazione residente italiana cresceva, dal dopoguerra agli anni Settanta, soprattutto grazie ai nuovi immigrati. Dal 1970 il maggiore apporto proveniva dall'incremento naturale, quando i nati in Svizzera costituivano dal 22,9% (nel 1970, su una popolazione di 583.850 persone) al 37,5% (nel 2010, su 287.130 persone) degli italiani. Dal 2010, invece, si osserva nuovamente una regressione dell’incremento naturale, sceso nel 2021 al 29,5% (su 328.252 persone).

Certamente questa tendenza non riproporrà più la situazione migratoria della seconda metà del secolo scorso, ma potrebbe influire sulla dinamica evolutiva della popolazione italiana residente e sulle prospettive dell’italianità svizzera, soprattutto se il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) riuscirà ad arrestare i flussi emigratori e persino a richiamare in Italia molti italiani con formazioni elevate espatriati per motivi professionali o per migliorare la qualità della vita. Il momento è interessante e merita di essere seguito con attenzione, perché l’immigrazione italiana in Svizzera non è finita, ma si trasforma.

Giovanni Longu
Berna, 22.02.2023

 


 

15 febbraio 2023

Immigrazione italiana 1868-2000: 32. Considerazioni finali: 10. Una storia a lieto fine!

Con questo articolo termina la trattazione sistematica della lunga storia dell’immigrazione «regolare» italiana in Svizzera, iniziata col Trattato di domicilio e consolare del 22 luglio 1868 tra la Confederazione e l’Italia, e finita, nella sua forma tradizionale, con l’entrata in vigore il 1° giugno 2002 dell'Accordo del 21 giugno 1999 sulla libera circolazione delle persone tra la Confederazione Svizzera (CH) e l'Unione Europea (EU). L’elemento di continuità di questa storia era annunciato nell'articolo 1 del Trattato del 1868: assicurare la libera circolazione dei cittadini italiani e svizzeri nei due Paesi contraenti («libertà reciproca di domicilio e di commercio») nello spirito di una «amicizia perpetua» tra la Confederazione e il Regno d’Italia. Che si tratti di una storia a lieto fine lo si desume sia dal fatto che quel Trattato è tutt'ora in vigore, addirittura rafforzato dall'Accordo CH-UE del 1999 sulla libera circolazione delle persone, e sia dal fatto che la collettività italiana e italo-svizzera è ancora in crescita.

Interesse reciproco

Molte immagini dell’immigrazione italiana sono legate ai grandi trafori ferroviari, alla costruzione
delle dighe e all'edilizia, ma gli italiani hanno partecipato alla trasformazione dell'intera Svizzera.

La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera era iniziata nel modo migliore possibile perché rispondeva a due principi fondamentali: la condivisione dei valori del due contraenti e l’interesse reciproco. Il Trattato del 1868 fu infatti stipulato perché i due Paesi contraenti erano mossi dal desiderio di «mantenere e rassodare le relazioni d’amicizia che stanno fra le due nazioni e dare mediante nuove e più liberali stipulazioni più ampio sviluppo ai rapporti di buon vicinato tra i cittadini dei due paesi».

Che di fatto la principale beneficiaria sia stata la Svizzera è fuori discussione. Basti pensare alla realizzazione della fitta rete ferroviaria (Ottocento e inizio Novecento) a cui gli italiani hanno partecipato in misura preponderante, alla sistemazione urbanistica delle principali città svizzere, alla formazione e al rinnovo del ricco patrimonio edilizio (fino a pochi decenni fa, alla realizzazione dell’imponente infrastruttura energetica (grandi dighe e centrali idroelettriche), alla partecipazione consistente nel sistema produttivo e commerciale svizzero. Ovunque, nelle fabbriche, sui cantieri, nei servizi gli italiani sono sempre stati richiesti e stimati.

Tuttavia, anche l’Italia, gli immigrati italiani e i loro discendenti hanno beneficiato largamente dell’esperienza migratoria (cfr. in proposito gli articoli dal 21.12.2022 al 18.1.2223). Non va infatti dimenticato che molti di essi, prima dell’emigrazione, avevano scarse prospettive di un futuro occupazionale sicuro e sereno. Nell'emigrazione hanno trovato sicurezza e prosperità per sé e per le loro famiglie.

«Uniformarsi alle leggi del Paese»

Quando agli inizi del secolo scorso si diceva che gli italiani trovavano facilmente lavoro perché erano disposti ad accettare salari inferiori a quelli pretesi dagli svizzeri si mentiva, perché gli italiani sono stati sempre in prima fila nelle rivendicazioni per salari giusti e per la sicurezza sul posto di lavoro, ma erano anche molto attivi nell'autoprotezione (creando associazioni di mutuo soccorso in tutte le principali città con un numero importante di lavoratori) e nella creazione di imprese proprie soprattutto nel ramo edile (molte sono ancora attive), ma anche nella ristorazione e nella vendita (generi alimentari e prodotti italiani).

L’immigrazione italiana in Svizzera incontrò talvolta grosse difficoltà (xenofobia, lavori pericolosi, incidenti mortali, eccessiva rigidità nella concessione e trasformazione dei permessi, ecc.), ma talvolta sono stati gli stessi immigrati a non volersi «uniformare alle leggi del Paese», ossia l’unica condizione importante prevista dal Trattato del 1868 per «entrare liberamente, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio, senza che per i passaporti e per i permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa alcuna, onere o condizione fuor di quelle cui sottostanno i nazionali» (art. 1, cpv. 3).

Al netto delle difficoltà, delle disgrazie, delle rinunce e dei sacrifici, l’immigrazione italiana in Svizzera è stata una grande opportunità anche per i diretti interessati. Uniformandosi alle leggi del Paese, non solo hanno potuto godere fino in fondo i benefici diretti dei contratti di lavoro, del sostegno sindacale e della solidarietà di molti, ma sono riusciti a migliorare costantemente le loro condizioni salariali, di alloggio e di vita, a partecipare attivamente alla vita sociale e a contribuire a tutti i livelli alla prosperità comune.

Uniformandosi alle leggi del Paese, gli italiani hanno potuto sviluppare anche una rete ricca e variegata di associazioni di ogni genere e hanno potuto incidere profondamente in vari modi nel costume, nella cultura, nel panorama religioso, nella vita politica ed economica di questo Paese. Approfittando di una lungimirante e chiara politica d’integrazione degli stranieri, soprattutto le seconde generazioni hanno avuto la possibilità di condurre in Svizzera una vita «normale», di seguire una scolarità «regolare», di beneficiare di una formazione professionale efficace e, in generale, corrispondente alle possibilità e aspirazioni dei giovani interessati.

Conservare …

La caduta dell’obbligo di rinunciare alla precedente nazionalità al momento di acquisire quella svizzera (dal 1° gennaio 1992) ha aperto inoltre nuovi orizzonti a quanti desideravano la pienezza dei diritti politici anche in questo Paese. Da allora il numero dei doppi cittadini italiani e svizzeri è in continua crescita e aumentano anche gli eletti nei legislativi ed esecutivi federale, cantonali e comunali. E’ su di loro che incombe prevalentemente la responsabilità di conservare, valorizzare e sviluppare la ricca eredità d’italianità lasciata dagli immigrati in questo Paese, ma anche gli svizzeri si rendono conto che questo dovrebbe essere un compito comune per la conservazione e la valorizzazione dell’identità svizzera.

Tra la Svizzera e l'Italia «vi sarà amicizia perpetua» (Trattato 1868, art. 1)
Col venir meno delle grandi ondate immigratorie dall'Italia, nei primi anni 2000 si pensava che la lingua italiana fosse in via di estinzione fuori della Svizzera italiana e avrebbe indebolito notevolmente l’italianità. Per fortuna non è così perché la comunità italofona è ancora importante, anche fuori del Ticino e la lingua italiana conserva una massa critica rilevante attorno all'8 per cento su scala nazionale. Inoltre, dal 2006 è nuovamente positivo il saldo migratorio degli italiani in Svizzera (dopo essere stato per decenni negativo), ossia gli italiani che vengono dall'Italia sono più numerosi di quelli che vi ritornano. La collettività italofona si rafforza non solo in Ticino ma anche in altri Cantoni (per es. Zurigo, Vaud, Berna).

Si può anche notare che la maggioranza dei nuovi immigrati italiani non proviene più, come avveniva nel secolo scorso, dalle regioni meridionali d’Italia, ma dal centro-nord. Inoltre tra i nuovi immigrati è sempre più elevato il numero di coloro che hanno una formazione di grado terziario. Se prima degli anni Novanta la loro proporzione non superava il 5%, nel 2000 era già del 33% e nel 2020 del 52% (con una netta prevalenza di donne laureate).

… e sviluppare

... guardando verso un'Europa più integrata!
Il crescente sviluppo delle naturalizzazioni, il rientro in Italia di immigrati pensionati con formazioni e livelli di qualifica medio-bassi e l’arrivo di nuovi immigrati con formazioni medio-alte che facilitano l’integrazione lavorativa e sociale avranno sicuramente un impatto notevole sulla struttura e sull'organizzazione della collettività italiana presente in Svizzera nei prossimi anni e decenni, ponendo interrogativi ineludibili. Per esempio, sarà più «italiana» o più «svizzera»? Come sarà strutturata e organizzata? Quali saranno le nuove forme di rappresentanza che deciderà di darsi?

Questi e simili interrogativi sono legittimi perché molto probabilmente gran parte delle organizzazioni tradizionali scompariranno o si modificheranno radicalmente (associazioni, gruppi d’interesse), saranno diversi i rapporti con le rappresentanze diplomatiche e consolari (già oggi ridotte ad alcune esigenze burocratiche e alcune ricorrenze simboliche) e persino con le organizzazioni religiose (anche le parrocchie svizzere e le missioni cattoliche fortemente legate alla tradizione dovranno tenerne conto). Cambieranno probabilmente anche i sentimenti e i rapporti sia verso l’Italia che verso la Svizzera. A vantaggio di nuovi rapporti verso un’Europa più integrata?

Com'è facile osservare, oggi non è possibile dare risposte plausibili a questi interrogativi perché i cambiamenti sono in atto, ma ritengo perlomeno auspicabile che il meglio della tradizione migratoria italiana venga conservato nella memoria collettiva italiana e svizzera, che si rafforzi quello spirito di «amicizia perpetua» tra l’Italia e la Svizzera che fu alla base del Trattato del 1868 e della lunga e fruttuosa collaborazione italo-svizzera in materia, che i valori (personali, familiari, sociali…) di cui furono portatori gli immigrati siano mantenuti e sviluppati in Europa e nel mondo. (Fine)

Giovanni Longu
Berna, 15.02.2023

08 febbraio 2023

Immigrazione italiana 1946-2000: 31. Considerazioni finali: 9. Enti di rappresentanza

Nell'articolo precedente si è cominciato a passare in rassegna le istituzioni di rappresentanza della collettività italiana residente in Svizzera, allo scopo di indicarne il «peso» nel contesto della valorizzazione del patrimonio ideale lasciato dagli immigrati italiani e dell’auspicabile sviluppo dell’italianità in questo Paese. Si è giustamente cominciato dall’Ambasciata perché ad essa spetta il peso preponderante e perché ad essa fanno riferimento diretto o indiretto tutte le altre. Del resto è notorio che il peso politico e pratico di queste è minimo, a cominciare dai rappresentanti degli italiani all'estero eletti nel Parlamento della Repubblica (due eletti proprio in Svizzera). Il CGIE potrebbe avere maggior peso essendo costituito da rappresentanti delle comunità italiane sparse nel mondo, ma è un organo di consulenza del Governo e del Parlamento, in grado di esprimere solo pareri non vincolanti. Anche i membri dei Comites potrebbero costituire una forza importante perché per legge sono «organi di rappresentanza degli italiani all'estero nei rapporti con le rappresentanze diplomatico-consolari», ma sono spesso disorientati e scarsamente rappresentativi.

Parlamentari eletti all'estero: inutili?

Nonostante il diritto di voto all'estero, gli italiani ne fanno un uso scarso
  ... come se non interessasse! In Svizzera non è mai stata eletta una donna!
I parlamentari eletti all'estero avrebbero potuto rappresentare un’importante espressione delle collettività italiane sparse nel mondo se fossero stati eletti con la stessa proporzionalità applicata in Italia e con un programma elettorale incentrato sulle problematiche e sulle aspettative degli emigrati e dei loro discendenti. Invece la loro elezione avviene con una proporzionalità ridotta e su programmi eterogenei.

Poiché attualmente il loro numero esiguo è espressione solo di piccole minoranze poco rappresentative e per di più di colore politico opposto (maggioranza e opposizione), la loro efficacia è vicina allo zero, tanto da legittimare la domanda se sia il caso di continuare ad eleggere parlamentari ininfluenti. Il risparmio che ne deriverebbe potrebbe essere investito più utilmente in altre rappresentanze più vicine agli italiani residenti all'estero e alle loro problematiche.

Gli eletti naturalmente continueranno a ritenersi indispensabili per dar voce ai milioni di italiani all'estero, ma sanno benissimo che non è così. Un esempio significativo è stato fornito da uno dei due eletti in Svizzera, Toni Ricciardi (PD), che si è vantato di aver riproposto all'attenzione del governo il tema dell’esenzione dell’IMU (Imposta Municipale Unica) sulla prima casa, come se la maggioranza degli italiani residenti all'estero avesse una casa in Italia e non esistessero altre rivendicazioni importanti per la loro vita nel Paese d’immigrazione, per esempio nel campo dell’assistenza, della scuola, della formazione professionale, dell’integrazione, del turismo, del sostegno all'italianità, ecc.

Come Toni Ricciardi anche gli altri eletti all'estero, tanto gli appartenenti alla maggioranza che quelli dell’opposizione, rappresentano di fatto poco più di se stessi e farebbero meglio, se fosse possibile, a dimenticare l’appartenenza partitica e a unire le forze per rivendicare efficacemente soluzioni a qualcuno dei problemi comuni che gli italiani all'estero vivono quotidianamente.

Un CGIE meno politicizzato e più forte

Il CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all'Estero) è forse lo strumento centrale che potrebbe rappresentare meglio gli italiani all'estero. Il condizionale è dovuto al suo condizionamento da parte della politica e alla sua scarsa rappresentatività. Basti pensare che su 63 Consiglieri, 20 sono nominati dal governo, ma già al momento delle elezioni all'estero gli altri 43 devono fare i conti con i partiti politici e le grandi organizzazioni politicizzate, che hanno in mano la macchina elettorale più capillare ed efficace degli italiani all'estero.

Il CGIE è poco rappresentativo: le donne all'estero vi sono
rappresentate al 19% (quelle residenti in Svizzera al 16,6%).
Ipotizzando un’elezione diretta e democratica di tutti i componenti del CGIE, con una specie di vincolo morale degli eletti a rappresentare esclusivamente gli interessi degli italiani all'estero senza vincoli partitici nazionali, ne deriverebbe un organismo enormemente più rappresentativo (un piccolo parlamento), con una massa critica notevole che lo renderebbe ben più efficace. Il suo punto di vista non potrebbe essere né ignorato né snobbato sia dal Governo che dal Parlamento. Forse proprio per questo un rafforzamento del parlamentino degli italiani all'estero non è all'ordine del giorno. Del resto, contestualmente, si dovrebbe ripensare anche la modalità di elezione dei suoi membri, riformulare i suoi compiti, istituzionalizzarlo come organo permanente dello Stato, ecc.

Va anche aggiunto che un organismo così eletto e funzionante renderebbe inevitabilmente inutile l’elezione dei parlamentari della Circoscrizione Estero, per cui l’idea di un più efficiente CGIE potrebbe avere pochi sostenitori anche tra le organizzazioni politiche o politicizzate degli italiani all'estero. Pertanto non è nemmeno pensabile, allo stato attuale, organizzare un movimento trasversale per l’abolizione della Circoscrizione Estero e il rafforzamento del CGIE come organismo nazionale di rappresentanza degli italiani all'estero. E questo spiega forse a sufficienza perché si preferisca, di fatto, avere due organismi deboli piuttosto che uno forte, mantenere lo status quo, ossia l’indifferenza diffusa, piuttosto che impegnarsi in una riforma dall'esito incerto, convivere pacificamente… e ignorarsi reciprocamente.

Comites magari più efficienti

Una tale situazione, tuttavia, non è detto che tranquillizzi tutti, che vada bene a tutti. Anzi, in alcune circoscrizioni consolari si levano sempre più frequentemente voci critiche a riguardo dei servizi consolari, dei tagli ai contributi per la formazione e la cultura, dell’assistenza, ecc.

Recentemente è scoppiato anche il caso dei «corsi di lingua e cultura italiana» perché in alcune località importanti, per esempio a Berna e a San Gallo, i corsi sembrano sospesi e gli insegnanti lasciati senza stipendio da mesi a causa del mancato versamento dei contributi dello Stato italiano, dovuto a sua volta a presunte inadempienze amministrative di alcuni enti gestori dei corsi. «A farne le spese - si poteva leggere già a novembre su tvsvizzera.it - sono i numerosi/e scolari/e - non solo quelli/e di origine italiana - che desiderano perfezionare le loro conoscenze dell’idioma di Dante, e ora sono costretti/e nelle due città citate a far capo ad altri istituti o a ricorrere a insegnamenti privati».

Comites poco efficienti perché poco rappresentativi?

Ciò che maggiormente salta agli occhi in questa vicenda è la leggerezza con cui i vari organismi competenti sembrano trattare un tema così delicato e fondamentale come la diffusione della lingua e della cultura italiana specialmente tra gli italiani di origine migratoria. E poiché i Comites (Comitati degli Italiani all’Estero) in questa materia hanno competenze e responsabilità importanti viene da chiedersi a che servono davvero questi organismi di rappresentanza se non riescono nemmeno a garantire un servizio primario ai piccoli italiani.

Tutto colpa dei Comites interessati? Certamente no, anche perché la realtà appare piuttosto seria e complessa, non sono sempre chiare le competenze e spesso mancano le risorse finanziarie per trovare alternative. Potrebbero però fare di più, per esempio informando e mobilitando l’opinione pubblica, richiedendo l’intervento dei Consoli, dell’Ambasciatore, del CGIE, dei parlamentari eletti all'estero, delle forze politiche più sensibili alle tematiche degli italiani all'estero, denunciando il danno d’immagine all'Italia e il mancato contributo all'italianità, ecc.

Quanto al presunto mancato versamento dei contributi statali, a prescindere dalle motivazioni e dalle responsabilità (da verificare urgentemente), si deve anche ritenere che non c’è ragione d’interrompere un servizio promesso e garantito, tanto più che ogni allievo oggi è tenuto a versare un piccolo contributo. Lo Stato per primo deve dare prova di coerenza, ma forse lo Stato, nei confronti degli italiani all'estero, è spesso indifferente, incoerente, senza progetti e senza visioni. Ma anche i cosiddetti organismi di rappresentanza dovrebbero impedire l’aggravarsi della situazione.

E allora?

Allora qualche considerazione finale va pure fatta su queste rappresentanze, ma sarà rimandata per questione di spazio al prossimo articolo. Nei precedenti articoli sono emersi numerosi interrogativi sul presente e soprattutto sul futuro degli italiani residenti in Svizzera, ma le risposte date, talvolta complesse e aperte, meritano almeno un tentativo di unificazione. Non si può infatti rinunciare a ipotizzare una specie di prolungamento ideale e reale della lunga storia dell’immigrazione italiana in Svizzera né a spingere lo sguardo al di là dell’orizzonte. Per questo nel prossimo articolo cercherò di indicare in che direzione sembra muoversi questa realtà fluida e in continua trasformazione. Cercare di individuarne il senso mi sembra una buona conclusione di questa lunga trattazione. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 8.2.2023

01 febbraio 2023

Immigrazione italiana 1946-2000: 30. Considerazioni finali: 8. «Italiani all'estero»? (seconda parte)

In questo articolo comincerò a rispondere alle varie domande indicate in quello precedente, con una avvertenza: sia le domande che le risposte sono formulate non con intento polemico, né verso persone né verso istituzioni, ma con una duplice finalità propositiva. Una mira a ricordare, conservare e valorizzare il patrimonio ideale lasciato dagli immigrati italiani in Svizzera in oltre un secolo e mezzo di lavoro, di passione e di speranze; l’altra aspira a rafforzare e possibilmente a sviluppare l’italianità diffusa in questo Paese (lingua, cultura, umanesimo, visione del mondo) a beneficio della popolazione residente (prosperità comune), ma anche dell’Italia (relazioni bilaterali). Per raggiungere questi obiettivi è necessario coinvolgere istituzioni e persone di entrambi i Paesi. La collaborazione è fondamentale.

Eredità preziosa da valorizzare

Berna, Ambasciata d’Italia – Residenza dell’ambasciatore
Il presupposto principale di queste considerazioni è la consapevolezza di aver ricevuto dai milioni di lavoratori italiani che si sono succeduti nelle varie ondate immigratorie e dai loro successori nati e cresciuti in questo Paese una complessa eredità da non dissipare. Si tratta di beni soprattutto immateriali che essi hanno aggiunto alla popolazione indigena non solo sotto forma di forza lavoro, ma anche di idee, di valori, di gusti, di modi di pensare e di vivere, ecc. Questo patrimonio, sintetizzato nella parola «italianità», merita di non essere ricordato, conservato e valorizzato.

Per riuscirci occorre rimuovere alcuni ostacoli e rafforzare la collaborazione di tutte le parti interessate, istituzioni pubbliche e private, italiane e svizzere, organizzazioni politiche e sindacali, la scuola, l’associazionismo più attento all'integrazione. L’uso del plurale qui non è casuale, perché non bastano gli sforzi della Confederazione, del Cantone Ticino, del Forum dell’italianità, dell’Ambasciata d’Italia in Svizzera, dei singoli Consolati e di alcune importanti organizzazioni svizzere e italiane, ma è indispensabile un intento comune e il contributo di tutti gli interessati. Mi sembra fondamentale soprattutto la partecipazione attiva dei cittadini con origini migratorie di seconda e terza generazione, specialmente se hanno la doppia cittadinanza, svizzera e italiana.

Poiché non tutte le istituzioni e organizzazioni italiane hanno le stesse possibilità e capacità, in questo articolo ne indicherò solo alcune dapprima in modo generico e successivamente, in questo e nel prossimo articolo, in maniera più dettagliata, cominciando dalla principale, l’Ambasciata d’Italia con sede a Berna.

Responsabilità delle istituzioni italiane

Quando l’ambasciatore d’Italia Silvio Mignano, in occasione della visita di Stato (28-30 novembre 2022) in Svizzera del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quantificò la collettività italiana di questo Paese in 670 mila persone rimasi stupito (come ho riferito nel precedente articolo) soprattutto per due ragioni. La prima: com'è possibile che per le statistiche italiane (AIRE) gli italiani siano così tanti e per le statistiche svizzere siano meno della metà (328.252, alla fine del 2021)? La seconda: com'è possibile che con una massa critica così importante di italiani le istituzioni italiane (Ambasciata, Consolati, Comites…) sembrano incidere solo marginalmente nell'evoluzione e nella valorizzazione dell’italianità?

So che esistono risposte per così dire tecniche a entrambe le domande, ma al di là di queste spiegazioni resta il dubbio se dietro le cifre si celino visioni diverse riguardanti gli italiani in Svizzera. Infatti, se è comprensibile che gli svizzeri considerino «svizzeri» a tutti gli effetti anche quelli naturalizzati a prescindere dalla nazionalità precedente e che magari hanno conservato pure dopo, lo è meno che l’Italia e le istituzioni italiane in Svizzera si mostrino tutto sommato poco attive nella valorizzazione della lingua e della cultura italiana in questo Paese, agendo non solo sulla suddetta massa critica ma anche su molte persone di altre nazionalità che guardano con interesse all'italianità.

Le domande che possono sorgere al riguardo sono tante a cominciare dalle più semplici: chi sono questi 670.000 italiani? Costituiscono davvero una «comunità»? Ad esse se ne possono collegare evidentemente molte altre. Per esempio: cosa rappresenta il possesso della cittadinanza italiana per quanti hanno lasciato l’Italia per necessità di una sopravvivenza dignitosa o per opportunità di garantire per sé e per la famiglia un più sicuro e adeguato sviluppo professionale e sociale? Perché molti italiani dopo un periodo di esperienza migratoria non sono rientrati in Italia e hanno magari preferito acquisire la cittadinanza svizzera? Quelli rimasti con la sola cittadinanza italiana si sentono ben rappresentati dalle autorità diplomatiche e consolari?

Queste e molte altre possibili domande più che indicare incertezze particolari esprimono, almeno per molti, dubbi esistenziali sull'essere «emigrati» a vita, magari con la doppia cittadinanza, di cui solo una pienamente attiva e l’altra sopita, senza alcun vero senso di appartenenza e senza chiedersi perché. Di fronte a questi dubbi, cosa fanno le istituzioni italiane (Ambasciata, Consolati, rappresentanti (politici) eletti nel Parlamento, nel CGIE e nei Comites)? Cosa fanno concretamente per far sentire l’interesse e la vicinanza dell’Italia agli italiani all'estero?

Non credo che esistano risposte facili alle domande precedenti, ma ritengo che le istituzioni e organizzazioni menzionate dovrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel tentare di darle, in modo da far «sentire» i connazionali convintamente (anche) italiani in questo Paese.

L’Ambasciata d’Italia tra passato, presente e futuro

L’amb. d'Italia Silvio Mignano
L’Ambasciata d’Italia in Svizzera, durante la visita di Stato del presidente Mattarella, attraverso l’ambasciatore Silvio Mignano si è intitolata la rappresentanza della più grande comunità straniera in Svizzera, costituita da 670.000 italiani, «la nostra comunità». Fa onore all'ambasciatore che si senta vicino alla comunità italiana e non c’è motivo per dubitare che ne senta anche la responsabilità. Tuttavia, a quanto sembra, non sempre appare e a «questo numero straordinario di italiani» farebbe senz'altro piacere costatarla, per esempio attraverso un servizio più efficiente degli uffici consolari.

In questo contesto di domande, all'ambasciatore Mignano si potrebbe anche chiedere se l’Ambasciata fa abbastanza per rendere gli italiani qui residenti stabilmente davvero una «comunità», visto che sono sparsi in tutti i Cantoni e la loro composizione è molto variegata tra vecchi e nuovi immigrati, seconda e terza generazione, italiani col solo passaporto italiano e italiani anche col passaporto svizzero, alcuni con forti legami con l’Italia e altri che non vi hanno mai messo piede e non conoscono l’italiano, ecc. Non potrebbe attivarsi per organizzare una grande Festa dell’italianità? Fra l’altro, non le mancherebbe sicuramente l’appoggio della Confederazione, dei Cantoni e dell’associazionismo italiano.

Per informare la collettività italiana di quanto d’importante la riguardava, un tempo l’Ufficio emigrazione dell’Ambasciata organizzava frequenti conferenze stampa per le numerose testate diffuse tra gli italiani. Oggi sembra che la principale fonte d’informazione sia la pagina Web dell’Ambasciata e raramente qualche comunicato stampa. Eppure alla «comunità italiana» non dispiacerebbe una maggiore informazione su quel che la riguarda, anche se forse non è più possibile, come invece succedeva spesso in passato, che l'ambasciatore partecipasse personalmente alle assemblee o importanti manifestazioni di alcune associazioni.

Presenze e sponsorizzazioni

Benché un maggiore contatto diretto con l’ambasciatore resti auspicabile, non si potrebbe rendere almeno più facile visitare la sua Residenza e qualche altro locale dell’Ambasciata, meritevoli certamente di visite guidate sia per il loro valore architettonico che per la loro storia (correggendo magari prima alcuni errori contenuti nella presentazione web della sede) e la loro funzione. Può darsi che queste visite si facciano già, ma non si potrebbero organizzare regolarmente? Si sa che all'Ambasciata si tengono ogni anno svariati incontri istituzionali e non (esposizioni, presentazioni, premiazioni, ecc.), ma per questi ultimi non sempre è dato sapere se la partecipazione del pubblico è possibile. Una maggiore informazione sarebbe utile.

Si sa anche che all'Ambasciata fanno riferimento diverse importanti organizzazioni. Per una in particolare essa rappresenta il veicolo istituzionale dei rapporti con le autorità italiane e svizzere, la SAIS (Società degli Accademici Italiani in Svizzera), che ogni anno premia tre tesi di dottorato di autori/autrici «di madre lingua italiana», anche se scritte in inglese (casualmente nel 2022 tutte e tre le tesi premiate erano scritte in inglese, nel 2021 due erano in inglese e una in italiano). Perché non stimolare anche la costituzione di altre associazioni, per esempio di giornalisti, scrittori, traduttori, Cavalieri della Repubblica, ecc. italiani o di origine migratoria italiana? E’ bello che l’ambasciatore senta di rappresentare la comunità italiana, ma è importante che anche questa lo senta come proprio rappresentante. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 1.2.2023

27 gennaio 2023

Giorno della Memoria e della Vergogna

Non ho dubbi, oggi è il Giorno della Memoria, ma anche della Vergogna, perché la memoria non sembra stimolare sufficientemente la volontà maggioritaria ad agire di conseguenza.

La stazione "Condannato"del Calvario di Renato Cenni (1959)
E’ utile rievocare ogni anno la Shoah perché lo sterminio degli ebrei sotto il nazismo ci ricorda che la vita di chiunque è sacra, è un valore assoluto, che nessuno ha il diritto di violare. Ci ricorda il comandamento divino «non uccidere» (Es 20, 13). Ma è anche il giorno della vergogna perché quel comandamento è continuamente infranto da Governi e Stati, con astuzie perverse e leggi prevaricatrici, con la nostra complicità perché non agiamo di conseguenza, non ci ribelliamo, non ci schieriamo nettamente contro i guerrafondai, i fabbricanti e i commercianti d’armi, i violenti.

Attenzione, però, perché a quelle forme estreme di barbarie e di violenza (guerra convenzionale, guerra atomica, genocidio, distruzione di massa) non si arriva mai per caso né all'improvviso. Ci si avvicina lentamente con piccole dosi quotidiane di veleno. La Memoria dovrebbe ricordarcelo e ancor di più la Bibbia per bocca di Gesù Cristo che avverte: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5, 21-22).

Di fronte al dilagare della violenza ovunque nel mondo dovremmo reagire, almeno condannandola. Non si può assistere passivamente al protrarsi di una guerra infame tra Russia e Ucraina, col rischio concreto del suo aggravamento già nelle prossime settimane con armi sempre più sofisticate e micidiali. Poco importa che a scatenarla sia stata la Russia di Putin, l’importante è fermarla. In un secondo tempo si potranno stabilire le ragioni e i torti, ora è il tempo del cessate il fuoco e delle trattative di pace.

Da molte parti, ma soprattutto da una parte, s’invoca un tribunale internazionale per punire l’aggressore Putin, come mandante di reati contro l’umanità. Ben venga questo tribunale, ma vorrei che sul banco degli imputati sedessero anche altri personaggi, sebbene non con la stessa imputazione: capi di stato e di governo che non hanno fatto abbastanza per evitare la guerra (già nel 2014), che non si sono adoperati a garantire alle popolazioni interessate prima che agli Stati i loro diritti fondamentali, compreso quello di gestire la terra in cui vivono, che hanno deciso aumenti spropositati delle spese militari, che hanno alimentato la guerra sadicamente con l’invio di armi sempre più potenti, che hanno abusato della fiducia dei loro popoli, che hanno sperperato colpevolmente denaro pubblico in armamenti costosissimi e inutili, che hanno mandato in guerra giovani innocenti, condannandoli senza accuse e senza processo a rischiare di morire per un’idea falsa di patria, per un territorio, la cui proprietà è di chi lo abita («sovranità popolare») e non dello Stato e altre ipotesi di reati gravi.

Tutti sanno che la legge, in uno Stato di diritto, punisce i rei di delitti consumati, ma anche i rei di delitti tentati. Mi auguro che questi responsabili vengano almeno processati e condannati per ignominia dalla storia.

Giovanni Longu
27.1.2023