Con questo numero inizia una serie di articoli dedicati alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera dal secondo dopoguerra agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Ritengo utile rievocare con dati e fatti certi quel periodo, per mettere in luce le basi dello sviluppo di una collettività straniera divenuta una componente essenziale del tessuto sociale, culturale ed economico di questo Paese. Benché si tratti di un passato recente, mi sembra poco conosciuto specialmente dalle giovani generazioni, anche perché è spesso ridotto a una «brutta storia» di sfruttamento e umiliazioni che molti preferiscono rimuovere. Spero di riuscire, al contrario, a illustrare una storia avvincente che, nell’insieme, ha contribuito a rendere la Svizzera moderna un Paese prospero e la collettività italiana una componente strutturale stabile e positiva dell’italianità della Confederazione.
Immigrazione
italiana in primo piano al Festival di Soletta
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Anni 1950-70: partenze di emigranti con i «treni della speranza» |
Molti aspetti dell’immigrazione
italiana del secondo dopoguerra e specialmente degli anni Sessanta del secolo
scorso sono poco conosciuti. Lo si nota, per esempio, quando si cerca di
liquidare il confronto tra «i nostri emigrati» e i nuovi «migrati» che tentano
di sbarcare in Italia semplicemente negandolo, senza saperne evidenziare le
ragioni. D’altra parte, il desiderio diffuso di non dimenticare quel periodo
sembra richiedere un racconto sistematico sereno e obiettivo di quelle che sono
diventate per molti le radici della propria storia.
Trovo sintomatico, per
esempio, che quest’anno il festival cinematografico più
importante per il cinema svizzero, la 54a
edizione delle Giornate del Cinema di Soletta (dal 25 al 31 gennaio 2019),
dedichi ampio spazio al tema
dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera negli anni 1950-1970.
Già col film della
giornata inaugurale «Tscharniblues II» di Aron
Nick si fa riferimento a un quartiere simbolo di Berna, creato soprattutto
da operai italiani a cavallo tra gli anni 1950 e 1960 e divenuto celebre in
Europa per la sua concezione e realizzazione. Tra i film presentati ce n’è uno
che ricorda l’impatto straordinario che ebbe tra gli immigrati italiani in
Svizzera la canzone vincitrice del Festival di San Remo del 1964 di Gigliola
Cinquetti «Non ho l’età». A migliaia le scrissero lettere di
ammirazione, che hanno ispirato il film omonimo di Olmo Cerri.
Ancora, in questa edizione viene ricordato un regista che agli italiani
ha dedicato un’attenzione particolare, Alexander
Seiler, deceduto il 22 novembre 2018
all’età di 90 anni. Ai lavoratori italiani immigrati aveva dedicato nel 1964 un
documentario fondamentale, «Siamo italiani». Era divenuto subito celebre
anche perché, l’anno seguente, era uscito un libro di testimonianze di immigrati
con la prefazione del grande scrittore svizzero Max Frisch, che sintetizzava magistralmente la condizione
degli immigrati, allora soprattutto italiani, con la celebre frase: «Abbiamo chiamato braccia… e vennero uomini».
Alcuni dati significativi
Per rendersi conto dell’importanza dell’immigrazione italiana in
Svizzera dal dopoguerra agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso sono
sufficienti alcuni dati e fatti.
Alla fine della guerra la Svizzera aveva un bisogno enorme di manodopera
che poteva ottenere, per svariate ragioni, solo dall’Italia. A fronte di decine
di migliaia di posti di lavoro non occupati, i disoccupati svizzeri erano al
massimo poche migliaia. Nel 1960, alla fine di agosto, si conteranno appena 744
persone in cerca d’impiego (nel 1961 ancora di meno: 551). Dove cercare
lavoratori e lavoratrici per l’economia in attesa di assicurare beni e servizi
in continuo aumento? Il Paese maggiormente disponibile risultò l’Italia, che
divenne subito dopo la guerra il bacino di reclutamento più sicuro e
conveniente per le industrie e i servizi svizzeri.
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A. Seiler, regista di «Siamo italiani» |
Per regolare questi flussi, le condizioni d’immigrazione e di lavoro,
l’acquisizione dei permessi o la trasformazione degli stessi, furono firmati
tra la Svizzera e l’Italia numerosi accordi, due in particolare, nel 1948 e nel
1964. Erano strumenti che garantivano all’Italia una certa protezione dei
lavoratori italiani e alla Confederazione di tenere a bada i movimenti xenofobi
che chiedevano un freno o addirittura una riduzione dell’immigrazione.
Nonostante la politica d’immigrazione
restrittiva della Svizzera, la popolazione italiana immigrata e residente
stabilmente (quindi esclusi gli stagionali e i frontalieri) anno dopo anno non
faceva che aumentare. Da poco più 100.000 alla fine della guerra, nel 1950 gli
italiani erano già 140.366, ma dieci anni dopo erano più che raddoppiati
(346.223) e
nel 1970 avevano superato abbondantemente il mezzo milione (583.855).
Contributo alla
prosperità
I lavoratori italiani
hanno accompagnato per intero il boom economico svizzero del secondo dopoguerra.
Anche grazie a loro, tra il 1950 e il 1970, il prodotto interno lordo
(PIL) raddoppiò, con una crescita annua media in termini reali del 4,5% l’anno. Nello stesso arco di tempo il
volume di esportazioni aumentò complessivamente di oltre il 600%.
Si può ancora
ricordare che nello stesso periodo le entrate degli enti pubblici aumentarono
enormemente, quelle della Confederazione
da 1 miliardo e 757 milioni a 7 miliardi e 975 milioni di franchi, quelle dei Cantoni da un miliardo e 173
milioni a 6 miliardi 650 milioni di franchi, quelle dei Comuni da un miliardo e
136 milioni a 5 miliardi 620 milioni di franchi.
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Berna 1972, sede del CISAP. |
Purtroppo gli
italiani furono coinvolti anche nelle più grandi disgrazie di quel periodo
durante la costruzione di due importanti dighe, quella di Mattmark (30
agosto 1965) e quella di Robiei
(15 febbraio 1966).
Con la crescita numerica dell’immigrazione italiana in Svizzera si
sviluppava in quegli anni anche l’associazionismo, la presa di coscienza delle
possibilità e delle responsabilità delle prime generazioni nei confronti delle
seconde, la realizzazione di numerose iniziative di tipo sociale, culturale,
sportivo e formativo. A metà degli anni Sessanta sorse anche un centro di
formazione professionale, il CISAP di Berna, che rappresenterà per
alcuni decenni un brillante esempio di collaborazione italo-svizzera e un
modello di formazione professionale per adulti poi ampiamente imitato.
Osservazioni metodologiche
Anzitutto ritengo
doveroso precisare che in questi articoli, di norma, è presa in considerazione
la popolazione italiana residente permanente (eventualmente anche con altra
cittadinanza), esclusi stagionali e frontalieri. Quando si parla esplicitamente
di «immigrati», s’intende la
«prima generazione», ossia le persone, di entrambi i sessi, nate all’estero e
immigrate in Svizzera a tempo più o meno indeterminato, soprattutto per motivi
di lavoro o per ricongiungimento familiare.
Nella trattazione
della «storia» dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera eviterò il
quadro di riferimento ideologico riscontrabile in alcuni racconti anche
recenti, secondo cui il problema migratorio rientrerebbe nel rapporto di forza
tra capitalismo (o imperialismo) e proletariato (sfruttamento, semischiavitù),
preferendo il quadro socio-economico dello scambio tra economie forti ed
economie deboli, secondo le regole tipiche del mercato libero in cui domanda e
offerta si richiamano reciprocamente e talvolta dialetticamente.
Ritengo pertanto che la
migrazione dall’Italia sia avvenuta, su base prevalentemente volontaria, perché
l’economia forte svizzera richiedeva forza lavoro di cui il mercato interno era
carente e l’economia italiana, al contrario, essendo debole aveva forza lavoro
in eccesso. Il flusso migratorio è stato regolato semplicemente dall’incontro,
non sempre felice, della domanda e dell’offerta alle condizioni del mercato del
lavoro del momento, ma anche entro un determinato quadro giuridico costituito
dagli accordi bilaterali in materia tra la Svizzera e l’Italia.
Infine, trattandosi di
articoli, con precise esigenze di spazio, sarà inevitabile che alcuni temi
siano svolti in successivi interventi. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 30.01.2019
Berna, 30.01.2019