19 agosto 2010

Aigues-Mortes come Berna e Zurigo, luoghi della memoria storica dell’emigrazione italiana

La cittadina francese della Camargue Aigues-Mortes (chiamata dagli antichi Romani «Aquae Mortuae» perché situata in un’ampia zona paludosa) è forse più nota a molti italiani come meta turistica estiva, che come borgo medievale fortificato da maestranze genovesi e da cui partirono ben due crociate e ancor meno come un luogo della memoria storica dell’emigrazione italiana in Francia.
Per chi non vuol dimenticare che gli italiani sono stati un popolo di migranti e che la vita da emigrato era continuamente a rischio, Aigues-Mortes ricorda una delle pagine più tristi della storia dell’emigrazione italiana, scritta col sangue nel mese di agosto di 117 anni fa.
Sul finire del XIX secolo dall’Italia si partiva in massa, soprattutto verso le Americhe e, nella buona stagione, verso alcuni Paesi europei, specialmente Francia e Svizzera, dove erano diffusi i lavori stagionali. In Svizzera erano soprattutto lavori di genio civile per la costruzione delle ferrovie, in Francia i lavori dell’agricoltura, dell’edilizia e altri.
Quando il lavoro era abbondante e ben retribuito c’era posto per tutti. Quando invece scarseggiava e i padroni tiravano giù le paghe il cosiddetto fronte operaio rischiava di rompersi e la solidarietà operaia predicata dai socialisti di scomparire. Ciò accadde spesso, sia in Francia che in Svizzera, dove si produssero anche episodi di estrema violenza.
In Francia, l’episodio più clamoroso accadde il 19 agosto 1893, quando nelle saline di Aigues-Mortes, la conflittualità latente tra operai italiani e francesi per questioni di produttività (lavoro a cottimo) e salari degenerò in una vera e propria aggressione fisica che lasciò sul terreno, secondo fonti ufficiali, 9 morti tutti italiani (molti di più secondo fonti giornalistiche). 
I francesi erano esasperati dal fatto che la Compagnie des salines di Peccais, in Camargue, aveva fatto arrivare dall’Italia circa seicento operai italiani e lasciato a casa altrettanti francesi. Per vendicarsi dell’affronto subito, una banda inferocita di diverse centinaia di persone si scatenò contro gli italiani, «colpevoli» di aver accettato di lavorare al loro posto, a cottimo e a una paga inferiore. 
L’eco di quella aggressione si diffuse in tutta Europa, ma soprattutto in Francia e in Italia, i cui rapporti diplomatici già tesi rischiarono di deteriorarsi. Da entrambe le parti si capì che bisognava rompere subito la spirale della violenza. Alla vibrata protesta dell’ambasciatore italiano, il governo francese rispose assicurando che sarebbe stata fatta la massima chiarezza sull’accaduto e che le famiglie delle vittime sarebbero state prontamente indennizzate. Per diverso tempo, tuttavia, il clima contro gli italiani restò teso. Nella regione di Aigues-Mortes si arrivò perfino a organizzare una petizione (poi respinta!) affinché fosse impedito alle imprese francesi di assumere non più del 10 per cento di operai stranieri. Una sorta di iniziativa popolare per contingentare l’afflusso di manodopera estera, anticipando di quasi settant’anni le iniziative antistranieri di Schwarzenbach e degli estremisti di destra svizzeri.
Dal 1893 ad oggi sono passati ben 117 anni e la memoria di quel triste episodio è affidata quasi unicamente ai libri di storia e agli archivi dei giornali dell’epoca. Credo perciò che sia stata una lodevole iniziativa di storici e rappresentanti istituzionali francesi e italiani l’aver organizzato il 24 luglio scorso a Grimaldi di Ventimiglia una «Giornata italo-francese di riconciliazione della memoria» sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 
In quell’epoca, gli episodi di violenza contro gli italiani erano all’ordine del giorno anche in Svizzera, sebbene non abbiano mai raggiunto l’efferatezza di quelli avvenuti nel sud della Francia. Alcuni di essi, in particolare uno a Berna, proprio nello stesso anno 1893, e uno a Zurigo, nel 1896, sono passati alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera come «Italiener-Krawall» (tumulti degli italiani), benché gli italiani fossero solo vittime e non aggressori.
Quello di Berna (19.6.1893) scoppiò tra gli operai edili per motivi salariali. Per ragioni di convenienza economica, un imprenditore aveva preferito gli italiani (che avrebbe potuto rimandare facilmente al proprio Paese in caso di disaccordi o proteste) agli svizzeri che erano meglio organizzati e pretendevano di più. Agli svizzeri sembrò uno sgarbo imperdonabile e attaccarono in massa gli italiani. Ne nacque una rissa furibonda, sedata solo dall’intervento della polizia e dell’esercito con decine di arresti.
Ben più grave fu il tumulto verificatosi tre anni più tardi a Zurigo. La goccia che fece traboccare il vaso fu un episodio criminoso: durante una rissa un immigrato italiano aveva ucciso a coltellate un compagno alsaziano che l’aveva insultato e provocato. In breve tempo si sparse la voce che ancora una volta un italiano aveva fatto uso del suo micidiale coltello e la massa degli antitaliani zurighesi sembrò che non aspettasse altro per mettere a ferro e fuoco tutto quanto sapeva di italiano. Così la notte del 26 luglio 1896 fu data una vera e propria caccia al «Tschingg» (uno dei numerosi termini dispregiativi con cui s’indicavano gli italiani). In pochissime ore vennero devastati ventidue locali d’italiani tra abitazioni, ritrovi, negozi, ristoranti situati in diverse zone della città. Per sedare il tumulto dovette intervenire l’esercito con la fanteria e la cavalleria. Per fortuna non ci furono morti. Gli italiani avevano dovuto abbandonare in massa la città.
Gli studiosi s’interrogano ancora oggi quali siano state le vere cause scatenanti non tanto dei disordini quanto piuttosto dell’odio verso gli italiani. Spesso si crede di individuare la causa principe nella xenofobia. Per altri si è trattato di episodi di una tipica guerra tra poveri. Difficile negare un po’ di ragione agli uni e agli altri. In realtà le cause vanno ricercate nel clima sociale e culturale degli ambienti coinvolti, in cui erano spesso carenti il senso della legalità e soprattutto la cultura del rispetto e della tolleranza reciproca. 
Berna, 19.8.2010

18 agosto 2010

Serate italiane a Berna


Alcune iniziative, organizzate a Berna nell’arco degli ultimi dodici mesi a livello istituzionale e privato, hanno cercato di mettere in evidenza una delle componenti fondamentali della società svizzera: l’italianità. Al riguardo, tuttavia, non si fa ancora abbastanza sia quantitativamente che qualitativamente. Le iniziative, soprattutto quelle incentrate su contenuti squisitamente culturali, sono poche e per lo più destinate a un pubblico scelto, i soliti addetti ai lavori. Mancano, tra organizzatori, soprattutto le sinergie che il tema meriterebbe.
Tra i promotori si distinguono alcune istituzioni svizzere (Cancelleria federale, Deputazione ticinese alle Camere federali, Biblioteca nazionale, Seminario d’italiano del’università di Berna), alcune istituzioni italiane (Ambasciata d’Italia, Cancelleria consolare, Centro Studi Italiani) e alcune associazioni che possono ancora contare su un certo numero, ormai non grande, di soci interessati (Comitato cittadino d’intesa, Pro Ticino, Pro Grigioni Italiano, Società Dante Alighieri, Missione cattolica italiana).
Da alcuni mesi è all’opera un gruppo di lavoro che intende costituire entro la fine dell’anno un’associazione con lo scopo preciso di organizzare periodicamente nell’ambito di Berna e regione manifestazioni culturali in grado di interessare un vasto pubblico di italofoni. La principale caratteristica di questa associazione, derivante direttamente dallo scopo per cui sta nascendo, sarà quella di mettere in evidenza, attraverso quattro o cinque «serate italiane» l’anno, la ricchezza storica, culturale e linguistica della componente «italiana» in Svizzera. Un’altra caratteristica fondamentale sarà quella di essere mista, in modo che rappresenti equamente almeno le due componenti italofone fondamentali, quella ticinese e quella di origine italiana.
Il perimetro di attività dell’associazione sarà inizialmente limitato a Berna (e per questo si è pensato alla denominazione provvisoria di Associazione serate italiane a Berna – ASIB) per ragioni organizzative, ma anche per motivi ideali. Berna è infatti non solo la capitale federale, garante della Svizzera pluriculturale e plurilingue, ma anche un potenziale centro d’irradiazione culturale per la presenza delle massime autorità federali e della massima rappresentanza diplomatica italiana, di numerose associazioni italofone e di una numerosa popolazione italofona.

Attività previste per quest’anno
Le prime «serate italiane» saranno organizzate già quest’anno nella sede della Casa d’Italia di Berna. Gli interessati possono annotarsi fin d’ora le date.
La prima serata (conferenza e dibattito), il 18 settembre 2010, avrà come tema: 1970-2010: Com’è cambiata l’immigrazione italiana in Svizzera. La relazione cercherà di rispondere anche con dati statistici alle domande seguenti: Come eravamo ai tempi dell’iniziativa Schwarzenbach? Come siamo? Quali sono state le ragioni principali del cambiamento?
La seconda serata (tavola rotonda e dibattito), il 15 novembre 2010, cercherà di analizzare i Rapporti tra ticinesi e italiani fuori del Ticino lungo tutto l’arco dell’immigrazione «ufficiale» italiana in Svizzera, quando anche molti ticinesi emigravano oltre il San Gottardo. I partecipanti alla tavola rotonda cercheranno di mettere in evidenza i motivi di unità e di conflittualità tra i due grandi gruppi di italofoni e a quali condizioni è possibile oggi trovare un denominatore comune per contribuire insieme alla valorizzazione della componente più latina, umanistica e italiana della Svizzera.
Maggiori dettagli sugli orari e sui temi delle due manifestazioni seguiranno in tempo utile.
Giovanni Longu

L’Italia e i veleni d’agosto

Non intendo entrare nel merito delle controversie che stanno logorando la maggioranza parlamentare italiana, perché sarebbe troppo facile riesumare il pensiero manzoniano dei Promessi Sposi, secondo cui la ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Ad un osservatore lontano dalla scena politica italiana, perché vive in Svizzera, non può tuttavia sfuggire che l’intera classe politica italiana non sta dando una bella immagine di sé, sia la parte che costituisce (ancora) la maggioranza e sia la parte avversa. Tant’è che, con un giudizio purtroppo sommario espresso da un lettore di un quotidiano ticinese, la situazione italiana appare a molti come di una «Italia allo sfascio».
Evidentemente l’Italia nel suo complesso ha mille risorse e sicuramente in una sorta di contabilità ideale gli attivi superano abbondantemente i passivi, ma non altrettanto credo si possa dire per la classe politica, sempre più casta e sempre meno servizio pubblico. Rincresce soprattutto che a prevalere siano soprattutto interessi di parte e una concezione opportunistica e individualistica della politica da parte di troppi galletti che riescono con le loro polemiche spesso pretestuose e i loro comportamenti a spargere veleni e oscurare quel bene che Parlamento, Governo e Magistratura riescono ancora a produrre. Non c’è dubbio, infatti, che anche solo riuscire a tenere in piedi un Paese schiacciato da un enorme debito pubblico e attraversato da mille pericoli rappresenta un buon risultato da non minimizzare.
Purtroppo, in Italia, certi politici sembrano incarnare solo una funzione disfattista e, privi di un sano equilibrio e incapaci di riconoscere quel po’ di bene che riesce a realizzare l’avversario, pur di vederlo finir male sono disposti persino a stringere alleanze col diavolo. Per giustificare le loro sfrenate ambizioni personali e anestetizzare la loro cattiva coscienza, molti politici si appellano a un senso di legalità e moralità che apparterrebbe a loro ma non agli avversari. Sono a mio parere cattivi politici perché indossando le vesti del magistrato (che magari anni addietro avevano appeso al chiodo) o addirittura le vesti del prete e del moralista usurpano funzioni che a loro non competono e dimenticano, anzi tradiscono, quella che dovrebbe essere la loro funzione principale: collaborare perché le istituzioni rispondano al meglio alle esigenze della società.

Rispetto della volontà popolare
Molti politici dimenticano anche che sono stati eletti «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», ossia per contribuire alla soluzione dei problemi del Paese e non per mettere continuamente i bastoni fra le ruote o addirittura per cercare di rovesciare con ogni mezzo il governo in carica. Questo non vuol dire che un gruppo parlamentare o l’intera opposizione non possa cercare di sostituire l’attuale governo con un altro ritenuto più idoneo. La Costituzione non lo esclude, come non esclude che un parlamentare eletto in uno schieramento possa passare in un altro. Infatti «ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (art. 67). Sotto questo profilo dunque non è affatto scandaloso ipotizzare in Parlamento una maggioranza diversa da quella attuale.
D’altra parte, non dovrebbe apparire scandaloso nemmeno ipotizzare il ricorso a nuove elezioni qualora l’attuale maggioranza dovesse venir meno. Non va infatti dimenticato che gli elettori non hanno eletto semplicemente singole persone da inviare in Parlamento, ma hanno scelto al tempo stesso schieramenti antagonisti e alternativi sul piano dei programmi di governo. Qualunque cambio di maggioranza che dovesse stravolgere anche i programmi di governo sanciti dai cittadini col voto libero e democratico non sarebbe accettabile perché a mio modo di vedere violerebbe il principio della sovranità popolare sancito all’articolo 1 della Costituzione.
Coloro che dalla mattina alla sera si riempiono la bocca appellandosi al bene comune per autogiustificare la propria mania di grandezza non si rendono conto (ma gli elettori dovrebbero tenerlo a mente al momento opportuno) che stanno tradendo letteralmente la volontà popolare che con le elezioni ha voluto una maggioranza e un governo per l’intera legislatura. Il rischio di dittatura in un Paese democratico non viene da chi si mantiene dentro il mandato ricevuto dagli elettori, ma da chi pretende di sostituirlo con un altro confezionato nelle cucine dei partiti o dei poteri forti.
Per una composizione delle attuali diatribe all’interno della maggioranza e tra questa e l’opposizione non vedo altra soluzione che quella di riferirsi prima ancora che alla Costituzione alla volontà popolare espressa con le elezioni politiche. In una democrazia compiuta questa volontà va considerata sacra e inviolabile e chiunque la violi, con pretese non previste né nell’elezione né nella Costituzione, dovrebbe essere privato del mandato di rappresentanza ricevuto.
Giovanni Longu