Nell'articolo precedente si è accennato ad alcuni ostacoli alla naturalizzazione sia da parte della Svizzera che da parte degli stranieri. In realtà le difficoltà nascevano dalla concezione dell’integrazione, su cui è opportuno soffermarsi (in questo e nei prossimi articoli) per capire la lentezza del processo integrativo specialmente degli immigrati italiani anche nel periodo considerato (1990-2000). D’altra parte, alla luce di quanto avvenuto in Svizzera si può ben comprendere quanto possa essere difficile, anche oggi in altri Paesi, concepire e percorrere una via all'integrazione se non si parte da presupposti corretti e condivisi.
Una distinzione limitativa
La Svizzera, com'è stato più volte ricordato (cfr. per es.
articolo del 13.4.2022), nonostante fosse chiaramente fin dagli ultimi decenni
dell’Ottocento un Paese d’immigrazione, non si è mai voluta riconoscere tale
fino al 2000. Questo atteggiamento ha pesato enormemente sulla politica
federale di assimilazione prima e di integrazione dopo (il 1970 può essere
considerato il punto di svolta) perché faceva sì che in molti ambienti
politici, sindacali e sociali si considerasse l’assimilazione/integrazione un
obiettivo eccezionale per una minoranza e non una possibilità reale per tutti,
un’eccezione e non la regola, anche per gli stranieri nati e cresciuti qui.
Un limite invalicabile
Un bell'esempio di grande apertura della politica federale
nei confronti degli stranieri la si trova proprio nei riguardi degli italiani
in quello che si può considerare il primo accordo di immigrazione/emigrazione
tra la Svizzera e l’Italia, ossia il Trattato di
domicilio e consolare del 22 luglio 1868. All'articolo 1, si
stabilisce, infatti, che «gli Italiani saranno in ogni Cantone della
Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà
loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno
esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente gli
Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e
proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali».
Quel Trattato, per altro ancora in vigore, rappresentava il
massimo (per l’epoca) a cui si poteva spingerela Confederazione nei confronti
degli stranieri perché, pur non essendo cittadini, venivano considerarli sullo
stesso piede di parità dei confederati in ogni ambito, salvo quello politico
riservato ai cittadini. Tuttavia, in quel Trattato si può vedere anche il
limite di tutta la politica svizzera verso gli stranieri fino alla seconda metà
del secolo scorso, perché la distinzione tra cittadini e stranieri è netta e a
questi era preclusa, almeno in via ordinaria, la stessa possibilità di superare
quel limite.
Dall'analisi di questa distinzione tra cittadini e stranieri
risulta chiaramente che non si può attribuire alla Confederazione la
responsabilità principale di quella pregiudiziale nei confronti degli
stranieri. Sta di fatto che la netta distinzione tra cittadini e stranieri ha
sempre pesato fortemente in tutta la politica immigratoria federale fino a
pochi decenni fa. Gli immigrati italiani più anziani sanno bene quanto abbia
pesato nella loro vita la condizione di essere (considerati) stranieri più
ancora che immigrati.
Tentativi di superamento
I tentativi di superamento
di quel limite sono stati per molti decenni tanto numerosi quanto inutili. Sul
finire dell’Ottocento, quando il numero degli stranieri immigrati costituiva
oltre il 10 per cento della popolazione residente e cominciava a preoccupare
seriamente le istituzioni e l’opinione pubblica, la Confederazione decise di
intervenire con un doppio intento: arrestare sul nascere la paura dell'inforestierimento (il termine Überfremdung
fu coniato nel 1900) favorendo le naturalizzazioni e sostituire con nuove forze
di lavoro i numerosi svizzeri che preferivano emigrare piuttosto che scavare
gallerie ferroviarie e lavorare in certe industrie.
Purtroppo determinò invece
la fine per parecchi decenni anche della volontà politica di trovare una
soluzione soddisfacente al problema di un’integrazione condivisa degli
stranieri.
La legge sugli
stranieri del 1931, fortemente regressiva
La guerra aveva
ridimensionato notevolmente i problemi relativi agli stranieri (anche perché la
madrepatria aveva richiamato in servizio moltissimi immigrati e la chiusura
delle frontiere aveva bloccato temporaneamente l’emigrazione/immigrazione), ma
il tema non era scomparso dall’agenda politica, nonostante si fosse ridotta
drasticamente la proporzione degli stranieri nella popolazione residente.
La nuova legge sugli
stranieri, adottata nel 1931 ed entrata in vigore nel 1934, benché
fortemente regressiva nonostante abbia subito nel tempo alcune modifiche, ha
costituito la cornice essenziale della politica svizzera in materia
d’immigrazione fino al 2008. Data questa durata straordinariamente lunga per
una legge riguardante fenomeni sociali di così ampia portata e molto variabili
nel tempo come l’immigrazione, i rapporti sociali, l’integrazione e altro, è
quantomeno utile osservarne almeno le caratteristiche fondamentali.
Modalità applicative della legge
Anzitutto va ricordato che l’obiettivo finale della nuova
legge era quello di stabilire la base giuridica per poter lottare efficacemente
contro l’«inforestierimento» (Überfremdung), sebbene la proporzione di
stranieri sulla popolazione totale fosse nel 1930 all'8,7 per cento, ben al di
sotto di quella registrata allo scoppio della prima guerra mondiale. Per
raggiungere questo obiettivo la legge indicava non solo e non tanto le modalità
d’ingresso in Svizzera degli stranieri, quanto le ragioni del loro ingresso. Da
quel momento, infatti, l’autorizzazione del soggiorno veniva vincolata sia al
possesso di un permesso di lavoro e sia alla capacità di accoglienza del Paese
(politica selettiva dell’immigrazione), mentre erano del tutto assenti altre
ragioni per esempio di carattere politico, sociale, familiare (ricongiungimenti).
In altre parole, le nuove ammissioni potevano avvenire
unicamente in funzione della situazione del mercato del lavoro, del clima
sociale, della situazione degli alloggi, della politica di limitazione del
numero di stranieri. Non bastava quindi avere un permesso di lavoro, ma
occorreva anche l’autorizzazione della Polizia degli stranieri, deputata
a controllare l’esecuzione delle disposizioni federali in materia di soggiorno
degli stranieri. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 4.5.2022