20 febbraio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 4. La politica emigratoria italiana


I governi del dopoguerra, che ritennero prioritari la ricostruzione e lo sviluppo economico, non sottovalutarono i problemi del disagio sociale e della disoccupazione. Nelle loro intenzioni programmatiche, il buon andamento dell’economia, creando nuovi posti di lavoro, doveva servire anche a riportare entro limiti accettabili il numero dei disoccupati sia al nord che al sud e a stemperare il malcontento. Ben presto, però, tutte le forze politiche e sindacali si resero conto che, nonostante la crescita dell’occupazione nei settori industriale e terziario, il numero dei disoccupati non diminuiva e il disagio sociale aumentava, risvegliando in molti italiani il desiderio di emigrare. I governi assecondarono questo desiderio, non senza un malcelato interesse.

Libertà di emigrazione con tutela
Copertina  della Domenica del Corriere sulla tragedia
di Marcinelle
Per rimettere in sesto l’economia, i governi avevano bisogno di destinare il massimo delle risorse disponibili o in arrivo dal prestito internazionale alla riconversione delle industrie, all’aumento della produzione, allo sviluppo del commercio, all’acquisto di materie prime. Se si fosse riusciti ad evitare di assistere milioni di disoccupati e famiglie bisognose favorendo un’emigrazione regolare sarebbe stato nell’interesse generale del Paese. Ed è quello che cercarono di fare tutti i governi centristi del dopoguerra con l’avallo quasi unanime delle forze politiche e sindacali del momento, che ritenevano realisticamente impossibile il pieno impiego e pertanto l’emigrazione necessaria per favorire la ripresa.
La relazione della Sottocommissione della Costituente per i problemi economici, presieduta dal comunista Antonio Pesenti affermava addirittura che «per quanto riguarda [....] la conseguente necessità più o meno estesa di ricorrere all’emigrazione per raggiungere un miglior equilibrio fra fattori demografici e capacità produttive all’interno del paese, si è potuto sin qui constatare una unanimità assoluta di giudizi: essere il nostro paese nell’impossibilità di dar lavoro a tutti [....] quindi, come per il passato, l’emigrazione viene unanimemente riconosciuta quale dura ma indispensabile necessità per l’economia italiana».
Per rendere possibile un’emigrazione funzionale alla ripresa, ma basata sui nuovi orientamenti repubblicani, occorreva non solo ripristinare la libertà di emigrazione che era stata abolita dal fascismo, ma anche predisporre un sistema di tutela della dignità del lavoro italiano all’estero. Su entrambi i punti l’intesa tra governo, allora guidato dal democristiano Alcide De Gasperi, e Costituente era totale. La nuova politica migratoria, in assoluta discontinuità con quella restrittiva e autarchica del regime precedente, doveva basarsi sui principi indicati all’articolo 35 della Costituzione, ossia la «libertà di emigrazione» e l’obbligo dello Stato di tutelare «il lavoro italiano all'estero».
Pertanto, occorreva adeguare urgentemente alle nuove esigenze il sistema degli uffici del lavoro e di collocamento e creare contemporaneamente efficienti organismi di tutela dei lavoratori all’estero. Il compito più difficile sarebbe stato comunque concludere accordi di emigrazione con i Paesi che manifestavano interesse alla manodopera italiana. Per gestire efficacemente queste attività, il 26 dicembre 1946 venne creata al Ministero degli Affari Esteri la «Direzione generale dell'emigrazione e degli affari sociali», incaricata fra l’altro di negoziare gli accordi di emigrazione, vigilare sui servizi di tutela e di collocamento degli emigranti e gestire i vari servizi attinenti alle condizioni degli emigrati nei vari Paesi. 

Accordi di emigrazione non facili ma utili
La guerra aveva creato enormi disparità tra i vari Stati, non solo tra vincitori e vinti, ma anche tra Paesi in grado di aiutarne altri e Paesi bisognosi di aiuto. L’Italia era fra questi, perché per sviluppare la produzione industriale e il commercio aveva bisogno di acquistare a credito molte materie prime, soprattutto energetiche, e quindi di negoziare con diversi Stati accordi finanziari e commerciali. Occorre ricordarlo perché è in questo contesto che furono negoziati e firmati i principali accordi di emigrazione del dopoguerra.
I primi accordi furono conclusi nel 1946 con la Francia e col Belgio. Con la Francia, gli accordi, formalizzati l’anno seguente, prevedevano l’invio di minatori italiani e la corrispondente fornitura francese di carbone all'Italia. L’accordo col Belgio (Protocollo italo-belga del 23.6.1946, aggiornato il 26 aprile 1947), impegnava l’Italia a favorire l’emigrazione in Belgio di 50.000 minatori al ritmo di 2000 la settimana e il governo belga a vendere mensilmente all’Italia almeno 2.500 tonnellate di carbone ogni 1.000 minatori immigrati.
I negoziati dell’Italia per favorire l’immigrazione nel maggior numero possibile di Paesi bisognosi di lavoratori stranieri non furono sempre facili, proseguirono incessantemente per tutto il decennio. Quasi tutti si conclusero con accordi formali: nel 1947 con l’Argentina, la Cecoslovacchia, la Svezia, la Francia; nel 1948 con la Gran Bretagna, la Svizzera, il Lussemburgo, l’Olanda, l’Ungheria, il Brasile, l’Uruguay, l’Australia, il Canada, ecc.
Nessuno di questi accordi fu apertamente contestato nelle sedi parlamentari, anche perché i flussi migratori non presentavano problemi particolarmente gravi, mentre apportavano notevoli vantaggi non solo agli emigrati e alle loro famiglie, ma anche al mercato del lavoro nazionale (grazie al minor numero di disoccupati) e alle finanze pubbliche, che con le rimesse degli emigrati riduceva il deficit della bilancia dei pagamenti.

«Euforia emigratoria» ed «emigrazione assistita»
Nei primi anni del dopoguerra si venne a creare nel Paese addirittura una sorta di «euforia emigratoria» e ci fu chi, come Mario Montagnana, un politico del PCI, che nel 1947 cominciò a preoccuparsene, non solo perché «persino numerosi operai e tecnici attualmente occupati» cercavano affannosamente il modo di andarsene, ma anche perché convinto che «nonostante tutti gli accordi che il nostro governo ha stabilito e stabilirà con i governi dei paesi d’immigrazione, molti, anzi quasi tutti i nostri emigranti subiranno, in terra straniera, ben dure disillusioni morali e materiali».
Marcinelle 8 agosto 1956, giorno della tragedia.
Di fronte ai successi della politica migratoria dei primi governi repubblicani, il desiderio di cercare lavoro all’estero non faceva che aumentare e finì per generare anche quel fenomeno di «emigrazione clandestina» destinato ad aggravarsi negli anni Cinquanta. De Gasperi, in generale soddisfatto dei flussi migratori, nel 1949 si preoccupò della flessione (poi rivelatasi temporanea) dell’emigrazione registrata quell’anno, temendo che potesse compromettere gli effetti sperati. Non va dimenticato che nel 1949 si calcolava in Italia un surplus di manodopera di circa 4 milioni di persone, che costavano 400 miliardi di lire di oneri sociali.
De Gasperi rimaneva tuttavia convinto dell’efficacia dell’emigrazione, soprattutto per il Mezzogiorno, tanto che al III congresso nazionale della DC (1949) non esitò a invitare gli italiani a «riprendere le vie del mondo» e specialmente i contadini meridionali a «imparare le lingue e andare all'estero».
E’ possibile che il politico trentino fosse preoccupato anche per le critiche che giungevano al governo dalle sinistre, ormai all’opposizione, ma non aveva dubbi che con la sua politica migratoria stesse realizzando ciò che, finita la guerra, tutti, anche le sinistre, auspicavano per il bene dell’Italia. L’ideale sarebbe stato realizzare al nord come al sud la piena occupazione, conformemente allo spirito della Costituzione (art. 1), ma realisticamente era impossibile raggiungerla nel breve periodo. In alternativa il compito dello Stato appariva quello di garantire un’«emigrazione assistita» (Emanuela Primiceri), accompagnando e tutelando l'emigrato anche nel Paese d'immigrazione, come in effetti si stava cercando di fare.

Accuse ingiustificate
Alcide De Gasperi, convinto sostenitore dell'emigrazione.
Purtroppo non è stato sempre possibile negoziare accordi di emigrazione corrispondenti a tutte le richieste italiane e spesso è mancato il successivo controllo circa il rispetto di ciò che era stato convenuto specialmente in relazione alle condizioni di lavoro, di abitazione e di vita degli immigrati. Con maggiori controlli e attenzioni alle esigenze di sicurezza dei lavoratori (non solo italiani) forse alcune gravi tragedie (si pensi a quella di Marcinelle nel 1956 o a quella di Mattmark nel 1965) si sarebbero potute evitare, ma attribuirne le responsabilità principali alla politica migratoria di De Gasperi avviata almeno un decennio prima appare francamente superficiale e storicamente insostenibile.
Eppure c’è ancora chi è convinto che in Italia «l’emigrazione nel secondo dopoguerra è stata indotta» e che l’Italia «dal 1946 mise in piedi il più grande sistema di esportazione di donne e uomini, di braccia e cervelli che la storia occidentale ricordi», accusando addirittura il governo De Gasperi, in riferimento all’accordo col Belgio, di aver copiato di fatto «un accordo siglato nel 1937 dall’Italia fascista con i nazisti per spedire braccianti in Germania» (Toni Ricciardi).
Una ricostruzione storica obiettiva del dopoguerra non dovrebbe ignorare che la politica emigratoria avviata da De Gasperi ebbe un consenso politico e sindacale larghissimo non perché fosse in assoluto la migliore, ma perché in quella situazione non aveva alternative ed era ritenuta la più idonea a risollevare il Paese per inserirlo tra le grandi nazioni europee. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 20 febbraio 2019