Nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera non dovrebbe sfuggire a nessuno l’importanza dell’assistenza religiosa, sociale e umana fornita in continuità agli immigrati dai missionari giunti soprattutto dall'Italia. Essa fu importante non solo perché riguardò la vita individuale e collettiva di molte migliaia di lavoratori e delle loro famiglie, ma anche perché cercò di dare dignità alla condizione migratoria e di elevare il livello di coscienza degli immigrati. Per rendersene conto basterebbe fare un semplice confronto tra la situazione negli ultimi decenni dell’Ottocento e quella attuale. Oggi non si parla quasi nemmeno più di immigrati (ma di italiani all'estero), allora erano operai in gran parte analfabeti, sfruttati, senza protezione e marginalizzati. Una delle prime persone che si sono particolarmente distinte nell'impegno a favore degli immigrati italiani in Svizzera è stato Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona e fondatore, nel 1900, dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa.
L’emigrazione dopo l’unità d’Italia
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Geremia Bonomelli (1831-1914) |
Quando mons. Geremia Bonomelli (1831-1914) fondò la sua Opera, gli emigranti italiani erano ancora diretti prevalentemente verso le Americhe, ma crescevano anche i flussi verso alcuni Paesi europei, specialmente Germania e Svizzera. Poiché la Chiesa sembrava occuparsi soprattutto dei primi - anche grazie ai missionari della Congregazione dei missionari di san Carlo Borromeo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza, e alle missionarie della Congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, fondata da Francesca Saverio Cabrini (1850-1917) - e trascurare i secondi, ritenendoli emigranti «temporanei», il vescovo di Cremona decise di creare un’apposita organizzazione che si occupasse espressamente dei migranti in Europa.
In questo articolo si parla soprattutto di monsignor Bonomelli, ma la sua figura può essere considerata emblematica degli sforzi
che la Chiesa cominciava a intraprendere in favore delle migliaia di emigranti
che ogni anno lasciavano l’Italia, attraverso un numero esiguo di persone che
si prodigavano generosamente «per il bene dei migranti». Questa espressione
molto comune esprime bene non solo l’obiettivo da mirare, ma anche l’attitudine
dei missionari e delle missionarie nel conseguirlo, improntata all'altruismo, alla
solidarietà, alla generosità, all'adeguatezza delle risposte in base a una
conoscenza approfondita della situazione, soprattutto se problematica.
Sulla decisione di fondare l’Opera influirono non
solo la considerazione evangelica di prestare attenzione e aiuto alle persone
più bisognose e più fragili, ma anche la costatazione delle «brutture e
ignominie» rivelate da un’inchiesta sulle condizioni degli operai italiani
addetti ai lavori del traforo del Sempione (che metteva in evidenza, fra
l’altro, «lo spettacolo di quelle infelici moltitudini accalcate in covi
insalubri, prive di scuole, di ospedali, di assistenza religiosa, esposte ad
ogni più malsana influenza»), ma anche l’intuizione che l’industrializzazione,
le costruzioni ferroviarie e lo sviluppo economico dell’Europa avrebbero
orientato diversamente i grandi flussi migratori.
Non solo assistenza religiosa
Gli inizi dell’Opera furono difficili, ma già alla fine del
1901 funzionavano i Segretariati (così erano chiamati i centri di assistenza
dell’Opera) di Briga, Preda, Ginevra, Losanna, Friburgo, Berna, Basilea,
Lucerna, Zurigo, Sciaffusa, San Gallo, e altri minori. I centri dove operare e
le attività da svolgere erano decisi in base a sopralluoghi e attento esame
della situazione, ma specialmente delle condizioni esistenziali degli immigrati.
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Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905) |
Quando l’Opera Bonomelli fu sciolta (1928), in molte città subentrarono gli Scalabriniani, che ne proseguirono l’attività e lo spirito, dando idealmente continuità anche alla profonda amicizia che legava Monsignor Bonomelli e monsignor Scalabrini. La loro amicizia è stata tramandata in uno scambio epistolare intenso e profondo. Ad unirli era non solo la stessa fede, ma anche la preoccupazione pastorale a favore degli emigranti italiani. Sono stati «due vescovi al cui cuore non bastò una diocesi (F. Baggio).
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