16 gennaio 2019

Lo sciopero generale del 1918 e gli immigrati italiani


Nei mesi scorsi è stato rievocato, sui media, con mostre e dibattiti, uno degli eventi più drammatici della Confederazione Svizzera dal 1848, lo sciopero generale del 12-14 novembre 1918. I giudizi sulle cause, sulle modalità di attuazione e sulle conseguenze dell’unico sciopero generale svizzero sono ancora divergenti, ma è innegabile ch’esso abbia influito notevolmente sull’evoluzione sociale di questo Paese, con ripercussioni evidenti anche sulla politica immigratoria che ha coinvolto anche gli immigrati italiani. Gli effetti cominciarono a farsi sentire già all’inizio del 1919, cent’anni fa. 

Situazione iniziale: la crisi alimentare e salariale
La prima guerra mondiale era appena finita e le conseguenze non sarebbero tardate a farsi sentire in molti dei Paesi coinvolti con capovolgimenti politici, ripresa delle lotte sociali, avvio di riforme, nascita di nuove forme di populismo. Solo in Svizzera sembrava regnare l’immobilismo delle autorità politiche, nonostante le manifestazioni, le proteste e gli scioperi di lavoratori e lavoratrici che fin dal 1917 chiedevano miglioramenti salariali, la riduzione della settimana lavorativa, una maggiore protezione per la vecchiaia e i superstiti e la partecipazione delle organizzazioni operaie alle decisioni politiche.
Bisogna ricordare che l’economia di guerra aveva creato in Svizzera forti disuguaglianze sociali perché aveva favorito con ampi profitti una fascia ristretta di imprenditori e fornitori di beni e servizi, ma aveva impoverito il ceto medio e la classe operaia, su cui gravavano ora notevoli ristrettezze economiche dovute ai bassi salari e all’aumento enorme del costo della vita. A Berna, per esempio, un chilo di patate che nel 1914 costava 12 centesimi, nel 1918 ne costava 27 e un chilo di pane era aumentato da 30 a 74 centesimi. Aumenti simili si registrarono per le uova, il latte, il burro, lo zucchero. Nel frattempo i salari reali erano calati di oltre un quarto e la fascia di povertà si era notevolmente ampliata, quasi un sesto della popolazione (circa 650.000 persone) sopravviveva grazie all’assistenza pubblica. 

Come si giunse allo sciopero generale
Le proteste e dimostrazioni degli ultimi anni avevano prodotto qualche promessa, ma nessun miglioramento reale. Ragione più che sufficiente, per socialisti e sindacalisti, per rivendicare urgenti interventi dello Stato, accompagnando le richieste con la minaccia di uno sciopero generale. Fu anche fondato un apposito comitato di azione (Comitato di Olten), che raggruppava i rappresentanti delle organizzazioni operaie svizzere, del Partito socialista e dei movimenti femministi, attivi fin dagli ultimi decenni del XIX secolo. Il Comitato, forte dell’ampio consenso delle organizzazioni rappresentate, presentò subito al Consiglio federale una serie di rivendicazioni, ma non ottenne alcuna risposta concreta. Il Comitato decise allora di proclamare una serie di scioperi di protesta in diverse città industriali.
I manifestanti avevano previsto una reazione della borghesia e del governo, ma non di dover affrontare nelle piazze addirittura un dispiegamento di soldati mai visto prima. La loro presenza in tenuta antisommossa fu ritenuta dal Comitato di Olten una vera e propria provocazione, a cui, secondo alcuni, si doveva rispondere con uno «sciopero generale» di 24 ore o, secondo altri, con uno sciopero generale ad oltranza fino al ritiro delle truppe nelle caserme e alla soddisfazione delle loro richieste. Tra queste figuravano ora non solo la settimana lavorativa di 48 ore e la previdenza per la vecchiaia e i superstiti, ma anche la rielezione immediata del Consiglio nazionale col sistema proporzionale, il diritto di voto e di eleggibilità per le donne, l’introduzione di una tassa patrimoniale, la partecipazione al governo dei socialisti.
In seno al Comitato prevalse la seconda opzione e venne proclamato lo sciopero generale ad oltranza dal 12 novembre. Furono chiamati a scioperare tutti i lavoratori dell’economia privata (quelli pubblici erano sottoposti a una specie di regime «militare» col divieto preciso di sciopero) e almeno 250.000 lavoratori vi aderirono. Per paura che le manifestazioni degenerassero (come stavano avvenendo in Austria e Germania), furono inviati a presidiare i punti strategici delle principali città ben 95.000 soldati, armati di fucili e granate a mano, pronti a intervenire in caso di aggressione. In alcuni casi intervennero provocando 4 morti e decine di feriti!.

Reazione del Consiglio federale: paura di una rivoluzione
La reazione del Consiglio federale oggi può apparire del tutto sproporzionata, dato il carattere
Contro gli scioperanti il Consiglio federale schierò ben 95.000 soldati!
pacifico delle manifestazioni sindacali del 1918 e la moderazione delle rivendicazioni, ma si può comprendere tenendo conto della paura che dominava in quegli anni i rapporti politici e sociali. A far paura era non tanto la rivoluzione russa, ma il suo possibile contagio anche nella società svizzera, costituendo in tal modo un serio pericolo non solo di ordine pubblico, ma anche di sconvolgimento sociale, inaccettabile per la borghesia e per il Consiglio federale che ne era la massima espressione.
Dalle cronache degli ultimi mesi del 1918 appare chiaro che il Consiglio federale intendeva impedire in Svizzera con ogni mezzo quella che gli appariva come una sorta di «rivoluzione bolscevica» provocata da «istigatori senza scrupoli e specialmente da rappresentanti del terrore bolscevico» intesi a preparare in Svizzera «il terreno per movimenti sovversivi» nel resto dell’Europa. Il Consiglio federale ne era talmente convinto che decise subito l’espulsione dalla Svizzera dell’intera missione sovietica a Berna.
Poiché il governo federale appariva deciso a stroncare sul nascere qualsiasi tentativo rivoluzionario e per evitare la guerra civile «che la borghesia cercava di provocare», dopo le dichiarazioni delle autorità «che i suoi postulati sarebbero stati esaminati e accettati», il Comitato di Olten decise di terminare lo sciopero il 14 novembre. Le forze borghesi considerarono la fine dell’agitazione senza condizioni una resa, mentre i socialisti e dai sindacalisti una prova di responsabilità dei lavoratori. Dopo tutto, lo sciopero era riuscito, «dimostrando che senza di loro la vita sociale si arresta».

Conseguenze positive e negative, specialmente per donne ...
Tornata la calma, la situazione sociale e politica ritornò apparentemente alla normalità. In realtà la «pace sociale» faticherà ad imporsi e bisognerà attendere il 1937, quando padronato e sindacati troveranno un accordo sulla soluzione dei conflitti sociali conosciuto come «pace del lavoro»; il divario tra destra e sinistra (considerata genericamente filocomunista) era destinato ad aumentare almeno fino al 1943 quando nel governo federale venne eletto anche un rappresentante socialista; le donne dovranno aspettare molto più a lungo prima di poter votare ed essere elette.
Una delle rivendicazioni del 1918 era il regime proporzionale,
subito introdotto alle elezioni del 1919.
Eppure non si può negare che dal 1919 il meccanismo della trasformazione sociale cominciò ad accelerare il ritmo. La voglia di riforme era riscontrabile nei programmi politici di tutti i partiti. Già quell’anno, alle elezioni politiche anticipate con il sistema proporzionale, i socialisti raddoppiarono i mandati nel Consiglio nazionale, nel 1931 divennero il primo partito svizzero, gettando le basi per il loro futuro ingresso nel governo. L’Unione sindacale svizzera venne maggiormente sentita nel dibattito pubblico sull’economia e sulle riforme sociali. Nel 1920, nelle fabbriche entrò in vigore la settimana lavorativa di 48 ore. Nel 1925 venne approvato in votazione popolare un articolo costituzionale sull’assicurazione per la vecchiaia e i superstiti (poi tradotto in legge e applicato dal 1947).
L’era delle riforme era decisamente avviata con due eccezioni: nel campo dell’uguaglianza uomo-donna e nella politica verso gli stranieri. Circa le rivendicazioni femminili, nel corso della commemorazione a Olten dello sciopero nazionale del 1918, la consigliera federale Simonetta Sommaruga ha affermato che la Svizzera è ancora indietro di decenni per quanto riguarda la parità tra i sessi. Quanto agli stranieri, la convinzione del Consiglio federale che all’origine dello sciopero nazionale ci fosse l’istigazione straniera, in particolare dei bolscevichi sovietici, non fece che alimentare, sia pure involontariamente, quella forma di xenofobia che si era sviluppata dopo l’ondata immigratoria dell’ultimo decennio dell’Ottocento e che si manifestava sotto forma di paura dell’«inforestierimento».
... e stranieri
Con l’intento di isolare e possibilmente espellere anarchici, comunisti e sovietici ritenuti «corpi estranei», il rigido controllo degli ingressi alla frontiera, introdotto allo scoppio della guerra, fu mantenuto (ordinanza del 17 novembre 1919). Sulla stampa apparivano sempre più spesso articoli richiedenti norme incisive per limitare i diritti degli stranieri e per vietare loro qualunque attività politica. Tutto contribuiva ad alimentare la xenofobia.
Il 6 marzo 1920 venne persino depositata a Berna una iniziativa popolare, sostenuta dal movimento repubblicano e altre organizzazioni di destra, munita di oltre 60.000 firme (molte più di quelle necessarie) per la modifica della Costituzione in senso antistranieri. L’iniziativa fu respinta nella votazione popolare dell’11 giugno 1922, ma il Consiglio federale si fece carico dell’elaborazione della necessaria modifica costituzionale per poter legiferare in una materia sempre più dibattuta nell’opinione pubblica, quella dell’«inforestierimento», che ha coinvolto anche decine di migliaia di immigrati italiani.
Giovanni Longu
Berna, 16 gennaio 2019