19 agosto 2009

Emigrazione e integrazione: meno retorica e più chiarezza

Odio la retorica e la demagogia. La tragedia di Marcinelle prodottasi in Belgio 53 anni fa è solo un triste evento da ricordare, non da celebrare e strumentalizzare. Nella «Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo», l’8 agosto scorso, la catastrofe mineraria di Marcinelle avrebbe dovuto rappresentare un simbolo di tutte le disgrazie patite dall’emigrazione italiana nel mondo e un’occasione per ricordare la fatica, la sofferenza e talvolta la morte di migliaia di emigrati. Non mi sembra che sia stato così.
Molti uomini politici (e qualche donna) sembra che abbiano colto al volo la commemorazione di Marcinelle, assai mediatizzata, per poter dire «c’ero anch’io» e lasciarne testimonianza in discorsi da affidare agli atti.
Confusione e buonismo
A dire il vero, leggendo molti di questi discorsi integrali o riassunti, riportati dalle agenzie, vi ho trovato ben poco di nuovo e molto di circostanza o addirittura fuori tema. Solo pochi, a mio avviso, hanno centrato il senso della commemorazione. Altri, più che al ricordo, hanno diretto l’attenzione al presente, spesso in chiave polemica e aggiungendo confusione a confusione. Com’è possibile, ad esempio, che non sia definitivamente acquisita la distinzione tra immigrazione «regolare» e immigrazione «clandestina», tra immigrati per motivi di lavoro e rifugiati per motivi politici o religiosi? Perché non si riserva il termine «immigrati» unicamente a coloro che entrano in Italia per motivi di lavoro e nel rispetto della legislazione in materia? Questi immigrati meritano grande rispetto e riconoscenza.
Il buonismo con cui si vorrebbe accreditare anche i «clandestini» come immigrati o rifugiati danneggia gli uni e gli altri. E non si può invocare per i «poveri clandestini» una sorta di occhio di riguardo, cercando magari un sostegno improprio nel fatto che anche tra gli italiani del dopoguerra c’erano molti clandestini. Non si può dimenticare che da allora, nel mondo intero, molte circostanze sono cambiate e la «clandestinità», il nascondersi e non farsi trovare, è un reato ovunque e nessuno Stato potrebbe tollerarlo.
Non solo diritti, ma anche doveri
Per confondere ulteriormente i termini del problema, diversi interventi hanno fatto appello al rispetto della dignità umana per tutti, compresi i clandestini, come se l’applicazione di qualunque legge possa prescindere, anche nei casi più gravi, dal rispetto che si deve sempre e comunque alla persona. Un conto è il rispetto per la persona e cosa ben diversa esigere, anche con la forza se necessario, l’osservanza delle regole. Del resto, nel caso dei clandestini non si capisce perché dovrebbero godere di certi diritti tipici di chi agisce nella legalità senza esigere anche da loro di ottemperare ai doveri corrispondenti. I critici del «reato di clandestinità» dovrebbero avere almeno il coraggio di riconoscere che i clandestini non sono proprio del tutto in regola con la legge («uguale per tutti») e con i «doveri».
In questo contesto, mi ha sorpreso l’affermazione del segretario generale del CGIE Carozza, secondo cui: «rievocare i morti di Marcinelle senza riconoscere pari dignità e diritti a chi, come loro, lascia la propria terra e la propria famiglia per cercare lavoro e futuro, significa sminuire del valore umano e storico il loro sacrificio». A chi allude Carozza? Chi vuole sminuire il valore umano di chi lavora nel rispetto delle regole? Mi sembra che la lotta alla clandestinità vada proprio nella direzione di salvaguardare la dignità e i diritti dei lavoratori onesti e rispettosi delle leggi.
E quando Carozza afferma che «oggi come ieri, i migranti vengono, troppo spesso e tout court, considerati elementi di pericolosità sociale», non bisognerebbe dimenticare che se nella percezione della collettività c’è troppa criminalità attribuita agli stranieri è anche dovuto ai molti reati commessi proprio da clandestini. Una ragione in più, dunque, per combattere la clandestinità, che finisce per danneggiare ulteriormente gli immigrati regolari e onesti.
Un’ovvietà, in questo contesto, anche quanto affermato dal presidente della Camera dei Deputati Fini, presente a Marcinelle: «il lavoratore va rispettato anche se non ha les papiers, i documenti». Certo! Ogni persona in quanto tale va rispettata, anche se clandestina. Ma come si fa a far godere dei diritti civili un clandestino, quando non lo si conosce nemmeno perché clandestino o perché è il primo a non rispettare gli altri e le leggi del Paese che lo ospita?
Emigrazione e integrazione
A un certo punto, nel suo intervento, l’on. Fini ha lanciato anche un breve richiamo a «quegli esponenti politici che oggi in Italia rappresentano una parte degli elettori del nord» perché ricordino che «l’emigrazione italiana non è stata soltanto caratteristica del nostro meridione», ma ha coinvolto anche veneti, piemontesi, lombardi. E’ vero, ad emigrare ad esempio in Svizzera (il primo Paese europeo ad accogliere il maggior numero di lavoratori italiani nell’immediato dopoguerra) furono soprattutto settentrionali, ma bisognerebbe anche ricordare che erano lavoratori apprezzati e generalmente soddisfatti.
Quando si parla di «emigrazione italiana» (almeno verso la Svizzera), senza connotazioni geografiche e temporali, il rischio dell’approssimazione è enorme. Oggettivamente e qualitativamente, per esempio, l’emigrazione del Nord è stata diversa da quella del Sud. Tanto è vero che, storicamente, per gli italiani la situazione in Svizzera si deteriorò con l’immigrazione di massa proveniente soprattutto dal Sud e con l’incomunicabilità che si produsse perché la maggioranza degli immigrati non conosceva la lingua locale e non aveva alcun interesse ad apprenderla.
A onor del vero, va aggiunto, che in quel periodo l’immigrazione italiana era prevalentemente stagionale, per cui i primi a non volere l’integrazione degli italiani erano gli svizzeri. Una situazione a dir poco drammatica. Oggi l’immigrazione italiana in Svizzera può essere considerata a grandi linee pienamente integrata, ma il processo d’integrazione, a differenza di altri Paesi a forte presenza d’italiani (forse con pochissime eccezioni), qui è stato fortemente rallentato non solo dalla politica elvetica che ha ostacolato per decenni la stabilità dell’immigrazione (italiana) ma anche dallo scarso interesse di molti italiani della prima generazione ad integrarsi. Per decenni, infatti, il massimo interesse degli immigrati italiani è stato rientrare quanto prima in Italia col risparmio più consistente possibile.
In questa prospettiva appare ovvio che per un lungo periodo gli italiani abbiano investito pochissimo nel vitto, nell’abbigliamento, nell’abitazione, nell’apprendimento della lingua locale, nel perfezionamento professionale e persino nell’istruzione dei propri figli. Uno dei rimproveri ricorrenti degli svizzeri agli italiani dell’immigrazione di massa degli anni Sessanta e Settanta è stato proprio quello di non volersi integrare, di non darsi spesso alcuna pena ad imparare la lingua locale e a rispettare le usanze del posto.
Integrare e integrarsi
Forse per questo, per superare le diversità e gli ostacoli, e non ripetere gli errori del passato, il presidente della Camera ha fatto bene a richiamare il tema della doverosa integrazione degli stranieri, ma si è lasciato sfuggire – se le agenzie hanno riportato bene il suo intervento a Marcinelle – un’espressione («è chiaro che dobbiamo integrarli garantendo la sicurezza…») che mi lascia perplesso. Nell’ottica di una sana integrazione, infatti, questa avviene non solo se da una parte c’è la volontà d’integrare, ma se anche dall’altra c’è la disponibilità ad integrarsi. La vera integrazione presuppone la volontà reciproca delle due parti d’incontrarsi, di rispettarsi, di camminare insieme e di collaborare.
Il tema dell’integrazione era stato ricordato da Fini leggendo il messaggio di saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale, partendo dal «ricordo delle generazioni che hanno vissuto l'angoscioso periodo delle migrazioni dalle regioni più povere dell'Italia ed hanno affrontato condizioni di lavoro gravose ed estremamente rischiose» invitava alla riflessione «sui temi della piena integrazione degli immigrati così come su quelli della sicurezza nei luoghi di lavoro». Aggiungeva che «si tratta di esigenze sociali e civili e di diritti fondamentali, il cui concreto soddisfacimento sollecita massima attenzione ed impegni coerenti da parte delle istituzioni e di tutte le forze sociali».
A differenza di molti interventi di circostanza pronunciati a Marcinelle, il messaggio inviato dal Presidente della Repubblica, mi pare quello che meglio sintetizza il senso della giornata del ricordo delle vittime del passato e del presente.
E’ chiaro che oggi, in Italia, non si possono più fare gli stessi errori del passato e ha ragione Fini ad affermare che «coloro che pensano alle politiche dell'immigrazione considerando i lavoratori stranieri come persone che oggi servono e domani non più non hanno capito niente perché non conoscono la nostra storia e non sanno che in certi luoghi si rimane». Ma questa affermazione presuppone che gli immigrati davvero intendano restare e integrarsi.
Proprio per sostanziare il discorso dell’integrazione, oggi è quanto mai importante non privarsi della memoria del passato, che poi non è così lontano nel tempo.
Ricordare per valorizzare
E’ importante ricordare, perché ogni Paese d’emigrazione, una volta divenuto Paese d’immigrazione, tende a dimenticare con molta facilità la sua storia passata, di quando molti cittadini per sopravvivere o vivere dignitosamente dovevano cercare fortuna altrove. Anche in Italia è già in atto quella che Gian Antonio Stella ha chiamato «rimozione di una storia di luci, ombre, vergogne». Ben vengano, dunque, per rafforzare il ricordo, anche le rievocazioni dei minatori di Marcinelle o, prossimamente, dei lavoratori di Mattmark, morti sul lavoro. Ma attenti a non trasformare queste commemorazioni in passerelle per personaggi noti e meno noti in cerca di visibilità od occasioni ghiotte per lanciare a destra e a manca allusioni e accuse che con la storia e il ricordo hanno ben poco a che fare.
Attenti anche a non strumentalizzare questo tipo di ricorrenze in chiave politica, ad esempio per lanciare messaggi al governo o mostrare una fittizia comunanza d’intenti tra maggioranza e minoranza. Se all’on. Di Biagio (PdL) piace tanto che quest’anno la «celebrazione di Marcinelle» si sia svolta «in una cornice bipartisan», mi convince di più l’on. Farina (PD) quando dice: « Noi ogni anno veniamo qui a Marcinelle non a celebrare un triste rito. Veniamo qui a ricordare (…) il sacrificio dei lavoratori per costruire la società del benessere. È stato il lavoro, sono stati i lavoratori, non dimentichiamolo mai, la locomotiva del progresso e dell’industrializzazione diffusa».
Penso che ricordare Marcinelle e altri luoghi simili sia soprattutto un atto di coscienza, un esercizio di memoria su quel che è stata l’emigrazione italiana, nel bene e nel male, e di riflessione su quel che non dovrebbe essere oggi l’immigrazione in Italia.
Non so poi se le vittime di Marcinelle, di Mattmark, del San Gottardo o del Lötschberg vanno celebrate come «eroi» portatori-esportatori di virtù quali l’onestà, il coraggio, lo spirito di sacrificio e altre virtù ricordate da diversi esponenti presenti a Marcinelle. Non erano certo peculiarità che avevano in esclusiva. Credo che le vittime vadano ricordate e onorate semplicemente come vittime, sacrificate sull’altare del progresso e del benessere a tutti i costi.
Attenti anche a non considerare la tragedia di Marcinelle «l’emblema del lavoro italiano nel mondo» (l’espressione è di Fatuzzo, del Partito dei Pensionati). Il lavoro italiano nel mondo può avere ben altri emblemi, basti pensare alle gallerie ferroviarie alpine che hanno superato o stanno per superare in eccellente forma il secolo di vita o ancora, per restare in ambito svizzero, alle colossali dighe che resistono imperturbabili alla pressione di milioni di metri cubi d’acqua per l’approvvigionamento elettrico di questo Paese. Non sono le disgrazie l’emblema, semmai, il neo che finisce per evidenziare ancor di più la grandezza e la bellezza del lavoro italiano nel mondo. Girando per la Svizzera, a ben osservare quanto è stato realizzato dagli italiani o con gli italiani, c’è da restare inorgogliti.
E’ giusto e doveroso ricordare le tragedie dell’emigrazione italiana. Ma è certamente venuto il tempo di valorizzare maggiormente anche l’eredità simbolica e materiale che la storia dell’emigrazione italiana ci ha affidato. Ben venga, dunque, la legge proposta dall’on. Porta (PD) e altri «per rendere obbligatorio l’insegnamento della storia della nostra presenza nel mondo in tutte le scuole di ogni ordine e grado».
Giovanni Longu
Berna 18.08.2009