Fino a pochi decenni fa, le generazioni dei
migranti italiani verso la Svizzera sono state quasi sempre caratterizzate da
importanti carenze di istruzione scolastica e di preparazione professionale. Lo
furono quelle del XIX secolo e inizio del XX, ma anche quelle del secondo
dopoguerra, pur con molte eccezioni. Solo in questi ultimi decenni si registra
un’immigrazione di persone con un livello medio-alto di formazione.
Situazione nel dopoguerra
All’inizio del secolo scorso, il commissario
all’emigrazione del Regno d’Italia Giuseppe De Michelis nel 1903
lamentava che tra gli italiani ci fossero molti analfabeti che non potevano
occuparsi dell’istruzione loro e dei loro figli. Una situazione analoga si
ripresentò nel secondo dopoguerra con l’immigrazione di massa prevalentemente
dal sud, sebbene il tasso di scolarizzazione avesse raggiunto nel 1950 in
Italia quasi il 100 per cento della popolazione. Ciononostante, tra gli
immigrati in Svizzera si contavano ancora nel 1970 numerosi analfabeti e per la
stragrande maggioranza (circa il 70%) la formazione si era fermata al grado
primario.
![]() |
Negli
anni Sessanta molti immigrati tornarono responsabilmente sui banchi di scuola... |
Allora l’economia svizzera richiedeva molta manodopera
anche non qualificata o poco qualificata e le conoscenze scolastiche e
professionali specifiche per molte attività non erano indispensabili. Del
resto, tutti riuscivano a convivere senza drammi con il proprio grado
d’istruzione e la non conoscenza della lingua locale. Anche gli analfabeti potevano
contare sull’aiuto di amici (spesso corregionali), delle Missioni cattoliche italiane
(MCI) e di qualche associazione.
Fin dalla metà degli anni Cinquanta, tuttavia,
alcune associazioni e lo stesso ambasciatore d’Italia Egidio Reale si resero
conto che la crescente popolazione italiana in Svizzera aveva bisogno di un
sostegno culturale da parte dello Stato italiano e di interventi scolastici strutturali
per rafforzare la lingua e la cultura italiane nelle seconde generazioni. Solo
nel 1971 si giunse ad approvare la legge 153 che istituiva i corsi di lingua e
cultura italiane.
![]() |
... e nei
laboratori/officine per apprendere un mestiere secondo le esigenze svizzere (Foto CISAP) |
Negli stessi anni Sessanta vennero organizzati
anche corsi orientati alla pratica professionale, corsi di taglio e cucito, di
cucina, di lettura del disegno tecnico, di muratura e, dalla seconda metà del
decennio corsi veri e propri, teorici e pratici, di formazione professionale
specialmente nei rami dell’edilizia e della metalmeccanica. La loro frequenza
era tuttavia alquanto limitata perché i corsi (per esempio quelli organizzati
dal Centro italo-svizzero di formazione professionale CISAP) richiedevano
costanza e impegno e molti immigrati pensavano di non avere nemmeno il tempo
necessario per seguirli, essendo intenzionati, così dicevano, a rientrare presto
in Italia.
Lo stimolo della seconda generazione
Il problema della formazione degli adulti
divenne drammatico negli anni Sessanta (specialmente dopo l’accordo
italo-svizzero d’immigrazione del 1964) quando emerse in tutta la sua gravità
il problema della scolarizzazione della seconda generazione in forte crescita.
Divenuti più facili fin dal 1960 i ricongiungimenti familiari, la seconda
generazione s’impose all’attenzione delle autorità svizzere e italiane,
dell’associazionismo e dell’opinione pubblica. I figli in età scolastica giunti
dall’Italia si sommavano ai bambini italiani nati in Svizzera (oltre 30.000
negli anni Cinquanta e più di 60.000 nella prima metà degli anni Sessanta)
sollecitando interventi inderogabili soprattutto in campo formativo.
Purtroppo né le autorità svizzere né le
autorità italiane avevano previsto questa vera e propria emergenza, ma
soprattutto molti genitori di questi bambini si trovarono impreparati ad
affrontare i problemi che sollevavano. Molti adulti si resero conto solo allora
dell’importanza di una buona istruzione scolastica, della conoscenza della
lingua locale e dei contatti con la popolazione indigena. Tra loro era
abbastanza diffuso anche un senso di frustrazione, dovuto alla costatazione di
non essere in grado di offrire ai loro figli alcun sostegno scolastico. Le
difficoltà incontrate, anche per questo, da numerosi fanciulli della seconda
generazione sono note e meritano di essere approfondite. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 24.07.2019
Berna, 24.07.2019