05 marzo 2025

1900: Monsignor Bonomelli e gli immigrati in Svizzera

Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non dovrebbe sfuggire a nessuno l’importanza dell’assistenza religiosa, sociale e umana fornita in continuità agli immigrati dai missionari giunti soprattutto dall'Italia. Essa fu importante non solo perché riguardò la vita individuale e collettiva di molte migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, ma anche perché cercò di dare dignità alla condizione migratoria e di elevare il livello di coscienza degli immigrati. Per rendersene conto basterebbe fare un semplice confronto tra la situazione negli ultimi decenni dell’Ottocento e quella attuale. Oggi non si parla quasi nemmeno più di immigrati (ma di italiani all'estero), allora erano operai in gran parte analfabeti, sfruttati, senza protezione e marginalizzati. Una delle prime persone che si sono particolarmente distinte nell'impegno a favore degli immigrati italiani in Svizzera è stato Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona e fondatore, nel 1900, dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa.

L’emigrazione dopo l’unità d’Italia

Geremia Bonomelli (1831-1914)

Col passare degli anni e col cambiamento radicale dell’immigrazione italiana in Svizzera si corre il rischio di dimenticare le condizioni lavorative, sociali e umane degli immigrati degli ultimi decenni dell’Ottocento. Ricordare le origini è invece utile e doveroso non solo per costatare i progressi realizzati in poco più di un secolo, ma anche per conoscere alcuni dei protagonisti che maggiormente vi hanno contribuito, impegnandosi con straordinaria dedizione e coraggio.

Quando mons. Geremia Bonomelli (1831-1914) fondò la sua Opera, gli emigranti italiani erano ancora diretti prevalentemente verso le Americhe, ma crescevano anche i flussi verso alcuni Paesi europei, specialmente Germania e Svizzera. Poiché la Chiesa sembrava occuparsi soprattutto dei primi - anche grazie ai missionari della Congregazione dei missionari di san Carlo Borromeo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza, e alle missionarie della Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondata da Francesca Saverio Cabrini (1850-1917) - e trascurare i secondi, ritenendoli emigranti «temporanei», il vescovo di Cremona decise di creare un’apposita organizzazione che si occupasse espressamente dei migranti in Europa. 

In questo articolo si parla soprattutto di monsignor Bonomelli, ma la sua figura può essere considerata emblematica degli sforzi che la Chiesa cominciava a intraprendere in favore delle migliaia di emigranti che ogni anno lasciavano l’Italia, attraverso un numero esiguo di persone che si prodigavano generosamente «per il bene dei migranti». Questa espressione molto comune esprime bene non solo l’obiettivo da mirare, ma anche l’attitudine dei missionari e delle missionarie nel conseguirlo, improntata all'altruismo, alla solidarietà, alla generosità, all'adeguatezza delle risposte in base a una conoscenza approfondita della situazione, soprattutto se problematica.

Sulla decisione di fondare l’Opera influirono non solo la considerazione evangelica di prestare attenzione e aiuto alle persone più bisognose e più fragili, ma anche la costatazione delle «brutture e ignominie» rivelate da un’inchiesta sulle condizioni degli operai italiani addetti ai lavori del traforo del Sempione (che metteva in evidenza, fra l’altro, «lo spettacolo di quelle infelici moltitudini accalcate in covi insalubri, prive di scuole, di ospedali, di assistenza religiosa, esposte ad ogni più malsana influenza»), ma anche l’intuizione che l’industrializzazione, le costruzioni ferroviarie e lo sviluppo economico dell’Europa avrebbero orientato diversamente i grandi flussi migratori.

Non solo assistenza religiosa

Gli inizi dell’Opera furono difficili, ma già alla fine del 1901 funzionavano i Segretariati (così erano chiamati i centri di assistenza dell’Opera) di Briga, Preda, Ginevra, Losanna, Friburgo, Berna, Basilea, Lucerna, Zurigo, Sciaffusa, San Gallo, e altri minori. I centri dove operare e le attività da svolgere erano decisi in base a sopralluoghi e attento esame della situazione, ma specialmente delle condizioni esistenziali degli immigrati.

Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905)
Per Bonomelli, infatti, l’assistenza non doveva limitarsi a quella religiosa, ma doveva dare risposte concrete possibilmente a tutte le esigenze dei lavoratori immigrati e delle famiglie che spesso li seguivano. Se gli interessava in primo luogo la conservazione e il consolidamento della fede e la pratica religiosa degli immigrati, gli stava molto a cuore anche il loro benessere materiale, morale e sociale. Per questo, nei centri maggiori come quelli di Briga, Preda, Kandesteg e altri, le attività erano molteplici perché dovevano rispondere ai molteplici bisogni degli immigrati riguardanti non solo la vita religiosa ma anche i rapporti sociali, la difesa della dignità umana e dei diritti dei lavoratori, il collocamento e i contratti di lavoro, la protezione dei ragazzi e delle ragazze minorenni, l’alfabetizzazione degli adulti e la scolarizzazione dei bambini, il disbrigo delle pratiche consolari, i problemi dell’alloggio e del vitto, ecc.

Quando l’Opera Bonomelli fu sciolta (1928), in molte città subentrarono gli Scalabriniani, che ne proseguirono l’attività e lo spirito, dando idealmente continuità anche alla profonda amicizia che legava Monsignor Bonomelli e monsignor Scalabrini. La loro amicizia è stata tramandata in uno scambio epistolare intenso e profondo. Ad unirli era non solo la stessa fede, ma anche la preoccupazione pastorale a favore degli emigranti italiani. Sono stati «due vescovi al cui cuore non bastò una diocesi (F. Baggio).

02 marzo 2025

Ricordo di Giorgio Cenni (1)

 

Nella notte tra l’8 e il 9 gennaio 2025 è deceduto in un ospedale di Genova per arresto cardiaco Giorgio Cenni, figura storica dell’immigrazione italiana in Svizzera. Da diversi anni risiedeva a Genova, ma gran parte della vita attiva l’aveva trascorsa a Berna. E’ stato ispiratore, anima e direttore geniale del CISAP (Centro italo-svizzero di formazione professionale) per quasi trent’anni e molti ex insegnanti ed ex allievi lo ricordano per le idee innovative, la forza d’animo con cui cercava di realizzarle e per i valori che riusciva a trasmettere. Fu un grande sostenitore della formazione professionale e del diritto degli immigrati alla cultura come fondamento della loro dignità, della loro integrazione sociale, del loro successo professionale.

Nel dare la triste notizia della scomparsa di Giorgio Cenni (1927-2025), mi ripromettevo di fornire di lui un ampio ritratto in un successivo intervento, nella convinzione che il personaggio lo meriti, essendo stato un autentico protagonista della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, avendo contribuito ad accentuare la dinamica del cambiamento radicale avviato negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Lo faccio volentieri non solo per la grande conoscenza che ho di lui in virtù della lunga frequentazione privata (famigliare) e professionale (quasi ventennale, al CISAP), ma anche per aver contribuito all’elaborazione di quella «filosofia» che ha orientato sempre le sue azioni, le modalità di approccio alle complesse realtà svizzere e italiane, la sua inesauribile progettualità, i tentativi di raggiungere i risultati sperati, le sue manifeste o velate ambizioni e frustrazioni.

Ovviamente i limiti di questo ritratto sono quelli dell’ambito professionale, anche perché è sotto questo aspetto che Giorgio Cenni è conosciuto e merita di essere ricordato in Svizzera. Non si tratta però di una biografia e ancor meno della storia del CISAP, che richiederebbero ben più ampio spazio, ma di un profilo sintetico di una persona che durante quattro decenni è stato oltre che un testimone del suo tempo, un sensibile interprete dei bisogni della società immigrata e un abile, serio e lungimirante creatore di opportunità per lo sviluppo qualitativo di migliaia di persone. Per maggiori informazioni sarà indicata alla fine di questi articoli una succinta bibliografia.

La notorietà di Giorgio Cenni è legata soprattutto al CISAP, un centro di formazione professionale molto particolare, che inizialmente ha rappresentato un modello e la direzione da seguire nel campo dell’integrazione professionale e sociale della popolazione immigrata, ma non va dimenticato che negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso Cenni è stato anche un protagonista influente della vita associativa, promuovendo incontri, associazioni, esposizioni, congressi e l’avvicinamento tra istituzioni e immigrati. E’ stato pure un pioniere convinto e lungimirante della collaborazione italo-svizzera in campo sindacale, sociale e professionale, aprendo in questo settore nuove vie e prospettive. Dei vari aspetti cercherò di seguito di evidenziarne solo alcuni, perché la ricchezza del personaggio e la contingenza di una breve presentazione non consentono di trattarli tutti con l’attenzione e la profondità che meritano.

Il debito della solidarietà

Giorgio Cenni venne a Berna nel 1957 per lavorare come meccanico qualificato in una grande fabbrica di telecomunicazioni di Berna, l’Hasler AG. Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera in quegli anni si registrava un numero crescente di «treni della speranza» che trasportavano in massa, dal Nord come dal Sud Italia, decine di migliaia di connazionali da impiegare soprattutto come manovali nell’industria e nell’edilizia svizzere, allora in grande sviluppo e avide di manodopera sia qualificata che senza alcuna qualifica. Lui, provetto meccanico e abile sindacalista, con una grande esperienza professionale alle spalle e la prospettiva di una discreta carriera nel settore meccanico, non tardò ad accorgersi che in Svizzera i connazionali esercitavano quasi unicamente funzioni subalterne e mal retribuite, attività di manovalanza in condizioni precarie e talvolta proibitive.


Cominciò subito a pensare che se solidarietà doveva esserci tra gli operai, una forma possibile ed efficace doveva essere quella di aiutare coloro che ne erano sprovvisti ad acquisire le conoscenze professionali necessarie per poter svolgere attività qualificate e sottrarsi alla totale dipendenza da chi le possedeva e al ruolo anonimo di semplice forza lavoro, relativamente a buon mercato e facile da spostare secondo i bisogni.

L’idea era semplice, la sua realizzazione tutt’altro che facile. Ma Giorgio Cenni non si sottrasse alla complessità dell’impresa che gli sembrava non solo utile ai futuri beneficiari, ma anche doverosa, per senso di solidarietà, per chi come lui aveva avuto l’opportunità, anche in tempo di guerra, di apprendere per bene un mestiere e di poterlo esercitare in seguito con profitto. Del resto, anche a Berna non erano pochi gli italiani giunti nei primi anni Cinquanta, soprattutto dalle regioni del Nord Italia, che nel frattempo si erano «impadroniti» del mestiere che esercitavano, acquisendo sul campo le basi teoriche e pratiche che normalmente si apprendono durante l’apprendistato. Proponendo loro in maniera convincente i progetti, probabilmente nessuno avrebbe negato il proprio contributo. Ma le variabili della riuscita dei corsi erano ancora molte e andavano esplorate con attenzione.

Per questo, come risulta dalla documentazione disponibile e da conversazioni private, in quegli anni Giorgio Cenni si attivò moltissimo per attrarre su quei progetti formativi il più ampio consenso possibile. Gli riuscì abbastanza facilmente ottenere l’apprezzamento dell’Ambasciata e del Consolato d’Italia, molto favorevoli a quel tipo di iniziative. Per sensibilizzare la collettività immigrata ricostituì (marzo 1961) insieme ad altri connazionali la Colonia Libera Italiana (CLI) di Berna (perché quella fondata nell’immediato dopoguerra si era praticamente sciolta), ritenendo che in quel momento solo le Colonie Libere (ancor più delle Missioni cattoliche italiane) erano in grado di ottenere ampi consensi tra gli immigrati.

Cenni se ne rese conto negli anni in cui presiedeva la commissione culturale della CLI, perché tutte le iniziative organizzate erano ben frequentate, dalle partite di calcio (della squadra Audax) agli spettacoli della filodrammatica, dalle conferenze ai corsi di lingua tedesca, ecc. E fu in questo ambiente così favorevole che Cenni organizzò i primi corsi o «corsetti» professionali (matematica, lettura del disegno, ecc.) sotto l’egida della CLI di Berna. La riuscita di ogni iniziativa generava nei dirigenti della Colonia e in particolare in Giorgio Cenni non solo soddisfazioni, ma anche la convinzione che per soddisfare i tanti bisogni degli immigrati si dovesse fare di più e meglio. Ad accrescerla contribuivano anche i numerosi attestati di stima della stampa locale, della radio e della televisione, il plauso delle autorità italiane, ma soprattutto le richieste dei lavoratori e l’interesse a quelle iniziative da parte dei sindacati, specialmente della FLMO.

A confermare le buone intenzioni di Giorgio Cenni nel campo della formazione professionale fu soprattutto la riuscita di un corso di telefonia particolarmente impegnativo, della durata eccezionale di ben quattro semestri, da tenersi in locali adeguati e in italiano. Per i locali si chiese ed ottenne la collaborazione della Gewerbeschule (scuola professionale) che li mise a disposizione e, per l’insegnamento in italiano, la direzione delle PTT fece venire appositamente dal Ticino un insegnante specializzato dal Ticino. Quel corso rappresentò un grande successo non solo per chi l’aveva frequentato, ma anche per gli organizzatori e la stessa Gewerbeschule, che ne trassero proficui insegnamenti. Soprattutto Cenni si convinse che per realizzare qualcosa di complesso e impegnativo erano indispensabili una struttura adeguata, una stretta collaborazione con le autorità sia italiane (già convinte sostenitrici di quelle iniziative) che svizzere (comunali, cantonali e federali), la partecipazione attiva della collettività italiana.


Man mano che le iniziative si moltiplicavano e il bisogno della formazione professionale emergeva chiaramente, cresceva anche il convincimento di Giorno Cenni che per dare risposte efficaci e durevoli la struttura adeguata necessaria non poteva essere garantita dalla CLI, fra l’altro molto caratterizzata politicamente e in alcuni ambienti sospettata di influenze comuniste. Per organizzare corsi all’altezza dei bisogni dell’economia allora in grande espansione e in piena trasformazione occorreva una struttura adeguata con locali non occasionali (tipo sale nei ristoranti), officine ben equipaggiate con macchinari e strutture idonee, insegnanti competenti e istruttori con grande esperienza, ma soprattutto il sostegno delle autorità sia italiane che svizzere e una stretta collaborazione del mondo sindacale. Ne parlava con tale entusiasmo, secondo una cronaca, che per chi lo ascoltava sapeva di utopia, ma alla fine riusciva a convincere anche i più scettici.

Le idee erano molto chiare, ma Cenni, realisticamente, non sottovalutava le difficoltà che la nuova struttura avrebbe probabilmente incontrato in fase di realizzazione, tanto più che all’interno della CLI di Berna cominciò a manifestarsi una certa tensione tra chi riteneva che la nuova struttura dovesse restare all’interno delle Colonie dov’era stata concepita e portata a maturazione e chi riteneva che occorresse fare un salto di qualità e la CLI non fosse in grado di farlo. La separazione divenne inevitabile. (Segue)