30 settembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 24. Formazione scolastica e integrazione

Negli anni Settanta del secolo scorso, uno dei problemi più seri e più difficili che gli immigrati italiani in Svizzera dovettero affrontare fu quello dell’integrazione scolastica. Il tema merita un approfondimento non solo per capire le difficoltà che adulti e giovani dovettero affrontare per scegliere con consapevolezza la scuola (pubblica o privata) da seguire, ma anche per misurare, almeno statisticamente, i risultati della scelta più comune, quella di frequentare la scuola pubblica svizzera.

Tradizione sfavorevole

Il grado di formazione degli immigrati italiani in Svizzera è stato tradizionalmente molto basso (rispecchiava la situazione in Italia) fino agli ultimi decenni del secolo scorso, ma non sembra che li impensierisse granché. D’altra parte venivano qui per lavorare e guadagnare, non per imparare le lingue e migliorare la loro cultura. Le poche iniziative volte a un recupero scolastico (corsi di alfabetizzazione e corsi serali) sorte nell’Ottocento e agli inizi del Novecento per iniziativa delle Società di mutuo soccorso e di altre istituzioni (specialmente le Missioni cattoliche) non avevano vita lunga per mancanza di mezzi (disinteresse dello Stato), di interesse e per la scarsa frequenza.

Una testimonianza, risalente alla fine del secolo XIX, descrive il fallito tentativo di una donna svizzera sposata con un italiano di creare un’associazione di donne italiane per sostenere i figli dei lavoratori immigrati in età scolastica. In un articolo dello statuto ancora in discussione era previsto che i genitori s’impegnassero a mandare regolarmente a scuola i bambini «puliti e ordinati». Quando venne discusso lo statuto, la maggioranza delle donne respinse quell’articolo; l’iniziatrice dell’associazione non era riuscita a convincere le donne italiane a prendersi questo impegno.

All’inizio del nuovo secolo la situazione non era migliorata. In un rapporto del 1903, quello che di lì a poco sarebbe divenuto il primo «Regio Addetto dell’emigrazione in Svizzera», Giuseppe De Michelis, scriveva: «Le ragioni per le quali le scuole italiane sono poche, o muoiono presto là dove vengono istituite, deve cercarsi nella mancanza di mezzi e nella incuria che gli emigrati hanno per l’istruzione. La stanchezza, il bisogno di riposo e di economia, li fanno rifuggire da tutte le altre cure. E restano analfabeti».

Dopo la seconda guerra mondiale il tasso di scolarizzazione in Italia migliorò notevolmente, raggiungendo quasi il 100 per cento della popolazione nelle classi d’età interessate (6-10 anni per la scuola elementare, 11-13 per la scuola media inferiore). Ciononostante, al censimento della popolazione del 1951 e del 1961 il livello scolastico degli italiani risultava ancora molto basso non tanto per le percentuali di analfabeti ancora significative, rispettivamente 12,9% e 8,3%, quanto soprattutto per la quota di italiani con la sola licenza elementare, attorno al 60,0%, e per le percentuali esigue di titolari di un diploma di scuola media superiore e di una laurea.

Gli immigrati in Svizzera del secondo dopoguerra riflettevano ancora la situazione generale italiana ed è facile immaginare le difficoltà incontrate negli anni Settanta dai loro figli alle prese con una scuola diversa e impegnativa, senza un valido sostegno familiare.

Idee contrastanti sulla scuola

Sono note, da numerose testimonianze e dall’ampia letteratura al riguardo, le dispute nelle associazioni italiane agli inizi degli anni Settanta sulla scuola che i piccoli italiani avrebbero dovuto seguire. L’alternativa era in apparenza semplice: scuola pubblica svizzera o scuola privata italiana (gestita soprattutto dalle Missioni cattoliche). In realtà per gli immigrati adulti chiamati a decidere la scelta era molto complicata anche perché, persino tra le autorità italiane, le idee non erano chiare, sebbene dalla seconda metà degli anni Sessanta cominciasse a delinearsi un orientamento favorevole alla scuola svizzera.

Fin dal dopoguerra il primo ambasciatore d’Italia in Svizzera, Egidio Reale, si era reso conto che la crescente popolazione italiana immigrata aveva bisogno di interventi scolastici e culturali statali orientati ad agevolare l’inserimento scolastico e professionale specialmente dei più giovani. Riteneva, per esempio, che si dovessero istituire corsi d’integrazione alla formazione ricevuta nelle scuole svizzere con l'insegnamento della nostra lingua e con nozioni di storia e di geografia italiana. Com’è noto, quella proposta non ebbe seguito e si dovrà aspettare il 1971 (con la legge 153) per l’istituzione dei corsi di lingua e cultura italiane per gli allievi delle classi della scuola obbligatoria.

Condizione preliminare per la riuscita scolastica era
l'apprendimento rapido della lingua locale (foto Cisap).
Nella prima metà degli anni Sessanta, mentre si discuteva un nuovo accordo d’emigrazione tra l’Italia e la Svizzera, venne sollevato forse per la prima volta in una sede ufficiale il tema della scolarizzazione dei figli dei lavoratori italiani, ma essendo la scuola di competenza cantonale e non federale nell’Accordo del 10 agosto 1964 non se ne fece cenno. Solo nelle «Dichiarazioni comuni» relative all’Accordo, la delegazione svizzera, a richiesta della delegazione italiana, confermò l’impegno delle autorità federali di raccomandare ai Cantoni l’adozione di «provvedimenti intesi a facilitare l’inserimento dei figli dei lavoratori italiani nelle scuole pubbliche svizzere».

Prima del 1971 sono state soprattutto le Missioni cattoliche ad organizzare vere e proprie scuole italiane, ritenendo di offrire un utile servizio alla comunità immigrata e nella presunzione di consentire a chi era già nel percorso scolastico di poterlo terminare in tempi normali e a chi lo iniziava di potersi poi inserire facilmente nel sistema scolastico italiano una volta rientrati in Italia con la famiglia di lì a pochi anni. Questa presunzione si rivelava però sempre più sbagliata perché la maggior parte dei ragazzi restava in Svizzera molto più a lungo del previsto.

Alcune associazioni italiane (per esempio la Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera), ma specialmente le autorità scolastiche locali si opponevano vigorosamente alle scuole italiane, pretendendo di far meglio gli interessi dei ragazzi scolarizzandoli in questo Paese, ma lasciandoli liberi di seguire i cosiddetti «corsi di lingua e cultura italiane» sovvenzionati dallo Stato italiano.

L’interesse dei bambini

I responsabili cantonali dell’istruzione non avevano dubbi: i bambini figli di immigrati nati in Svizzera o qui venuti in età scolastica dovevano essere inseriti nella scuola svizzera. Facile a dirsi, difficile a praticarsi. Le problematiche che si presentavano erano molteplici, tenendo presente il periodo di grande incertezza avviato dalle iniziative antistranieri e dalla crisi della metà degli anni Settanta, sebbene molti immigrati italiani avessero deciso di rientrare in patria con la famiglia a breve o nell’arco di pochi anni. Per questi bambini aveva senso essere inseriti nella scuola svizzera?

Anche le autorità cantonali e comunali si rendevano conto delle difficoltà di scelta e per alcuni anni si dimostrarono tolleranti e disponibili a qualche deroga. Vennero create commissioni d’esame dei singoli casi, furono studiate soluzioni ad hoc, da parte degli immigrati fu sollecitato ripetutamente l’intervento della politica, si discusse e si scrisse molto, ma era ormai chiaro a tutti che la scuola privata creata apposta per i figli degli immigrati italiani era ormai in fin di vita. Alcune voci critiche furono raccolte in un libro a cura di Adriano Baglivo: «Una scuola in agonia», a cura di.

L’Ambasciata d’Italia voleva essere conciliante. In un promemoria del 1970 al Dipartimento politico federale affermava che le autorità italiane erano «favorevoli all’inserimento dei figli dei lavoratori italiani nelle scuole svizzere», ma ribadivano «l’inopportunità di comprimere la libera scelta dei genitori italiani nei confronti della scuola per i figli, almeno nell’ambito delle iniziative esistenti». Inoltre, ritenendo molto probabile che un certo numero di ragazzi attualmente in Svizzera avrebbe completato in Italia la propria istruzione scolastica, l’Ambasciata proponeva che di studiare la possibilità di «introdurre nelle scuole elementari italiane adeguati corsi di lingua e cultura locale».

Intanto le scuole private una dopo l’altra chiudevano. Per alcuni si trattava di una fine naturale, perché quelle scuole avevano esaurito il loro compito e il loro tempo, di quando cioè la migrazione era «temporanea» e in continua «rotazione», mentre ora tendeva alla stabilizzazione e al radicamento. Per altri, invece, era una fine violenta e ingiusta perché ritenevano che il contesto non era cambiato e l’immigrazione italiana era ancora «temporanea» e «stagionale» e in ogni caso non spettava alla Confederazione «rendersi arbitra del destino dei nostri scolari» e «di decidere il loro futuro».

Nelle discussioni talvolta molto accese, anche tra immigrati, spesso si dimenticava che la scuola non serve per rafforzare principi o far contenti i genitori, ma dev’essere utile soprattutto ai diretti interessati per potersi inserire bene nella società in cui vivono e nella professione che andranno a svolgere. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 30.09.2020