L’inizio delle relazioni migratorie tra l’Italia e la Svizzera risale a
un’epoca che precede la stessa proclamazione dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861)
e della moderna Confederazione (1848). Lungo il confine ci sono sempre stati
passaggi di italiani (soprattutto veneti e lombardi) e svizzeri (soprattutto
ticinesi e grigionesi) per motivi di lavoro (agricoltura, artigianato,
commercio). Numerosi italiani si erano stabiliti in Svizzera e molti svizzeri,
soprattutto ticinesi e grigionesi, si erano trasferiti in Italia. Fino al 1914
(inizio della prima guerra mondiale) la migrazione attraverso il confine
italo-svizzero era libera, senza regole precise, nello spirito del buon
vicinato.
1868: il primo accordo
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Per decenni il confine italo-svizzero è rimasto "aperto" per i migranti italiani e svizzeri |
Per disciplinare in maniera durevole e profittevole per entrambe le
parti la questione dei cittadini italiani che decidevano di stabilirsi in
Svizzera e dei cittadini svizzeri che decidevano di trasferirsi in Italia, il 22
luglio 1868, la Confederazione e il Regno d’Italia stipularono un «Trattato
di domicilio e consolare», che può essere considerato il primo accordo
italo-svizzero in materia di migrazione.
Quel trattato, com’è facilmente intuibile, è estremamente importante per
chiunque voglia conoscere non solo gli inizi dei rapporti italo-svizzeri
ufficiali in materia migratoria, ma anche le basi giuridiche e motivazionali di
tali rapporti fino a oggi, sebbene questi abbiano avuto nel tempo un andamento
non sempre lineare e conforme allo spirito delle origini. A conferma della sua
importanza aggiungo che il Trattato del 1868 non è mai stato denunciato o
sostituito e pertanto esso è ancora in vigore, anche se nel frattempo la
legislazione in materia, soprattutto quella svizzera, ha subito numerosi
cambiamenti.
Mi sembra opportuno, per cogliere lo spirito del Trattato e l’importanza
in particolare dell’articolo 1, ricordare anzitutto le motivazioni che hanno
spinto il Consiglio federale della Confederazione Svizzera e Sua Maestà il Re
d’Italia a concludere l’accordo, ossia il «desiderio di mantenere e rassodare
le relazioni d’amicizia che stanno fra le due nazioni, e dare mediante nuove e
più liberali stipulazioni più ampio sviluppo ai rapporti di buon vicinato tra i
cittadini dei due Paesi». Che non si trattasse solo di un «desiderio», ma di un
impegno solenne, lo dimostra l’articolo 1 che inizia con questa affermazione: «Tra
la Confederazione Svizzera e il Regno d’Italia vi sarà amicizia perpetua, e
libertà reciproca di domicilio e di commercio».
Piena libertà
d’industria, di commercio e di domicilio
I due giovani Stati erano talmente intenzionati a consolidare l’amicizia
e a sviluppare i rapporti di buon vicinato da riconoscersi reciprocamente una
sorta di diritto di libera circolazione dei propri cittadini attraverso una
frontiera comune che per loro doveva restare aperta. L’unica condizione, ovvia,
era che il suo passaggio fosse «lecito», ossia nel rispetto delle leggi e della
prassi vigenti.
Il punto più importante dell’articolo 1 non riguarda tuttavia il
passaggio di frontiera, ma il soggiorno e lo stabilimento (domicilio) nell’uno
o nell’altro Paese. Ed è al riguardo che si può notare l’aspetto più innovativo
del Trattato. Si stabilisce, infatti, che «gli Italiani saranno in ogni Cantone
della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e
proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o
potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E
reciprocamente gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle
persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i
nazionali».
Per non restare nel vago, come se si volessero eliminare eventuali dubbi
o fraintendimenti, l’articolo 1 prosegue precisando tutta una serie di
circostanze: «Di conseguenza, i cittadini, di ciascuno dei due Stati, non meno
che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno
liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte
del territorio, senza che pei passaporti e pei permessi di dimora e per
l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa alcuna, onere o
condizione fuor di quelle cui sottostanno i nazionali…».
Il Trattato, inoltre, prevede per i cittadini di entrambi i Paesi la
piena libertà di commercio, sia all’ingrosso che al minuto: «gli uni e gli
altri saranno su un piede di perfetta eguaglianza in tutte le compere non meno
che in tutte le vendite loro, liberi di stabilire e fissare il prezzo degli
effetti, delle merci e degli oggetti quali siansi, tanto importati che
indigeni, sia che li vendano nell’interno o che li destinino all’esportazione,
purché si uniformino esattamente alle leggi e ai regolamenti del paese». La
piena libertà riguarda anche l’esercizio di «ogni professione od industria» escludendo
per tutte queste attività «obblighi od oneri maggiori e più gravi di quelli cui
sono o potranno essere soggetti i nazionali».
Un buon inizio, ma
senza garanzie per il futuro
A prima vista, i
rapporti italo-svizzeri in materia di emigrazione non potevano avere inizio
migliore. Il Trattato garantisce infatti ai cittadini
italiani, rispettivamente ai cittadini svizzeri, domiciliati in Svizzera,
rispettivamente in Italia, sostanzialmente gli stessi diritti e doveri dei
nazionali, eccezion fatta per i diritti politici e gli obblighi militari,
riservati a livello federale e in quasi tutti i Cantoni ai soli cittadini
svizzeri.
Tuttavia, a
chiunque leggesse per la prima volta le frasi citate, ma conoscesse almeno
nelle linee essenziali la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera,
sorgerebbero spontanee almeno due domande. La prima: se il Trattato del 1868
garantisce agli immigrati praticamente gli stessi diritti economici e civili dei
nazionali, perché la vita di intere generazioni di immigrati italiani in
Svizzera è stata sottoposta a condizionamenti di ogni genere, esclusioni e
persino discriminazioni? La seconda: perché l’Italia non è mai intervenuta
efficacemente per far rispettare lo spirito e la lettera di quel Trattato, che
è ancora ufficialmente in vigore?
Rispondere
compiutamente a entrambe le domande, certamente pertinenti, richiederebbe molto
spazio, per cui provo a dare una risposta solo alla prima, rinviando una
risposta diretta o indiretta alla seconda a successivi articoli.
Amicizia non senza interessi da entrambe le parti
Anzitutto va
ricordato che il contesto in cui il Trattato è stato stipulato era eccezionale
e verosimilmente non avrebbe potuto durare invariato per sempre. Solo in quel momento,
tanto la Confederazione che il Regno d’Italia, Stati «giovani» ancora in
formazione, avevano tutto l’interesse a intrattenere soprattutto con i Paesi
vicini rapporti di buon vicinato e di sostegno reciproco. Per di più in quel
momento stavano maturando alcuni importanti progetti che richiedevano una
grande convergenza d’idee e un sostanziale contributo di entrambi i Paesi.
La Confederazione
era stata tra le prime nazioni a
riconoscere lo Stato italiano ad appena due settimane dalla proclamazione del
Regno d’Italia ed era particolarmente interessata a stabilire con tutti i Paesi
vicini trattati d’amicizia e di domicilio, garantendo reciprocità. In questo
modo essa intendeva anzitutto migliorare la situazione degli svizzeri
all’estero e quindi anche quelli stabilitisi in Italia, dove c’erano al momento
del Trattato importanti colonie di svizzeri: in Lombardia (Milano, Bergamo),
nel Veneto (Venezia), in Liguria (Genova), nel Centro Italia (Roma, Firenze,
Pisa, Livorno) e nel Mezzogiorno (Napoli, Salerno, Palermo) per complessivi
15-20.000 cittadini. Ma questo, come si vedrà, non era l’unico interesse della
Svizzera.
L’amicizia tra
Stati, però, è tanto più solida quanto più grandi sono i rapporti e gli
interessi reciproci. In quel momento la Svizzera e l’Italia, oltre alla difesa
dei propri cittadini, ne avevano due in particolare: la convergenza sulla
scelta del traforo del San Gottardo per una ferrovia transalpina e un accordo
commerciale.
L’opzione Gottardo determinante
L’Italia, che aveva
certamente interesse ad avere col Paese confinante buoni rapporti di vicinato
oltre che interesse a salvaguardare gli italiani (15-18.000) residenti in
particolare nel Ticino e nei Grigioni, aveva da poco scelto l’opzione del
tunnel sotto il San Gottardo per il progetto di ferrovia transalpina di cui si
discuteva fin dai tempi di Cavour.
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La realizzazione della ferrovia del San Gottardo fu determinante. |
A sostegno di
questa scelta erano intervenuti convintamente presso il governo italiano il
politico milanese Carlo Cattaneo e il diplomatico nonché ex consigliere federale Giovan Battista
Pioda. Nel 1866 un’apposita commissione aveva approvato a maggioranza il
progetto del San Gottardo e
il 1° maggio 1868 era stato firmato
un trattato di commercio tra l’Italia e la Svizzera. E’ probabile che la
decisione di realizzare il tunne più lungo del mondo (che avrebbe richiesto
molta manodopera italiana) sia stata determinante anche per la firma del
Trattato di domicilio e consolare del 22 luglio 1868.
L’Accordo del 1868
segnò di fatto l’avvio di un lungo periodo di immigrazione libera (ossia senza regole
speciali) attraverso il confine italo-svizzero. Ad approfittarne sono stati
soprattutto gli italiani che entrarono in Svizzera a decine di migliaia ogni
anno e per decenni fino agli anni Ottanta del secolo scorso, fatta eccezione
per il periodo fra le due guerre mondiali. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 25.1.2017