14 maggio 2025

1915-18: L’Italia in guerra (terza parte: conseguenze nefaste)

Della prima guerra mondiale (1914-18) nessuno ha più ricordi diretti, delle conseguenze invece sì. Se in questa serie di anniversari significativi se ne riparla non è però solo perché le conseguenze furono indelebili, specialmente per l’Italia, ma anche perché l’opinione pubblica sembra considerare la guerra, anche nel mondo d’oggi, inevitabile e la pace raggiungibile solo con le armi, dunque del più forte. Eppure proprio la conclusione della prima guerra mondiale dovrebbe far capire che non basta vincere per garantire una pace giusta e durevole. L’Italia uscì vincitrice dallo scontro con l’Austria, la Germania e la Russia, ma la pace successiva non fu ritenuta soddisfacente, anzi i nazionalisti guidati da Benito Mussolini parlarono subito di una «vittoria mutilata» … e cominciarono a pensare a una «rivincita». Nel frattempo l’Italia sprofondò in una spaventosa crisi economica, civile e politica, per uscire dalla quale si affidò proprio a Benito Mussolini e al regime fascista, ignorando ovviamente su che strada sarebbe stata condotta.

Perché non basta vincere

Marcia su Roma (28 ottobre 1922) del pittore futurista Giacomo Balla
L’Italia fu tra i Paesi vincitori della prima guerra mondiale, ma non fece tesoro di quanto era costata sia in termini finanziari che, soprattutto, in costi umani. Quella vittoria fu infatti pagata a un prezzo troppo alto: quasi 1.300.000 morti tra militari (oltre 650.000) e civili (quasi 600.000), circa 450.000 mutilati permanenti, 3.000.000 di reduci (cfr. articolo precedente). L’Italia avrebbe dovuto imboccare definitivamente la strada della pacificazione interna e internazionale.

La guerra fu un disastro nazionale non solo per le innumerevoli vite umane sacrificate sull'altare di un nazionalismo insensato, ma anche per lo scontento che generò tra chi aveva combattuto, chi aveva sperato in una vittoria dopo una guerra breve e con poche vittime, chi aveva fatto inutilmente tanti sacrifici e si ritrovava disoccupato, più povero di prima (non solo nel Mezzogiorno, ma anche al Nord) e senza prospettive. «E alla fine di tre anni di guerra civile strisciante sarà Mussolini […] a uscire vittorioso dalla competizione», ma anche a gettare le basi del successivo conflitto mondiale.

Con la fine della guerra andò completamente in crisi il settore industriale che l’aveva alimentata: i comparti cantieristico, siderurgico e meccanico cominciarono a smobilitare lasciando senza lavoro decine di migliaia di operai (molti dei quali emigreranno in Svizzera). L’agricoltura si trovò abbandonata, perché molte terre rimasero incolte (specialmente quelle appartenute alle famiglie dei morti e degli invalidi). Il disagio economico e sociale crebbe ovunque, anche perché il potere d’acquisto delle famiglie diminuiva costantemente a causa dell’inflazione galoppante. Aumentarono i disordini, gli scioperi, le occupazioni di fabbriche, i saccheggi e persino gli scontri a fuoco. La mancanza o carenza di assistenza esasperava i più bisognosi, specialmente nelle regioni centro-meridionali. Le lotte sociali divamparono soprattutto nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Il futuro stava diventando più incerto che mai per tutti.

Nessuno, nel dopoguerra, sembrava rendersi conto che in quella situazione l’Italia poteva risollevarsi solo unendo le forze, individuando bene le responsabilità di chi aveva voluto la guerra, ma soprattutto proponendo obiettivi di ripresa raggiungibili in un clima di pacificazione e concordia nazionale.

Ne approfittarono i fascisti

I nazionalisti, guidati da Benito Mussolini, erano gli unici che promettevano per l’Italia un avvenire migliore, a condizione tuttavia che il popolo fosse unito in un’unica «nazione» (ovviamente «fascista»), animato dai «sacri valori» della patria e ripudiasse la «lotta di classe», perché la nazione, sosteneva, il «Duce», «contiene la classe di tutte le classi, mentre la classe non contiene affatto la nazione». L’abile retorica mussoliniana e la spregiudicatezza di alcuni suoi seguaci riuscì a fare molti proseliti per opposte ragioni sia tra i diseredati e sia tra la borghesia. Tra la seconda metà del 1920 e i primi mesi del 1921 l’offensiva dei fascisti prese vigore.

Non è possibile qui rievocare le varie fasi che portarono all'affermazione del regime fascista di Mussolini in Italia, ma si può sostenere che quell'esito fu possibile non solo a causa della spregiudicatezza dei metodi usati dai fascisti, ma anche a causa dell’inconsistenza e alla mancanza di compattezza delle opposizioni liberale, popolare-cattolica e socialista (benché alle elezioni del 1919 il PSI avesse ottenuto il 32% dei voti e il Partito popolare, specialmente dopo la scissione del Partito Socialista e la nascita del Partito Comunista d’Italia (21.01.1921). Eppure, alle elezioni politiche del 1919 il Partito Socialista Italiano aveva ottenuto il 32% dei voti e il Partito Popolare Italiano di don Sturzo il 20%, mentre i fascisti non erano riusciti a eleggere alcun rappresentante.

Nel 1921-22 le bande fasciste sparsero terrore un po’ ovunque ma specialmente in Romagna. La crisi politica precipitò e il governo Bonomi fu costretto a dimettersi. La sua successione normale fu resa impossibile dai veti incrociati di alcuni partiti e il re Vittorio Emanuele III il 30 ottobre 1922 dovette dare l’incarico di formare il nuovo governo a Benito Mussolini, che due giorni prima aveva organizzato la «Marcia su Roma».

L’avvento del fascismo e le sue conseguenze sono oggetto di intere biblioteche ed esulano dagli intenti di questa serie di articoli, ma non si potrà dimenticare che il regime tenterà di «fascistizzare» anche gli emigrati, compresi quelli immigrati in Svizzera, di cui si tratterà nel prossimo articolo.

Giovanni Longu
Berna, 14.05.2025