I governi del dopoguerra, che ritennero prioritari la
ricostruzione e lo sviluppo economico, non sottovalutarono i problemi del
disagio sociale e della disoccupazione. Nelle loro intenzioni programmatiche,
il buon andamento dell’economia, creando nuovi posti di lavoro, doveva servire
anche a riportare entro limiti accettabili il numero dei disoccupati sia al
nord che al sud e a stemperare il malcontento.
Ben presto, però, tutte le forze politiche e sindacali si resero conto che,
nonostante la crescita dell’occupazione nei settori industriale e terziario, il
numero dei disoccupati non diminuiva e il disagio sociale aumentava,
risvegliando in molti italiani il desiderio di emigrare. I governi
assecondarono questo desiderio, non senza un malcelato interesse.
Libertà di emigrazione con tutela
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Copertina della Domenica del Corriere sulla tragedia di Marcinelle |
Per rimettere in sesto l’economia, i governi avevano bisogno
di destinare il massimo delle risorse disponibili o in arrivo dal prestito
internazionale alla riconversione delle industrie, all’aumento della
produzione, allo sviluppo del commercio, all’acquisto di materie prime. Se si
fosse riusciti ad evitare di assistere milioni di disoccupati e famiglie
bisognose favorendo un’emigrazione regolare sarebbe stato nell’interesse
generale del Paese. Ed è quello che cercarono di fare tutti i governi centristi
del dopoguerra con l’avallo quasi unanime delle forze politiche e sindacali del
momento, che ritenevano realisticamente impossibile il pieno impiego e pertanto
l’emigrazione necessaria per favorire la ripresa.
La relazione della Sottocommissione della Costituente per i
problemi economici, presieduta dal comunista Antonio Pesenti affermava addirittura
che «per quanto riguarda [....] la conseguente necessità più o meno estesa di
ricorrere all’emigrazione per raggiungere un miglior equilibrio fra fattori
demografici e capacità produttive all’interno del paese, si è potuto sin qui
constatare una unanimità assoluta di giudizi: essere il nostro paese nell’impossibilità
di dar lavoro a tutti [....] quindi, come per il passato, l’emigrazione viene
unanimemente riconosciuta quale dura ma indispensabile necessità per l’economia
italiana».
Per rendere possibile un’emigrazione funzionale alla
ripresa, ma basata sui nuovi orientamenti repubblicani, occorreva non solo
ripristinare la libertà di emigrazione che era stata abolita dal
fascismo, ma anche predisporre un sistema di tutela della dignità del lavoro
italiano all’estero. Su entrambi i punti l’intesa tra governo, allora guidato
dal democristiano Alcide De Gasperi, e Costituente era totale. La nuova
politica migratoria, in assoluta discontinuità con quella restrittiva e
autarchica del regime precedente, doveva basarsi sui principi indicati
all’articolo 35 della Costituzione, ossia la «libertà di emigrazione» e
l’obbligo dello Stato di tutelare «il lavoro italiano all'estero».
Pertanto, occorreva adeguare urgentemente alle nuove
esigenze il sistema degli uffici del lavoro e di collocamento e creare
contemporaneamente efficienti organismi di tutela dei lavoratori all’estero. Il
compito più difficile sarebbe stato comunque concludere accordi di emigrazione
con i Paesi che manifestavano interesse alla manodopera italiana. Per gestire
efficacemente queste attività, il 26 dicembre
1946 venne creata al Ministero degli Affari Esteri la «Direzione generale
dell'emigrazione e degli affari sociali», incaricata fra l’altro di negoziare
gli accordi di emigrazione, vigilare sui servizi di tutela e di collocamento
degli emigranti e gestire i vari servizi attinenti alle condizioni degli
emigrati nei vari Paesi.
Accordi di emigrazione non facili ma utili
La guerra aveva creato enormi disparità tra i vari Stati,
non solo tra vincitori e vinti, ma anche tra Paesi in grado di aiutarne altri e
Paesi bisognosi di aiuto. L’Italia era fra questi, perché per sviluppare la
produzione industriale e il commercio aveva bisogno di acquistare a credito
molte materie prime, soprattutto energetiche, e quindi di negoziare con diversi
Stati accordi finanziari e commerciali. Occorre ricordarlo perché è in questo
contesto che furono negoziati e firmati i principali accordi di emigrazione del
dopoguerra.
I primi accordi furono conclusi nel 1946 con la Francia e
col Belgio. Con la Francia, gli accordi, formalizzati l’anno seguente,
prevedevano l’invio di minatori italiani e la corrispondente fornitura francese
di carbone all'Italia. L’accordo col Belgio (Protocollo italo-belga del
23.6.1946, aggiornato il 26 aprile 1947), impegnava l’Italia a favorire
l’emigrazione in Belgio di 50.000 minatori al ritmo di 2000 la settimana e il
governo belga a vendere mensilmente all’Italia almeno 2.500 tonnellate di
carbone ogni 1.000 minatori immigrati.
I negoziati dell’Italia per favorire l’immigrazione nel
maggior numero possibile di Paesi bisognosi di lavoratori stranieri non furono
sempre facili, proseguirono
incessantemente per tutto il decennio. Quasi tutti si conclusero con accordi
formali: nel 1947 con l’Argentina, la Cecoslovacchia, la Svezia, la Francia;
nel 1948 con la Gran Bretagna, la Svizzera, il Lussemburgo, l’Olanda,
l’Ungheria, il Brasile, l’Uruguay, l’Australia, il Canada, ecc.
Nessuno di questi accordi fu apertamente contestato nelle
sedi parlamentari, anche perché i flussi migratori non presentavano problemi
particolarmente gravi, mentre apportavano notevoli vantaggi non solo agli
emigrati e alle loro famiglie, ma anche al mercato del lavoro nazionale (grazie
al minor numero di disoccupati) e alle
finanze pubbliche, che con le rimesse degli emigrati riduceva il deficit della
bilancia dei pagamenti.
«Euforia emigratoria» ed «emigrazione assistita»
Nei primi anni del
dopoguerra si venne a creare nel Paese addirittura una sorta di «euforia
emigratoria» e ci fu chi, come Mario Montagnana, un politico del PCI,
che nel 1947 cominciò a preoccuparsene, non solo perché «persino numerosi operai e tecnici attualmente occupati» cercavano affannosamente il modo di andarsene, ma anche
perché convinto che «nonostante tutti gli accordi che il nostro governo ha
stabilito e stabilirà con i governi dei paesi d’immigrazione, molti, anzi quasi
tutti i nostri emigranti subiranno, in terra straniera, ben dure disillusioni
morali e materiali».
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Marcinelle 8 agosto 1956, giorno della tragedia. |
De Gasperi rimaneva tuttavia convinto dell’efficacia
dell’emigrazione, soprattutto per il Mezzogiorno, tanto che al III congresso
nazionale della DC (1949) non esitò a invitare gli italiani a «riprendere le vie
del mondo» e specialmente i contadini meridionali a «imparare le lingue e andare all'estero».
E’ possibile che il politico trentino fosse preoccupato
anche per le critiche che giungevano al governo dalle sinistre, ormai
all’opposizione, ma non aveva dubbi che con la sua politica migratoria stesse
realizzando ciò che, finita la guerra, tutti, anche le sinistre, auspicavano
per il bene dell’Italia. L’ideale sarebbe stato realizzare al nord come al sud
la piena occupazione, conformemente allo spirito della Costituzione (art. 1),
ma realisticamente era impossibile raggiungerla nel breve periodo. In
alternativa il compito dello Stato appariva quello di garantire un’«emigrazione
assistita» (Emanuela Primiceri), accompagnando e tutelando l'emigrato anche nel Paese d'immigrazione, come in effetti si stava cercando di fare.
Accuse ingiustificate
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Alcide De Gasperi, convinto sostenitore dell'emigrazione. |
Eppure c’è ancora chi è convinto che in Italia
«l’emigrazione nel secondo dopoguerra è stata indotta» e che l’Italia «dal 1946
mise in piedi il più grande sistema di esportazione di donne e uomini, di
braccia e cervelli che la storia occidentale ricordi», accusando addirittura il
governo De Gasperi, in riferimento all’accordo col Belgio, di aver copiato di
fatto «un accordo siglato nel 1937 dall’Italia fascista con i nazisti per
spedire braccianti in Germania» (Toni Ricciardi).
Una ricostruzione storica obiettiva del dopoguerra non
dovrebbe ignorare che la politica emigratoria avviata da De Gasperi ebbe un
consenso politico e sindacale larghissimo non perché fosse in assoluto la
migliore, ma perché in quella situazione non aveva alternative ed era ritenuta
la più idonea a risollevare il Paese per inserirlo tra le grandi nazioni
europee. (Segue)Giovanni Longu
Berna, 20 febbraio 2019