Le condizioni di lavoro degli
immigrati, soprattutto di quelli non qualificati, sono generalmente più dure di
quelle che devono affrontare gli indigeni. Quasi sempre, infatti, si tratta di
attività che questi ultimi non vogliono più svolgere per svariate ragioni,
spesso sono anche meno redditizie, più faticose o pericolose. Inoltre, alla
lunga, diventa penosa più ancora della pericolosità o della fatica dei lavori svolti,
la dipendenza dell’emigrato dal suo datore di lavoro, perché rischia sovente di
trasformarsi in discriminazione, arbitrio, angheria (specialmente in mancanza
di garanzie legali, contrattuali o sindacali). La storia dell’immigrazione
italiana in Svizzera dimostra tuttavia che superare le difficoltà è possibile,
ma richiede impegno, costanza e talvolta cambiamento di mentalità. Moltissimi
ci sono riusciti.
Quando gli italiani
divennero indispensabili
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Negli anni '60 e '70 molti italiani erano addetti alle fonderie. |
I primi immigrati, quelli
dell’Ottocento e inizi del Novecento, erano chiamati a svolgere soprattutto
attività pesanti e pericolose nel settore delle costruzioni (edilizia e genio
civile). Gli incidenti sul lavoro e le morti erano frequenti. I contrasti e gli
scontri tra indigeni e immigrati erano costanti. Basti pensare agli attacchi
violenti ai lavoratori italiani di fine Ottocento a Berna, Basilea, Zurigo e
altrove. Purtroppo anche la popolazione era schierata contro gli immigrati,
considerati «invasori», pur sapendo che si ammazzavano di fatica.
Lo Stato italiano cercava di
tutelare il lavoro degli emigrati, ma lo faceva con poca convinzione, perché era
più interessato alla pace sociale in patria che al benessere di chi l’aveva
lasciata. Da parte sua la Confederazione, Paese liberale, si è sempre fidata
(troppo) della buona volontà delle parti sociali (imprenditori e sindacati),
pur sapendo che le condizioni di lavoro, d’abitazione e di vita degli immigrati
spesso non corrispondevano all’«umanità» e agli impegni presi nelle convenzioni
bilaterali o internazionali.
Per ottenere condizioni di
lavoro più umane e salari più idonei, gli immigrati si son dovuti battere
tenacemente, non esitando ad avanzare richieste (pur essendo tutt’altro che
facile, per paura dei licenziamenti), organizzare proteste, riunioni sindacali
(società di mutuo soccorso) e numerosi scioperi. Non sempre andavano a buon
fine, ma sia pure lentamente i miglioramenti arrivarono, anche perché molti
datori di lavoro si rendevano conto che senza gli immigrati italiani certe
attività si sarebbero fermate.
Dopo
le violenze contro gli italiani nel famoso «Italiener-Krawall»
nell’estate del 1896 a Zurigo, molti immigrati cercarono di fuggire dalla
città. Furono i datori di lavoro a chiamarli indietro mentre si accalcavano
alla stazione in cerca di un treno che li portasse lontano. «Abbiamo bisogno di voi», dicevano, «cosa faremo senza
il vostro aiuto?». La stagione edilizia era appena iniziata e un blocco dei
cantieri avrebbe
significato una catastrofe non solo per il settore, ma anche per molti
affittacamere, bottegai, ristoratori. Molti italiani tornarono e tanti
restarono per sempre (cfr. Fiorenza Venturini, 1976).
Indispensabili come
«braccia», ma «Gastarbeiter», anzi «cìnkali»
Ritenendoli utili e talvolta
indispensabili, per certi impieghi molti datori di lavoro preferivano la
manodopera italiana a quella locale. Il calcolo era di estrema semplicità: gli
immigrati italiani non erano generalmente politicizzati, non creavano problemi,
erano più rapidi, più efficaci, rendevano di più e costavano meno degli
svizzeri.
Nel 1908, Gazzetta
Ticinese, un quotidiano liberale-radicale scriveva: «La ricerca
dell'elemento italiano è giustificata dalle doti oramai proverbiali di maggiore
energia produttiva e di maggior duttilità, per cui l'operaio italiano
rappresenta la macchina umana di maggior rendimento; fatto incontestabile,
riconosciuto ed ammesso da tutti, al quale si deve se gli industriali ne
tollerano molti difetti e ne sollecitano volentieri l'opera».
Lo stesso giornale citava
alcune testimonianze: «Recentemente la Direzione di un importante opificio, la
Vetreria di Monthey, si difendeva, sulla Gazzetta
di Losanna, dall'accusa di favoritismo verso gli operai italiani con queste
parole: “Come potrebbero vivere e sussistere le nostre industrie, le nostre
imprese edilizie o d'altro genere se dovessero occupare solo svizzeri?” E
l'ufficio d'assistenza del Cantone Argovia scriveva, or non è molto, che senza
gli operai italiani non si potrebbe costruire neppure una casa».
Non è certo un grande
riconoscimento ritenere il lavoratore italiano «la macchina umana di maggior
rendimento», ma il paragone indica bene un atteggiamento molto diffuso tra i
datori di lavoro svizzeri, che consideravano gli immigrati «macchine» o, come
si dirà più tardi «forze di lavoro», «braccia», trascurando quasi del tutto gli
aspetti umani. Un atteggiamento che farà dire con tristezza nel 1965 allo
scrittore svizzero Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia e sono venuti
uomini» e più tardi al politico e scrittore socialista svizzero Dario
Robbiani: «Ci chiamavano Gastarbeiter, lavoratori ospiti, ma eravamo
stranieri, anzi cìnkali».
In queste espressioni e in
questi atteggiamenti è condensata una parte consistente della storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera fino a pochi decenni orsono. Eppure, a
ben vedere, è soprattutto grazie al lavoro che gli italiani si sono affermati
in questo Paese. Già nell’Ottocento, quando gli italiani costituivano un
«problema», il lavoro, il buon lavoro serio e coscienzioso, li rendeva utili e spesso
indispensabili. Lavorando generalmente a cottimo, producevano più degli altri e,
secondo numerose testimonianze, erano anche ben pagati. Quanto bastava, però,
per suscitare invidia e odio da parte soprattutto di quegli svizzeri che non
reggevano la concorrenza, fino ad arrivare alla degenerazione degli attacchi
violenti di Berna (Käfigturmkrawall, 1893) e di Zurigo (Italiener-Krawall, 1896).
Secondo dopoguerra
difficile
Nel secondo dopoguerra, con
la forte ripresa dell’immigrazione dall’Italia (del nord), il lavoro italiano
venne ampiamente riconosciuto dall’economia svizzera. Fino ai primi anni ’60 i
datori di lavoro svizzeri erano molto soddisfatti degli italiani, sempre intesi
come «macchine di maggior rendimento», anche perché erano giovani e forti e non
creavano problemi con figli, famiglie, scuole, proteste, ecc. In seguito la
situazione, com’è noto, peggiorò, non solo perché i movimenti xenofobi erano in
crescita, ma anche e soprattutto perché, via via che l’immigrazione italiana
(ormai prevalentemente dal sud) aumentava, il rendimento diminuiva e cresceva
il disagio sociale tra due comunità che non si comprendevano, non si
frequentavano e talvolta si odiavano.
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Lino Guzzella, un «secondo», pres. del Politecnico fed. di Zurigo |
Le
condizioni di lavoro erano varie secondo
la grandezza dell’impresa, il tipo d’impresa, le esigenze della singola
impresa, il luogo di lavoro, il cantiere, la fabbrica, ma soprattutto secondo
le competenze professionali dei lavoratori. Molti datori di lavoro cominciavano
anche ad avere dubbi sulle capacità di molti operai italiani provenienti dal
sud e sulla possibilità di integrarli efficacemente nei processi produttivi.
Oltretutto erano preoccupati, in alcune grandi fabbriche, del clima di
contestazione che si stava creando ad opera di attivisti di sinistra
(comunisti) venuti appositamente dall’Italia.
Sulle condizioni di lavoro
nelle fabbriche i numerosi racconti dei protagonisti (lavoratori, datori di
lavoro, capi del personale, sindacalisti) sono difficilmente unificabili,
perché esistono troppe differenze tra piccole e grandi imprese, tra imprese con
una prevalenza di manodopera estera e imprese con pochi lavoratori stranieri,
tra lavoratori italiani provenienti del nord e lavoratori provenienti dal sud
Italia, ecc.
Volendo trovare qualche
tratto comune, si può ritenere, per esempio, che la stragrande maggioranza dei
lavoratori immigrati accettava qualunque lavoro, sia per non rischiare, in caso
di rifiuto, di restarne senza e sia perché gli italiani, come scriveva nel 1970
il sociologo Rudolf Braun, «sono venuti da noi per guadagnare e vivono
solo per il guadagno. Si può dire a un italiano che deve lavorare fino a
mezzanotte; egli lo fa senz’altro perché vede il tornaconto finanziario, ossia
il 25 per cento di paga in più per lo straordinario». Molti datori di lavoro se
ne approfittavano.
Un’altra caratteristica degli
italiani era la disponibilità a rendere di più se ben guidati e premiati (con
incentivi in denaro o in carriera), con una differenza: un italiano del nord
accettava difficilmente osservazioni sul suo operato ritenendo di saper far
bene quel che faceva; un italiano del sud, invece, consapevole della sua
impreparazione, era più disposto a lasciarsi guidare e consigliare con la
prospettiva di migliorare la sua posizione.
Dal cottimo al lavoro di
qualità
Molto spesso i racconti di
numerosi italiani contengono queste due osservazioni: il lavoro era molto duro,
ma generalmente era svolto senza lamentarsi. Ha scritto una immigrata lucana
riferendosi alla situazione vissuta agli inizi degli anni ‘60: «Era un lavoro
durissimo, pieno di polvere e in mezzo a un rumore frastornante, ma a me
piaceva. […] Per me dura, ma essendo partita da un piccolissimo paese, era
tutta un’altra vita con risvolti a suo modo interessanti: anche senza conoscere
il tedesco».
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Ignazio Cassis, un «secondo», consigliere federale |
Dagli anni ’80 in poi la
situazione dei lavoratori italiani cominciò a migliorare radicalmente, sia
perché i «vecchi» si erano ormai stabilizzati, e sia perché diventavano «attivi»
numerosi figli di immigrati del dopoguerra. La seconda generazione aveva
superato, nel complesso, le principali difficoltà dei genitori: non aveva particolari
problemi linguistici e scolastici e possedeva una formazione professionale
«normale» che la metteva al riparo da confronti insostenibili con i coetanei
svizzeri.
La diffusione della
formazione e della cultura in generale ha fatto sì che sul lavoro da qualche
decennio le differenze tra svizzeri e italiani si siano praticamente azzerate o
comunque minimizzate. Di fatto oggi gli italiani e gli svizzeri di origine italiana sono presenti in tutti i rami
professionali e a tutti i livelli, compresi quelli superiori, anche in politica.
La strada è stata lunga e,
per dirla con una lettrice, «quanti bocconi amari abbiamo dovuto mandar giù!»,
ma a ben vedere, ne è valsa anche la pena.
Giovanni Longu
Berna, 25.10.2017
Berna, 25.10.2017