In Italia il fascismo si affermò sfruttando non solo il malcontento di molti italiani ai quali la grande guerra aveva cambiato la vita, ma anche il loro basso livello linguistico e culturale (analfabetismo altissimo, attorno al 36% a livello nazionale, con punte del 70% al Sud). Molta gente, infatti, male informata, sperava in una ripresa del lavoro e del benessere promessa da Mussolini. Intanto, subito dopo la guerra era ripresa l’emigrazione verso la Svizzera, ma i flussi si ridussero drasticamente quasi subito perché la Svizzera aveva introdotto misure severe di controllo alle frontiere, ma anche perché l’Italia fascista preferiva dirottare l’emigrazione verso le «colonie». Da allora il numero degli italiani presenti in Svizzera si è progressivamente assottigliato fino al minimo storico toccato sul finire della seconda guerra mondiale. Nel frattempo, tuttavia, il regime fascista ha cercato in molti modi di «fascistizzare» gli immigrati rimasti, riuscendovi però solo in parte.
Il fascismo blandì gli immigrati in Svizzera
Casa d'Italia di Zurigo, costruita nel 1930-31. |
Fu infatti sotto il regime mussoliniano che strutture note
come «Casa degli Italiani» o «Casa d’Italia» si moltiplicarono non solo in
Ticino (dove ce n’erano ben tre), ma in tutta la Svizzera: a Zurigo, Ginevra, Losanna,
Berna, Lucerna, Soletta, San Gallo, Neuchâtel, ecc.
Una delle prime e più importanti Case degli Italiani è quella
di Zurigo, costruita nel 1930-31 allo scopo di riunire in un unico edificio le
sedi del Fascio, delle Organizzazioni giovanili, del Dopolavoro, della Dante
Alighieri, dell'orfanatrofio e di altre istituzioni. Il centro era dotato di
una grande sala degli spettacoli, di una «mensa popolare del Fascio», di un
bar, di una sala da bigliardo, di aule scolastiche, dell’abitazione del
custode, ecc. Il fatto che sia sorta a Zurigo è dovuto non solo alla forte
presenza di immigrati italiani in questa città e in questa regione, ma anche
alla volontà del regime di contrastare l’influenza antifascista dei numerosi
operai e intellettuali che avevano il loro punto di riferimento nel già famoso
ristorante «Cooperativo».
Mussolini e la Svizzera
Se il fascismo ha
potuto diffondersi in Svizzera ed entrare in numerose associazioni fu dovuto soprattutto
alla tradizione liberale della Svizzera, tollerante fino alla prova di comportamenti
pericolosi per la sicurezza nazionale da parte di stranieri, ma anche a una
certa simpatia iniziale delle autorità federali, che vedevano benevolmente
l’atteggiamento dichiaratamente anticomunista di Mussolini. Sapendo che anche qualche
membro influente del Consiglio federale, addirittura il ministro degli esteri
Giuseppe Motta, provava una certa simpatia nei suoi confronti (come risulterà
meglio nel prossimo articolo), non poteva che fargli piacere.
Da parte sua, anche Mussolini, soprattutto agli inizi del
suo governo, nutriva una certa ammirazione per la Svizzera, che considerava un valido baluardo contro l’influenza tedesca
che detestava come una seria minaccia dell’italianità del Ticino. Per questo,
ogniqualvolta se ne presentava l’occasione, non lesinava gli elogi alla
Svizzera e al suo popolo laborioso e amante della libertà, sottolineando «i
sentimenti di fraterna amicizia dell’Italia verso la Svizzera».
Non c’è dubbio che
questi atteggiamenti, forse più formali che sostanziali, contribuissero a
rinsaldare i rapporti bilaterali tra i due Stati, ma non va né sottovalutata né
esagerata la precauzione della Confederazione e dello stesso Dipartimento
politico federale diretto da Motta, di evitare per quanto possibile forti
contrasti col regime fascista. Questo spiega, per esempio, la tolleranza dei Fasci,
il cui Statuto, come si vedrà appresso, non contrastava con le disposizioni
costituzionali sulla libertà di associazione, ma anche la decisione del 1923
del Consiglio federale di vietare sul territorio della Confederazione di
portare la camicia nera, per evitare scontri con gli antifascisti.
Fascisti e antifascisti
A Mussolini non
poteva ovviamente far piacere che la Svizzera ospitasse con una certa facilità
numerosi fuorusciti italiani, i quali si dimostravano ben organizzati ed
attivi, specialmente attraverso la rete sempre più fitta delle Colonie Libere
Italiane; ma sapeva che la tolleranza della Confederazione era subordinata
all'impegno dei profughi di astenersi da ogni attività politica che potesse turbare
le relazioni fra il Paese di provenienza e la Confederazione, pena
l’espulsione.
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Nel 1923 il Consiglio federale vietò le manifestazione in camicia nera |
Infine, va anche
ricordato che i rapporti di vertice non influirono significativamente sulla
politica immigratoria federale, che continuava ad essere restrittiva, tanto da
indurre l’Assemblea federale ad adottare nel 1931 una legge sulla dimora e il
domicilio degli stranieri (entrata in vigore il 1° gennaio 1934) che consentiva
al Consiglio federe di adottare misure contro il pericolo d'«inforestierimento»
della Svizzera, rendendo di fatto inapplicabile il Trattato con l’Italia del
1868. Poco male, visto che l’immigrazione dall'Italia durante il fascismo era
quasi ridotta a zero; molto male quando, finita la guerra, la Svizzera
spalancherà nuovamente le porte all'immigrazione soprattutto dall'Italia, ma a
condizioni ben diverse.
Giovanni Longu
Berna 19.05.2025
Non mi ero mai chiesto come e perchè nacquero le "casa d'Italia", alla lontana pensavo a delle istituzioni repubblicane, diffondere i prodotti tipici italiani, la lingua italiana all'estero... la camicia nera di sicuro non la portavano in pubblico ma nessuno poteva proibire il saluto romano all'interno di un edifico... e relativi corsi di fascistizzazione..
RispondiEliminaQuasi tutte le Case d'Italia istituite nel periodo fascista sono sorte anche grazie a un contributo più o meno sostanzioso della collettività italiana, ma tutte sottostavano al controllo del regime.
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