Le iniziative antistranieri degli anni Settanta, la crisi
economica del 1974-76, la trasformazione in corso del sistema produttivo delle
imprese e l’implementazione della nuova politica immigratoria finalizzata alla
stabilizzazione e all’integrazione hanno rappresentato una grossa sfida non
solo per il Consiglio federale, ma anche per gli immigrati. Per vincerla
occorreva un’ampia convergenza delle intenzioni e delle azioni di tutte le istituzioni
coinvolte e dei diretti interessati, svizzeri e stranieri. Nessuno, ovviamente,
si aspettava risultati immediati, perché le resistenze in entrambi i campi
erano molte. Soprattutto nei decenni seguenti sarà tuttavia possibile
raggiungere risultati significativi perché la direzione della nuova politica
del governo era chiara e irreversibile e anche tra gli stranieri che avevano
deciso di restare cresceva la consapevolezza che il futuro proprio e
soprattutto dei loro figli si sarebbe svolto in gran parte e meglio in
Svizzera.
Rimuovere pregiudizi e luoghi comuni

Chi oggi, in regime di libera circolazione delle persone,
pensasse che si sarebbe dovuto partire e lavorare insieme all’eliminazione dei
pregiudizi e dei luoghi comuni penserebbe giusto, ma probabilmente non si
renderebbe conto di quanto gli uni e gli altri fossero radicati sia tra gli
svizzeri e sia tra gli stranieri. Ancor meno si renderebbe conto quanto fosse
difficile superare alcuni ostacoli particolari. Si pensi, per esempio, alla
rigidità dei permessi degli stranieri soggetti a controllo (in forza di una
legge federale) e al sentimento di precarietà che ne derivava agli immigrati
che non avevano la certezza del rinnovo del loro permesso di lavoro e di
soggiorno. E come sarebbe stato possibile superare il sentimento che molti
lavoratori stranieri provavano nel vedersi considerati «ospiti» e non
«collaboratori» e tantomeno «concittadini»?
Per molti stranieri (italiani) sarebbe stato al confronto
molto più facile respingere al mittente o far finta di non aver sentito certi
appellativi più o meno offensivi (uno per tutti «Tschingg») o superare
altri pregiudizi riguardanti i
comportamenti, i modi di vivere e di vestire, la chiassosità eccessiva, lo
spregio delle regole, ecc.
Per gli stranieri residenti, tuttavia, proprio in quanto
immigrati desiderosi d’integrarsi, sarebbe stato comunque meglio fare in modo
che gli svizzeri si accorgessero da soli che tanti loro pregiudizi erano
infondati e che insieme avrebbero potuto raggiungere più facilmente e
rapidamente un buon livello d’integrazione degli stranieri e d’integrazione
sociale. Certamente gli immigrati (italiani) avrebbero saputo offrire molto,
grazie al loro talento e alla loro esperienza, non solo in campo lavorativo, ma
anche nell’arte della cucina, della moda, nello stile di vita, nella cultura,
ecc.
Ostacoli interni
Poiché gli immigrati italiani avevano un punto di partenza
indiscusso e solido, ossia la grande stima di cui godevano in quanto lavoratori
capaci e facilmente adattabili anche ai lavori pesanti e pericolosi (anche se
molti svizzeri tremavano al solo pensiero che una loro figlia andasse in sposa
a un italiano), avrebbero potuto raggiungere in breve tempo ambiziosi traguardi
se solo avessero dato prova di essere uniti nella lotta contro i pregiudizi
(anche propri) e specialmente negli sforzi per integrarsi (in un senso migliore
di quello dell’assimilazione di cui si parlava allora).
Purtroppo questa dimostrazione mancò a lungo perché gli
immigrati (italiani) non riuscirono mai ad essere veramente non solo uniti ma
nemmeno unitari nelle loro aspirazioni e nelle loro azioni. Forse sono mancate
loro il giusto incoraggiamento e guide sagge e convincenti. Basti ricordare
(cfr. maggiori dettagli nell’articolo precedente) che, in seguito al
malcontento generato dai movimenti xenofobi e dai licenziamenti durante la
crisi, molti stranieri decisero di rientrare in patria denunciando di essere
stati abbandonati dalle istituzioni e talvolta maltrattati e discriminati.
Questo atteggiamento ha pesato molto, soprattutto negli anni
Settanta, non solo nelle relazioni tra svizzeri e stranieri, ma anche tra gli
immigrati. Molti, infatti, continuarono a sentirsi sfruttati, poco rispettati e
marginalizzati, altri invece, magari facendo un po’ di autocritica,
cominciarono a riconoscere che anche loro dovevano cercare di capire gli
svizzeri, rispettare le loro opinioni e tradizioni, non gridare all’ingiustizia
e alla discriminazione appena si osservava qualche disuguaglianza e che in ogni
caso bisognava uscire dal proprio ambiente (spesso considerato un ghetto!) e
cominciare a dialogare con gli svizzeri soprattutto là dov’era auspicato,
specialmente nei gruppi sindacali, nella scuola, nelle commissioni ecclesiali, nei
vari gruppi di lavoro misti, ecc.
(Corriere dela Sera del 27.10.1979) |
Persino tra alcune importanti organizzazioni ci furono aspri
contrasti, che nemmeno la grande assemblea delle associazioni tenutasi nel 1970
a Lucerna era riuscita a sanare. La forte politicizzazione delle maggiori
associazioni, orientate quasi esclusivamente all’Italia, ha prodotto una
notevole polarizzazione secondo il diverso colore politico, sottraendo
interesse e vivacità alle questioni «svizzere» degli immigrati italiani.
Disagio e ritardi
Purtroppo da quelle discussioni, nelle quali prevalevano
solitamente gli aspetti di denuncia piuttosto che quelli propositivi, non
emerse mai una strategia comune per superare gli ostacoli e risolvere i
problemi. Molte energie venivano anche bruciate internamente in sterili
discussioni di natura politico-rivendicativa senza tener conto degli strumenti
tradizionali delle conquiste sociali in Svizzera (commissioni parlamentari,
concordanza politica, partecipazione delle parti sociali alle trattative,
consultazioni ad ampio raggio, ecc.) e nei confronti degli stranieri (negoziati
ufficiali, accordi bilaterali, commissioni miste, commissioni di controllo,
commissioni consultive, ecc.).
Quelle discussioni, anche se non producevano risultati
concreti, spesso irraggiungibili per le pretese eccessive dei proponenti,
finivano sempre per provocare un certo disagio in coloro che credevano davvero
che le distanze esistenti tra svizzeri e stranieri potevano essere accorciate,
che il desiderio di una convivenza pacifica senza rancori e pregiudizi era
legittimo, che almeno ai giovani bisognava offrire la possibilità di
svilupparsi in un clima disteso e positivo, che nella collaborazione fossero
coinvolte tutte le istanze responsabili, svizzere e italiane.
Ciò che è forse più grave è che il processo integrativo dei
giovani, già di per sé assai complesso e difficile in un ambiente migratorio e
fortemente ritardato dal clima d’incertezza del primo quinquennio degli anni
Settanta, è stato ulteriormente ritardato da questa situazione. In un prossimo
articolo il tema verrà approfondito, ma si può già anticipare che dovranno
passare parecchi anni prima che i figli degli stranieri, specialmente gli
italiani, raggiungano in generale le prestazioni degli svizzeri.
Verso la riuscita
Tenendo conto del periodo che si sta trattando e le
innumerevoli difficoltà che soprattutto la collettività italiana dovette
affrontare è forse facile recriminare che soprattutto da parte delle
istituzioni e delle associazioni ci sarebbe voluta maggiore coesione e
dedizione alla realizzazione dei progetti auspicati, ma non c’è dubbio che
nonostante ritardi ed evitabili errori gli italiani in Svizzera hanno fatto
progressi enormi anche nel periodo che si sta trattando e oggi sono un pilastro
solido dell’italianità della Svizzera. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 17.06.2020
Berna 17.06.2020