Recentemente Papa Leone XIV è intervenuto nuovamente per condannare le gravi violazioni del diritto internazionale e del diritto umanitario in nome di un «presunto diritto di obbligare gli altri con la forza», sebbene questo sia «indegno dell’uomo e vergognoso per l’umanità». Le allusioni ai conflitti in atto e ai loro responsabili sono evidenti. Ma anche al comune cittadino non sfugge che dietro ogni conflitto importante, specialmente in Europa e in Medio Oriente, si cela una drammatica e pericolosissima ripresa della «guerra fredda» tra Stati Uniti d’America e Russia. Sono già intervenuto più volte sul conflitto russo-ucraino e conto di intervenirvi ancora, anche se resta ben poco da aggiungere, se non augurarsi che finisca presto e i protagonisti siano coperti d’ignominia. È comunque difficile essere ottimisti perché sembra ripresa, pericolosamente, la «guerra fredda». In questo articolo desidero rievocare un anniversario rivelatore dei contrasti già esistenti sul finire della seconda guerra mondiale tra gli «alleati» statunitensi e sovietici: l’«operazione Sunrise».
L’operazione Sunrise: i fatti
Fin dal 1944 ai generali tedeschi appariva chiaro che non potevano combattere su tre fronti: ad ovest, a sud e ad est, per cui fu deciso di ritirarsi dal fronte meridionale. Le trattative segrete per la resa incondizionata delle forze armate tedesche (che contavano ancora circa 800.000 uomini) in Nord Italia furono avviate nella primavera del 1945 in Svizzera, a Berna, grazie alla mediazione di un nobile italiano, il barone Luigi Parrilli (1890-1954) e un ufficiale svizzero, Max Weibel (1901-1971), ma si svolsero prevalentemente nel Ticino (soprattutto a Lugano e ad Ascona), principalmente tra il generale tedesco Karl Wolff (1900-1984 ), comandante delle SS in Italia e Allen W. Dulles (1893-1969), capo dell'intelligence americana a Berna, convinto anticomunista e futuro direttore della CIA.
Da parte alleata si voleva la
resa incondizionata delle forze armate tedesche (che contavano ancora circa
800.000 uomini) in Nord Italia, da parte tedesca si chiedeva che il ritiro in
Germania dei tedeschi avvenisse ordinatamente senza spargimenti di sangue. In
cambio, i tedeschi garantivano (contravvenendo agli ordini di Hitler
di fare «terra bruciata») che non avrebbero distrutto il sistema industriale
del Nord Italia né compiuto violenze sui prigionieri
anglo-americani.
Come prova di buona fede, Wolff s’impegnò con Dulles a liberare due importanti prigionieri: Ferruccio Parri, vicecomandante del Comando generale dei Volontari per la Libertà, e Antonio Usmiani, ufficiale di collegamento del Regno del Sud. L’8 marzo 1945 Parri e Usmiani furono consegnati agli svizzeri. Poiché Hitler aveva intuito l'avvio di trattative senza un suo ordine, convocò d'urgenza Wolff a Berlino, che si giustificò asserendo di agire per dividere gli alleati. Questo gli salvò la vita.
Le trattative rischiarono tuttavia di arenarsi quando alla testa del Gruppo Armate tedesche in Italia al posto del feldmaresciallo Albert Kesselring fu nominato il generale Heinrich von Vietinghoff, che però condividendo i piani di Wolff, fece riprendere le trattative. Il 19 marzo fu concordato ad Ascona il cessate il fuoco e il 20 aprile 1945 il generale von Vietinghoff ordinò alla Wehrmacht il ripiegamento verso l'Alto Adige mentre le forze della Repubblica Sociale cercarono di ritirarsi in Valtellina (fuga terminata con la fucilazione di Mussolini).
Rievoco questo anniversario
non tanto per ricordare che allora in Svizzera, Paese neutrale, si svolgeva una
vasta attività di spionaggio internazionale e nemmeno per evocare il successo
di quegli incontri segreti, noti come «Operazione Sunrise» («Alba») che si
svolsero a Berna e nel Ticino, quanto piuttosto per evidenziare come già allora
i rapporti tra sovietici e statunitensi erano minati da una reciproca
diffidenza, paura e incertezza sul loro futuro, e che segnarono, secondo alcuni
studiosi, l’origine della «guerra fredda».
Origine della «guerra
fredda»
Secondo l’ex diplomatico e storico Sergio Romano, la speranza di Wolff, almeno nella fase iniziale dei colloqui, sembrava quella di riuscire a persuadere Dulles «che il vero nemico era l’Unione Sovietica e che le forze tedesche sarebbero state felici di schierarsi con gli Alleati contro la “minaccia bolscevica”». Già da questa percezione si può ben capire che l’alleanza tra anglo-americani e sovietici era tutt'altro che solida.
La conferma giunse proprio all'inizio del negoziato quando Churchill ritenne opportuno (in base agli accordi della Conferenza di Casablanca del gennaio 1943) di informare della trattativa i sovietici, ma gli americani si opposero alla partecipazione di tre ufficiali che il ministero degli esteri sovietico aveva già designato.
Gli americani ritenevano che
ai sovietici non dovesse interessare quel che succedeva sul fronte meridionale
in quanto le forze di liberazione in Italia erano principalmente
anglo-americane. In realtà agli anglo-americani non piaceva che i sovietici,
ormai vicini a Berlino, vi entrassero da soli mentre gli alleati occidentali ne
erano ancora lontani, e pertanto non sarebbe loro dispiaciuto se le divisioni
liberate dal fronte meridionale fossero state schierate sul fronte orientale,
come temevano i sovietici, e avessero contribuito così a rallentare l’avanzata
dell’Armata Rossa.
| Churchill, Roosevelt e Stalin. |
Sulla questione intervennero
direttamente anche Stalin, Roosevelt e Churchill,
protraendo notevolmente il negoziato fin quasi a vanificare l’operazione
«Sunrise», ma ormai era evidente che la loro alleanza era in crisi e finita la
guerra si sarebbe rotta definitivamente. Prima, però, gli americani,
consapevoli delle mire espansionistiche di Stalin e preoccupati delle sorti di
gran parte dell’Europa orientale, cercarono di far capire ai sovietici, che
soltanto gli USA erano la potenza dominante, la superpotenza.
Per darne un’evidente dimostrazione, non solo rifiutarono la
partecipazione sovietica all'operazione Sunrise e non rinunciarono subito dopo
la guerra al processo politico intentato al «padre della bomba atomica» Robert
Oppenheimer per presunte simpatie comuniste, ma non esitarono neppure a
gettare su Hiroshima e Nagasaki due bombe atomiche micidiali, provocando oltre
210.000 morti e 150.000 feriti, nonostante gran parte degli esperti militari
anche americani ritenessero i giapponesi in procinto di arrendersi. Così,
purtroppo, cominciava la prima «guerra fredda».
Giovanni Longu
Berna 26.10.2025
