Negli anni Novanta, la popolazione residente straniera era largamente stabilizzata e beneficiava del permesso di domicilio. Cresceva poco, rispetto ai decenni precedenti (1,5% nel 1999, 1,1% nel 2000), perché la congiuntura economica non era favorevole, ma la sua proporzione sull'insieme della popolazione continuava ad aumentare (2000: 19,3%; 1990: 16,4%; 1980: 14,1%). I nuovi immigrati provenivano in larga maggioranza dai Paesi dell’Unione Europea (UE) e dell’Associazione europea di libero scambio (AELS), ma non dall'Italia. Gli italiani costituivano ancora il gruppo straniero più consistente, ma la tendenza al calo era evidente. Dal 30,8 per cento del 1990 erano scesi nel 1994 al 28 per cento e nel 1997 al 25,1%. Cresceva invece il numero dei naturalizzati (37.368 nel decennio), che accentuava nella statistica svizzera il saldo migratorio già negativo degli italiani. Per la statistica italiana, tuttavia, i naturalizzati non incidevano sul numero complessivo degli italiani, in quanto dal 1992 conservavano la cittadinanza italiana.
La popolazione straniera in trasformazione
I risultati già negli anni Novanta erano sotto gli occhi di
tutti perché almeno buona parte delle seconde e terze generazioni potevano
considerarsi ampiamente integrate linguisticamente, scolasticamente,
socialmente, culturalmente e professionalmente. Ovviamente molto restava ancora
da fare perché la popolazione straniera era in trasformazione. La legge sugli
stranieri del 1931 non era più sufficiente e anche la politica di
stabilizzazione e d’integrazione avviata negli anni Settanta richiedeva
adeguamenti profondi, anche dietro la spinta degli accordi che si stavano
discutendo tra la Svizzera e l’UE.
Nel 1991 il Consiglio federale aveva deciso le linee guida
della nuova politica immigratoria, che prevedeva dapprima l’adozione di un
sistema d’ammissione che distingueva i Paesi dell’UE e dell'AELS dal resto del
mondo, la cosiddetta «politica dei tre cerchi» e poi, dall'ottobre 1998, un
sistema binario d’ammissione. L’obiettivo finale restava l’introduzione della
libera circolazione delle persone per i cittadini dell’UE, come previsto dagli
accordi fra la Svizzera e l’UE (Bilaterali I) conclusi nel 1999.
In effetti il 1° gennaio 2002 fu introdotto in Svizzera il regime della libera circolazione delle persone per i cittadini dell’UE e da allora la strada dell’integrazione, anche per gli italiani, fu molto facilitata. Molti pregiudizi cadevano, la comprensione reciproca aumentava e la collaborazione si estendeva in tutti i campi a vari livelli. Naturalmente restava ancora molto da fare, soprattutto sul piano culturale e psicologico per rendere la popolazione svizzera più rispettosa e accogliente e gli stranieri meno estranei alla vita e alla cultura del Paese in cui in molti si auspicavano una convivenza collaborativa effettiva.
La seconda generazione protagonista
Anche questo compito culturale e politico fu enormemente
facilitato dalla partecipazione attiva al processo integrativo dei nuovi
immigrati e soprattutto delle seconde e terze generazioni. I nuovi immigrati,
in numero più ridotto rispetto alle generazioni precedenti, erano rispetto a
loro ben più preparati scolasticamente e professionalmente e più consapevoli
dell’attività che si apprestavano a svolgere e delle condizioni generali nella
nuova società in cui sapevano di doversi inserire.
I risultati al riguardo potrebbero apparire poco appariscenti,
a livello statistico, se i titolari di un diploma universitario sono calcolati
sull'insieme della popolazione italiana residente (circa il 2% nel 1970 e 1980,
il 3,8% nel 1990 e il 6,7% nel 2000), ma diventa ben più rilevante se si
osserva la popolazione attiva dai 25 ai 44 anni (1970: 3,1%, 1980: 3%, 1990:
6,7%, 2000:13,2%).
I principali protagonisti di questo progressivo
avvicinamento agli standard svizzeri erano tuttavia i giovani della seconda e
terza generazione (nati e cresciuti prevalentemente in Svizzera) che
soprattutto dagli anni Novanta hanno contribuito sensibilmente a elevare il
livello medio di formazione della popolazione italiana residente.
Negli anni Novanta, tuttavia, il livello di formazione tra gli italiani residenti in Svizzera era tutt'altro che omogeneo. Grandi differenze si notavano tra gli allievi delle varie classi d’età in base al luogo di nascita, alla nazionalità (solo italiana o italiana e svizzera), ceto sociale di appartenenza, professione dei genitori, ecc. Quelli che presentavano i migliori risultati nei vari gradi scolastici erano normalmente i doppi cittadini.
In una sorta di retrospettiva di quel decennio (e del
decennio precedente) si può anche osservare che forse mai prima di allora tra
gli immigrati italiani veniva attribuita così tanta importanza alla formazione
scolastica e professionale. E poiché investire nel capitale umano per alcune famiglie poteva rappresentare un costo non
indifferente, è giusto ricordare che forse mai come in quel periodo gli
immigrati italiani si resero conto dell’importanza di garantire ai loro figli
la migliore formazione possibile.
Italiani e formazione professionale
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Dagli anni '80 sempre più giovani italiani furono attratti dall'apprendimento delle nuove tecnologie (foto Cisap) |
A confermare tale consapevolezza, proprio negli anni Novanta
intervenne una nuova crisi economica che colpì come al solito soprattutto i
meno preparati. La disoccupazione che ne conseguì fu oltremodo pesante e
allarmante perché aveva raggiunto una proporzione assolutamente insolita (5,7%)
con un numero di disoccupati mai visto prima (oltre 200.000 nel 1997).
Nell'analisi delle cause si parlò oltre che della recessione dei primi anni
Novanta e del ristagno economico successivo, anche della maggiore facilità di
entrata in Svizzera per i cittadini dell’UE, di una certa inadeguatezza tra le
esigenze dell’economia e l’accresciuta trasformazione dei permessi stagionali
in via di esaurimento (nel 2000 ne resteranno solo poche migliaia) in permessi
annuali, delle ristrutturazioni industriali e anche delle carenze nella
formazione professionale.
Gli italiani non furono particolarmente colpiti perché
svolgevano allora, per oltre la metà (circa 140 mila su 270 mila), professioni
qualificate, ma la disoccupazione di quegli anni deve aver rafforzato
ulteriormente in loro la consapevolezza dell’importanza della formazione sia
nella prospettiva della carriera professionale e sia in una logica di
prevenzione della disoccupazione. Alcuni enti di formazione professionale
sopravvissuti alle costanti riduzioni dei contributi statali hanno saputo
adeguare l’offerta dei corsi in funzione dei nuovi bisogni, adottando in
particolare moduli brevi di preparazione e specializzazione e, soprattutto,
incentivi per la formazione continua.
Giovanni Longu
Berna, 18.5.2022