22 ottobre 2009

La settimana della lingua italiana in Svizzera, ma non a Berna

Si svolge, in tutto il mondo, dal 19 al 25 ottobre 2009, la IX settimana della lingua italiana. Avrebbe dovuto essere, soprattutto in Svizzera, un’occasione per far conoscere all’intera popolazione che la lingua italiana non è solo iscritta nella Costituzione federale come una delle quattro lingue nazionali e ufficiali, ma è anche una lingua viva, conosciuta da almeno un settimo dell’intera popolazione.
Purtroppo le manifestazioni si concentrano ormai solo in poche località e non se ne parla nemmeno in molte altre. Quest’anno poi sembra tutto concentrato a Zurigo. Dispiace che soprattutto a Berna praticamente non si faccia nulla, nonostante abbiano sede nella capitale federale l’Ambasciata d’Italia, la Cancelleria consolare, un Seminario d’italiano, un Comitato della Dante Alighieri, una Casa d’Italia, una sede dell’UNITRE, numerose associazioni italiane, ma anche una sede della Pro Ticino e dei Grigioni italiani, senza dimenticare che c’è una Sezione d’italiano nella Cancelleria federale, servizi linguistici italiani in tutti i dipartimenti federali, ecc.
Come interpretare questa mancanza d’iniziative?
Per quanto riguarda l’Italia, credo che le cause siano da ricercare soprattutto nell’indiscriminato taglio delle risorse finanziarie destinate alla lingua e alla cultura da parte degli ultimi governi. Ritengo tuttavia che la carenza d’iniziative per valorizzare la lingua italiana esprima assai chiaramente anche la povertà d’idee e la rassegnazione degli operatori culturali al declino inesorabile dell’italiano nella Confederazione. Se non è così, perché almeno a Berna, tutto tace?
Per quanto riguarda la Svizzera, credo che le cause non siano tanto di natura finanziaria quanto piuttosto di natura organizzativa e soprattutto di coscienza politica. Quel che si dice a parole non è trasferito nella pratica, nonostante che l’italiano sia in Svizzera lingua nazionale (ossia non regionale) e lingua ufficiale.
Già a maggio il Dipartimento federale degli affari esteri invitava le rappresentanze svizzere all’estero a proporre e a realizzare progetti (in collaborazione con gli Istituti italiani di cultura e le Ambasciate d’Italia) per valorizzare la lingua italiana. Cito testualmente la motivazione che se ne dava: «Questa iniziativa costituisce una piattaforma di particolare significato per il nostro Paese perché offre la possibilità di ricordare la sua natura multiculturale e multilingue, di illustrare realtà storiche e attuali della sua comunità italofona, promuovendo nel contempo una delle lingue nazionali».
Non so quante iniziative siano state realizzate all’estero, ma sarebbe interessante conoscere quali iniziative concrete sono state realizzate in Svizzera, fuori del Ticino. Perché il Cantone Ticino, quale principale attore e deputato alla conservazione e alla valorizzazione della lingua italiana, non assume iniziative promozionali fuori del proprio territorio? Perché la Deputazione ticinese alle Camere federali non si attiva a sostenere, anche in queste occasioni uniche, il plurilinguismo e specialmente l’italiano? Perché la Cancelleria federale, di concerto con i servizi linguistici italiani dei Dipartimenti, non diventa anche animatrice e sostenitrice di iniziative aperte al pubblico per valorizzare la traduzione e la lingua italiana?
Forse si sta perdendo la coscienza che, pur con tutta la globalizzazione che si vuole inevitabile, la Svizzera continuerà a restare anche italiana e quando non dovesse più esserlo sarà sicuramente un po’ meno Svizzera o non lo sarà affatto.
Giovanni Longu

21 ottobre 2009

Lo scudo fiscale italiano fa arrabbiare la Svizzera

A oltre un mese dall’entrata in vigore del terzo scudo fiscale italiano per far rientrare o regolarizzare capitali detenuti illegalmente all’estero da cittadini residenti in Italia, il dibattito al riguardo è sempre più animato in Svizzera e soprattutto in Ticino. A differenza dei due precedenti «scudi» del 2001 e 2003, che destarono sorpresa più che preoccupazione, il terzo non sorprende ma preoccupa, perché accompagnato da un presunto sentimento antisvizzero se non da parte del governo italiano almeno da parte del ministro delle finanze Giulio Tremonti.
Si parla apertamente di «giochi sporchi», un indegno «accanimento contro la Svizzera», un atteggiamento «aggressivo» e «indecente» da parte di un Paese considerato tradizionalmente «amico». Ed è difficile negare che alcune dichiarazioni del ministro Tremonti abbiano urtato la sensibilità di molti finanzieri, banchieri e politici ticinesi, ormai convinti che fosse chiaro a tutti, anche a Tremonti, che la Svizzera non è più un «paradiso fiscale» e pertanto non può essere oggetto di una «campagna mediatica scorretta». A parte i toni, credo che la misura adottata dal governo e dal parlamento italiani abbia una sua giustificazione.
In un momento di crisi finanziaria ed economica come quella che stiamo vivendo, nessun governo a corto di mezzi e doverosamente impegnato a contenere il debito pubblico, rinuncerebbe a un rientro di capitali detenuti illegalmente all’estero, sia pure con misure odiose. Tanto è vero che non vi hanno rinunciato gli Stati Uniti, né la Germania, né la Francia. L’Italia non poteva essere da meno, tanto più che stima i capitali di cittadini italiani depositati illegalmente all’estero nell’ordine di 550 miliardi di euro.
Il fatto che la Svizzera si senta particolarmente attaccata, non solo dagli Stati Uniti e dalla Germania, ma ora anche dall’Italia, è dovuto al fatto che molto probabilmente nei forzieri delle banche svizzere si nascondono molti soldi «evasi» al fisco di questi Paesi. Per quel che riguarda l’Italia si stima che abbiano trovato rifugio in Svizzera dai 150 ai 200 miliardi di euro. Secondo Tremonti, questi soldi devono emergere dalla zona grigia in cui si trovano e lo Stato, facendo i suoi calcoli, può chiudere un occhio per il passato, ma li terrà bene aperti per il futuro.
Capisco l’arrabbiatura di banchieri e politici ticinesi, perché il rientro in Italia anche solo di una parte della cifra menzionata danneggerebbe non poco la terza piazza finanziaria svizzera, ma non va dimenticato che si tratta pur sempre di soldi di clienti italiani, sottratti all’imposizione fiscale in Italia.
Capisco anche l’analisi delle cause dell’evasione fatta da molti economisti e politici ticinesi, ma non le conclusioni, quando queste si configurano come una giustificazione di una così imponente fuga di capitali o un esplicito invito alle ritorsioni.
Secondo il finanziere ticinese Tito Tettamanti (Corriere del Ticino del 18.7.2009) le vere cause della fuga dei capitali italiani soprattutto verso la Svizzera sarebbero: «uno Stato (…) con un’amministrazione pubblica ipertrofica e poco efficiente, con un dibattito politico fazioso e incivile, con una classe politica (la casta) disistimata, con una magistratura lentissima e ideologizzata, con una, per molti anni, irresponsabile politica dell’immigrazione, con problemi di sicurezza, violenze, stupri quotidiani che non contribuiscono alla qualità della vita».
A conferma di quanto appena detto, Tettamanti aggiungeva: «A testimonianza del fallimento della politica basterà ricordare che mille lire negli anni Cinquanta corrispondevano a sette franchi svizzeri, e quarant’anni dopo, prima dell’entrata nell’euro, a ottanta centesimi. Deve stupire che da un simile Paese, che pure può contare su ingegnosi operai, eccellenti ricercatori, coraggiosi imprenditori, i capitali (ed anche i cervelli) fuggano?».
Il finanziere svizzero non arrivava a giustificare l’evasione fiscale in Italia e la buona accoglienza dei miliardi «evasi» in Svizzera, ma ci andava vicino, quando ammoniva i suoi concittadini che «non possiamo pensare di basare il futuro economico del Cantone sulla protezione all’evasione italiana anche se motivata».
Molti politici ticinesi di centro destra e soprattutto della Lega di Bignasca sono più o meno concordi su questo tipo di analisi e ne traggono conclusioni che francamente lasciano perplessi quando parlano di un’aggressione dell’Italia contro la Svizzera e chiedono a Berna contromisure. Essi fanno presente, ad esempio, che in Ticino lavorano 44.000 frontalieri e chiedono al Consiglio federale la revisione dell’accordo italo-svizzero del 1974 sui ristorni dei frontalieri come contropartita all’offensiva fiscale italiana e per garantire la reciprocità alla parte svizzera.
E’ difficile predire quanti capitali rientreranno effettivamente in Italia, ma a giudicare dalle preoccupazioni del sistema bancario e amministrativo ticinese, dovrebbe trattarsi anche stavolta, come già in occasione del primo (2001) e secondo (2003) scudo, di cifre consistenti. Le conseguenze per il fisco ticinese, soprattutto per le città di Lugano e Chiasso, potrebbero risultare notevoli, ma non mi sembra corretto parlare di «fuga di capitali» dalla Svizzera, trattandosi al massimo di «rientro» di capitali illegalmente detenuti all’estero.
Ciò che è auspicabile è che non subiscano danni i tradizionali buoni rapporti italo-svizzeri e che le ottime relazioni economico-finanziarie continuino a prosperare ma nella legalità e nel reciproco interesse. Credo che soprattutto l’Italia ma anche la Svizzera possano e debbano fare qualcosa di più in questa direzione. Sarebbe un peccato che la tradizionale e più che centenaria amicizia italo-svizzera si deteriorasse a causa di controversie facilmente risolvibili, e che il Ticino rallentasse il processo d’integrazione transfrontaliero per questioni di natura fiscale. In fondo, se l’Italia ha bisogno del Ticino per i rapporti sud-nord, anche il Ticino può svolgere compiutamente la sua vocazione di ponte se le relazioni transfrontaliere saranno improntate a reciproco rispetto e reciproca stima.
Giovanni Longu
Berna, 20.10.2009