05 agosto 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 21. Importanza della «durata»

Tra i maggiori ostacoli all’integrazione ce n’è uno su cui raramente ci si sofferma e che invece merita molta attenzione: la «durata» dell’emigrazione/immigrazione. Si sa che molti di coloro che erano venuti per restare «qualche stagione o anno» finirono per restarci ben più a lungo o per sempre. Questa incertezza da parte di numerosi immigrati e la regolamentazione restrittiva del fenomeno migratorio da parte della Svizzera sono stati all’origine di equivoci, incomprensioni, pregiudizi, illusioni, delusioni, opportunità mancate, ecc. Approfondire questo tema richiederebbe molto spazio e tempo, ma nel contesto dell’integrazione di cui trattano gli ultimi articoli, sono sufficienti alcuni cenni.

Migrazione temporanea o definitiva?

Dizionari ed enciclopedie sono concordi nel definire l’emigrazione lo spostamento di singoli individui o di gruppi di persone da un luogo a un altro nello stesso Paese o in altri Paesi. Concordano anche nel ritenere che il movimento può avvenire per cause e finalità differenti. Di solito trascurano, invece, la variabile «durata», quella prevista inizialmente e quella effettiva, da cui possono derivare conseguenze importanti, come nel caso dell’immigrazione italiana in Svizzera.

E’ facile comprendere la diversa portata per il Paese di origine ma soprattutto per il Paese di destinazione se l’emigrazione è «temporanea» o se è «permanente». Purtroppo nel caso dell’immigrazione italiana in Svizzera, in cui, nel periodo considerato 1970-1990, sono presenti entrambe le forme, la provvisorietà è stata fonte di innumerevoli equivoci, incomprensioni, contraddizioni e soprattutto ritardi nel processo integrativo.

Nell’Ottocento l’Italia considerava l’emigrazione dapprima come «temporanea» (stagionale), poi sempre più come duratura e addirittura permanente, specialmente quando le destinazioni erano le Americhe. Gli emigrati in terre lontane divennero «espatriati» (quasi) per sempre, anche se l’anagrafe dei Comuni ne conservava traccia fino all’introduzione nel 1988 di un’apposita Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE). Oggi più che mai gli emigrati italiani sono considerati cittadini residenti all’estero, che l’Italia tutela costituzionalmente.

Nel secondo dopoguerra, la ripresa dell’emigrazione italiana, sia quella stagionale che quella permanente, soprattutto verso i Paesi vicini (Svizzera, Francia, Belgio, Germania), ha accentuato da parte dell’Italia la tutela costituzionale degli emigrati. Poiché i flussi migratori erano regolati da accordi bilaterali (1868, 1948 e 1964 con la Svizzera) o internazionali (i Trattati di Roma del 1957 tra gli Stati della Comunità Economica Europea), la vigilanza dell’Italia si è accentuata, contribuendo al miglioramento costante delle condizioni generali degli emigrati italiani, ma ritardandone probabilmente il processo integrativo nel Paese di residenza.

Immigrazione temporanea e precaria

Non va dimenticato che nel dopoguerra, dopo la prima ondata d’immigrati provenienti dal Nord Italia, dal 1958 il maggior numero di italiani proveniva dal Mezzogiorno e dalle Isole, regioni appena sfiorate dal «miracolo economico» di cui invece beneficiava abbondantemente il Centro-Nord. Per potersi inserire, sia pure con un po’ di ritardo, col progresso che si stava generalizzando in gran parte d’Italia, moltissimi meridionali cercarono fortuna emigrando, ma con l’intenzione di rimpatriare appena possibile.

In quel periodo l’immigrazione italiana in Svizzera era dunque in gran parte «temporanea» (spesso «stagionale») per volontà degli stessi immigrati (oltre che per gli accordi bilaterali) e ciò prestava il fianco a molti xenofobi per affermare che gli stranieri (italiani) erano difficilmente integrabili. In realtà, il maggiore ostacolo all’integrazione era dovuto alle leggi e ai regolamenti svizzeri che miravano espressamente a rendere oltremodo precaria la permanenza in Svizzera, difficile l’ottenimento del domicilio e arduo il percorso integrativo.

Risulta così comprensibile l’enorme sforzo che dovettero compiere le autorità svizzere a partire dagli anni Settanta per abbattere non solo alcuni pregiudizi diffusi tra la popolazione, ma anche l’impostazione normativa della Confederazione (restia a considerarsi un Paese d’immigrazione) in modo di favorire la stabilizzazione e l’integrazione degli stranieri. Tuttavia, non fu facile neppure per molti immigrati, mettere da parte i pregiudizi e intraprendere la strada dell’integrazione. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 5 agosto 2020