Gli italiani immigrati
in Svizzera nel dopoguerra per motivi di lavoro non erano «clandestini», anche
se molti erano entrati aggirando alcune disposizioni burocratiche italiane
(cfr. L’ECO del 3.5.2017). Negli anni ’50 e ‘60 la collettività italiana
immigrata registrò un aumento straordinario, non solo grazie ai nuovi
immigrati, ma anche ai ricongiungimenti familiari (facilitati dopo l’accordo
italo-svizzero del 1964) e a un forte incremento naturale. Quest’ultimo, in
particolare, non previsto né dalla politica svizzera né da quella italiana,
cominciò a creare non pochi problemi a partire dalla fine degli anni ’60. Uno
dei più delicati riguardava i «bambini clandestini», figli di immigrati non
ancora stabilizzati e non autorizzati a tenere con sé figli minorenni.
La situazione di
partenza

Nel dopoguerra,
l’ondata di immigrati italiani (stagionali e annuali) che trovavano in Svizzera
la soluzione ai loro problemi suscitava grandi speranze in molti connazionali
desiderosi anch’essi di trovare un lavoro sicuro e ben pagato. Il miraggio
delle retribuzioni alte praticate in questo Paese nel periodo dell’alta
congiuntura e la facilità di trovar lavoro riuscivano persino a far dimenticare
o a minimizzare negli interessati i rischi e le difficoltà dell’impatto con un
mondo in gran parte sconosciuto e impenetrabile.
Per decenni, per
esempio, la preparazione culturale e linguistica dei nuovi emigranti fu
completamente trascurata dalle autorità predisposte alla gestione
dell’emigrazione. Sotto questo aspetto la condizione di questi migranti era
persino peggiore di quella degli emigranti dell’Ottocento-inizio Novecento, che
bene o male disponevano di opuscoli informativi tipo «vademecum
dell’emigrante», piccoli dizionari bilingui di sopravvivenza, indirizzi di
riferimento.
Anche la conoscenza
della legislazione quadro (legge sugli stranieri, permessi di soggiorno,
diritti e doveri degli immigrati, ecc.) era carente, specialmente in coloro che
non seguivano la procedura regolare del reclutamento. Ciò che interessava
maggiormente agli emigranti di allora era il lavoro, la paga, il risparmio,
meno i rischi sul lavoro (la prevenzione), l’alloggio, il vitto, i contatti
sociali e un minimo d’integrazione.
Questa situazione,
molto comune tra le persone celibi o nubili, ossia nella maggior parte dei
primi immigrati, cominciò a creare seri problemi negli anni ’60 tra gli
immigrati sposati con figli, per una ragione molto semplice: la politica
immigratoria svizzera di allora e gli stessi accordi bilaterali italo-svizzeri
d’immigrazione non prevedevano che gli stagionali, e per un certo tempo anche
gli annuali, potessero portare con sé i figli minorenni. Non si trattava quindi
di una lacuna legislativa o contrattuale, ma di una politica voluta
espressamente in applicazione della legge sugli stranieri del 1931 e
finalizzata ad impedire, per quanto possibile, il temuto inforestierimento.
Quando nasce il
problema
Allo Stato non
interessava propriamente se un lavoratore e una lavoratrice fossero sposati e
convivessero, se avessero figli oppure no. Importava invece che entrambi
lavorassero e non avessero in Svizzera figli a cui dover provvedere. Si
riteneva infatti che durante la settimana nessuno dei due genitori avrebbe
avuto il tempo sufficiente per dedicarsi convenientemente ai figli. Inoltre,
difficilmente due stagionali avrebbero potuto permettersi un’abitazione
dignitosa per alloggiare sé stessi e i loro figli e pagare la pigione per un
intero anno anche se nei mesi invernali dovevano rientrare in patria. Per
questo, molte autorità cantonali a cui competevano le autorizzazioni erano
inflessibili.
Di fronte a questa
intransigenza della legislazione e della politica svizzere, ci furono
stagionali e annuali che, sfidando i regolamenti e le disposizioni della
polizia degli stranieri, trattenevano con sé «clandestinamente» i propri figli,
affidandone la custodia a terze persone (quando era possibile) o rinchiudendoli
in casa sperando che le autorità non ne venissero a conoscenza (solitamente a
seguito di denuncia). Se scoperti sarebbe stata inevitabile l’espulsione e
spesso anche l’interdizione a rientrare in Svizzera per qualche anno. Nacque
così il problema dei bambini cosiddetti «clandestini», perché non dichiarati
alle autorità competenti.
Verso la metà degli
anni ’50, quando il problema dei ricongiungimenti familiari non era ancora
acuto, le autorità cantonali svizzere furono invitate dalla Confederazione a
non essere troppo severe e a tener conto di «ragioni di umanità» nel trattamento delle richieste. Da allora, con l’incremento
dell’immigrazione, il fenomeno è andato diffondendosi e acuendosi, tanto da
diventare tema di discussione durante la trattativa italo-svizzera per il nuovo
accordo sull'immigrazione (1964) e sempre più nell'opinione pubblica.
Con l’accordo del 1964
le condizioni e i termini per i ricongiungimenti familiari furono tuttavia resi
meno gravosi per gli immigrati italiani, ma evidentemente alcuni di essi ritenevano insopportabile
restare mesi e mesi senza vedere i propri familiari.
Negli anni ’70 il
problema divenne politico
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Dal film di A. Bizzarri "Lo Stagionale" |
Nel 1971, nel periodo della massima intensità d’impiego di lavoratori
stagionali, il tema dello «stagionale» e dei loro figli divenne oggetto di un
commovente film dell’emigrato-regista Alvaro Bizzarri, «Lo stagionale».
Ma a sollevare il problema
nell’opinione pubblica fu soprattutto l'inchiesta del 1971 della giornalista
romanda Anne-Marie Jaccard dedicata ai «bambini dell'ombra», diecimila
«piccoli stranieri», figli di stagionali e annuali italiani e spagnoli
introdotti in Svizzera «clandestinamente», una situazione «scandalosa».
«Diecimila
bambini clandestini in Svizzera?» s’interrogava un giornale di San Gallo nel
1972, ritenendo la cifra esagerata. Lo stesso anno, al consigliere nazionale
socialista Fritz Waldner, che interpellava il governo a proposito di
questi «diecimila bambini in età scolastica che non vanno a scuola», il
Consiglio federale rispose anzitutto che riteneva quella cifra esagerata e che
se un bambino non va a scuola è solo perché i genitori lo sottraggono al
controllo delle autorità. Fornì anche la seguente interpretazione del fenomeno:
probabilmente si trattava di figli di immigrati che lavoravano da molti
anni in Svizzera gran parte dell’anno, ossia «falsi stagionali». Il Consiglio
federale aveva già provveduto l’anno precedente a trasformare 8000 permessi
stagionali in permessi annuali e rendere così possibile il ricongiungimento
familiare.
La risposta del
Consiglio federale appare in verità solo in parte plausibile: se ammetteva che
la situazione era divenuta insostenibile anche per lo stesso governo, è lecito
chiedersi perché, avendone gli strumenti, non ha esercitato anche prima la
vigilanza sulla reale durata dei permessi stagionali e soprattutto perché non
ha provveduto subito a trasformare i permessi dei «falsi stagionali» in permessi
annuali, consentendo così i ricongiungimenti familiari.
Le responsabilità
Ciononostante, la
cifra iniziale di diecimila bambini «clandestini» è stata ripetuta per molti
anni acriticamente da quasi tutti coloro che si sono occupati del fenomeno, pur
sapendo che non è verificabile in alcun modo, soprattutto se non si specifica a
che data o a quale periodo si riferisce e la durata della «clandestinità», se
pochi mesi o anni.
Non è certo un
contributo alla verità l’affermazione di Gian Antonio Stella: «è la
storia di migliaia di bambini nascosti in casa dai genitori che non avevano il
diritto, secondo le rigidissime leggi svizzere, di portare la famiglia a Berna
o a Ginevra. Piccoli fatti entrare di straforo e costretti a vivere come Anna
Frank. Sepolti vivi, per anni, in un appartamento di periferia. Senza poter
ridere, giocare, piangere. Senza poter uscire, andare ai giardini, farsi
qualche amichetto». Naturalmente Stella non si è mai chiesto se le informazioni
in suo possesso fossero sufficienti e attendibili. Gli è bastata una fonte, Marina
Frigerio: «erano trentamila quei nostri bambini nascosti, secondo la
Frigerio, verso la metà degli anni Settanta…».
Ha scritto anni fa il
giornalista Daniele Mariani che da alcuni racconti di bambini costretti
a vivere nascosti emergono «le pagine più buie della storia dell’emigrazione
italiana in Svizzera». Non so se sono state le più buie, certamente sono tra le
più toccanti e le più tristi, perché fanno emergere molti lati oscuri
dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera.
A questo punto è forse
inutile soffermarsi oggi sul numero dei casi e sulle responsabilità di allora, ma ritengo che sia
lecito parlare di una complicità diffusa fra tutti i responsabili
dell’emigrazione, dell’immigrazione e dei genitori interessati. Ognuno avrà
avuto sicuramente delle attenuanti, ma non c’è dubbio che nessuna di queste
entità ha messo chiaramente e decisamente al primo posto l’interesse del
bambino, della sua crescita, della sua formazione, della sua felicità in una
condizione «normale». (Segue)
Giovanni LonguBerna, 10.5.2017