19 dicembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 10. Osservazioni e suggerimenti conclusivi


L’italianità in Svizzera è non solo un valore costituzionalmente riconosciuto e irrinunciabile, ma anche una realtà diffusa su tutto il territorio nazionale. Eppure è sotto gli occhi di tutti che non sia sufficientemente valorizzata in tutti i suoi aspetti, alcuni dei quali, come l’italiano, addirittura in profonda crisi. Analizzarne le cause e il contesto generale mi è sembrato una condizione prioritaria per poter individuare rimedi e giustificare rivendicazioni adeguate.

Negli articoli precedenti ho cercato di mettere in luce il contesto storico ed evolutivo delle problematiche che ruotano intorno ad alcune espressioni tornate di grande attualità in questi ultimi anni come «italianità», «italofonia», «Svizzera italiana», «rappresentanza italofona» e simili. Ne è risultato che a parte l’espressione «Svizzera italiana», rimasta pressoché immutata nel tempo a causa del suo riferimento a un territorio ben definito, la portata delle altre espressioni ha subito un’evoluzione notevole. Altra costatazione è che la principale spinta a questa evoluzione soprattutto sul piano nazionale è dovuta all'immigrazione italiana.

Chiarezza di concetti e di linguaggio
Tener conto anche nel linguaggio di queste costatazioni è a mio modo di vedere una condizione pregiudiziale per affrontare seriamente qualsiasi discorso e qualsiasi rivendicazione importante riguardante l’italianità della Svizzera.
Negli articoli precedenti ho tentato di apportare alcuni elementi di chiarezza, richiamando ad esempio il contesto storico e la delimitazione geografica del concetto di «Svizzera italiana», ho cercato anche di individuare gli ambiti non coincidenti di validità delle espressioni «lingua nazionale» e «lingua ufficiale» come pure la non equivalenza dei termini «italofonia» e «italianità».
Solo a queste condizioni ritengo possibile superare «vecchi pregiudizi e incomprensioni … tra svizzeri e italiani e soprattutto tra ticinesi e italiani» e raggiungere tra tutti i protagonisti e simpatizzanti dell’italianità un’ampia convergenza di idee, di intenzioni e di azioni per migliorare la situazione e vincere qualche battaglia circa la visibilità e rappresentanza di una delle tre principali culture svizzere.
Anzitutto a livello di linguaggio occorre a mio avviso molta più attenzione di quanta ne sia stata prestata finora, soprattutto quando si rivendicano diritti e non si vuole correre il rischio di essere incompresi o addirittura mal compresi. Mi offrono lo spunto per le osservazione seguenti alcuni resoconti di eventi recenti che hanno avuto un’ampia copertura mediatica.
A scanso di equivoci desidero premettere che provo grande stima per quanti si prodigano in favore dell’italianità e contribuiscono con prese di posizione, manifestazioni, petizioni o rivendicazioni a far crescere nell’opinione pubblica la consapevolezza che la salvaguardia dell’italofonia e dell’italianità è nell’interesse di tutti. Ciò premesso, il mio auspicio è che tanti sforzi non siano privati dei risultati sperati a causa di una vaghezza di linguaggio penalizzante o di obiettivi poco chiari e verosimilmente irraggiungibili.

Tavola rotonda all’USI
Manuele Bertoli
Nel corso di una tavola rotonda tenutasi all’Università della Svizzera italiana (USI) l’8 settembre scorso, il consigliere di Stato Manuele Bertoli ha ricordato molto opportunamente che «l’italiano non è la particolarità di una regione, ma una parte costitutiva del DNA della Svizzera federale» (cito da un resoconto dell’evento). Non altrettanto chiare mi sembrano invece le conclusioni a cui è giunto, per cui l’italiano dovrebbe diventare «davvero la terza lingua ufficiale e la Svizzera italiana non sia penalizzata nella Berna federale». Poiché non credo che s’intenda mettere in dubbio che per la Confederazione l’italiano sia una lingua ufficiale, tanto varrebbe precisare quel che si contesta e quel che si vorrebbe.
Non mi pare meglio definito e realizzabile l’obiettivo suggerito dal prof. Stefano Prandi, ossia l’«elvetizzazione» e l’«internazionalizzazione» dell’italiano, «ovvero la necessità di sottolinearne la dimensione di lingua nazionale e ufficiale…». Resta infatti da vedere come andrebbe fatta questa elvetizzazione e con quali strumenti. Inoltre andrebbe chiarita una volta per tutte la portata dell’espressione «lingua ufficiale», alla luce della Costituzione federale e della legge sulle lingue, soprattutto per non generare aspettative illusorie.

Giornate di Basilea sull’italiano
Sulle problematiche dell’italiano in Svizzera sono state organizzate anche due giornate di studio a Basilea dal 16 al 17 novembre 2012. Ne è risultata una petizione assai generica al Consiglio federale perché prenda «le misure necessarie» per combattere il «lento ma progressivo deprezzamento dell’italiano in Svizzera» in «netta violazione della Costituzione della Confederazione Svizzera ai sensi degli art. 4, 18 e 70 e della nuova Legge federale sulla lingue nazionali». Nulla vien detto, purtroppo, circa le misure concrete che il Consiglio federale dovrebbe prendere e in virtù di quali leggi.
Poiché si è parlato anche dei corsi di lingua e cultura finanziati finora in massima parte dallo Stato italiano (ma non si sa fino a quando), mi sarei aspettato qualche indicazione concreta su quel che dovrebbero fare i Cantoni (e i Comuni) svizzeri per integrarli nell’offerta ordinaria della scolarità obbligatoria, visto che per costituzione e per legge spetta soprattutto ai Cantoni promuovere il plurilinguismo nella scuola. Perché non si cerca di risolvere in via definitiva questo problema fondamentale per l’italofoni e l’italianità?

Forum per l’italiano in Svizzera
Alla fine di novembre è stato costituito a Zurigo il «Forum per l’italiano in Svizzera» su iniziativa del Consiglio di Stato ticinese. Giustamente i media hanno sottolineato l’importanza dell’evento, che ha coinvolto praticamente la quasi totalità dei protagonisti dell’italofonia e ha suscitato grandi speranze. Anche in questo caso ritengo tuttavia fondamentale che per ottenere i risultati sperati si metta in campo una strategia basata sulla chiarezza e sulla concretezza.
Regioni linguistiche della Svizzera (2000)
Leggendo alcuni articoli di stampa e i documenti presentati al Forum ho avuto purtroppo tutt’altra impressione già a partire dall'obiettivo del Forum: «Nel 2020 la Svizzera non dovrà più essere una nazione di fatto bilingue (d/f)». Non è infatti chiaro cosa s’intenda qui per «nazione» (termine sconosciuto alla Costituzione federale). Se s’intende la Svizzera come Paese, l’espressione suona fuorviante perché la Svizzera è sicuramente «plurilingue» e non bilingue, a prescindere dalla diffusione e dall’impiego delle varie lingue. Se invece s’intende la Confederazione come organizzazione politica della Svizzera, quell’espressione sembra alludere al fatto che effettivamente l’amministrazione federale è piuttosto bilingue che trilingue. In questo caso, tuttavia, l’obiettivo del trilinguismo perfetto appare utopistico perché in contrasto con la tendenza alla semplificazione (anche linguistica), all’efficienza e alla sostenibilità dei costi.
Tanto varrebbe, a mio parere, individuare alcuni obiettivi meglio precisati e più realistici, ad esempio nei campi della rappresentanza degli italofoni (e non solo degli «svizzero italiani») nell'amministrazione federale, del promovimento del plurilinguismo (come, dove, con quali mezzi?), dell’offerta dell’italiano nelle scuole obbligatorie e post-obbligatorie, della strategia da adottare per far maturare nella politica e nell'opinione pubblica l’idea della ragionevolezza e dell’opportunità di un italofono in Consiglio federale, ecc.

Intergruppo parlamentare «Italianità»
So che in questa strategia un compito importante è stato assegnato all’intergruppo parlamentare «Italianità», che ha già raccolto molte adesioni. Credo che stia operando bene «per dare visibilità alla Svizzera di cultura italiana, promuovendo attività a favore di questa componente essenziale del Paese». Mi chiedo se, proprio in vista di questi obiettivi, non sarebbe opportuno assegnare una copresidenza o vicepresidenza a un parlamentare non proveniente dalla Svizzera italiana e addirittura aprirsi a gruppi, istituzioni, personalità della società civile, con un’operazione analoga, per fare un esempio storico, a quella compiuta negli anni Settanta del secolo scorso dalla Commissione federale consultiva degli stranieri.

In conclusione
Non credo che esistano ricette risolutive dei problemi che pone lo stato di salute dell’italiano e dell’italianità in Svizzera. Per questo occorre muoversi in varie direzioni, raccogliendo e coordinando tutte le forze disponibili, rivendicando tutto ciò che è rivendicabile in base alla Costituzione, alle leggi e al principio di opportunità, valorizzando ovunque sia possibile la lingua e la cultura italiana e contribuendo ciascuno secondo le proprie capacità a far crescere nell'opinione pubblica la consapevolezza che l’italianità in questo Paese è un bene prezioso e irrinunciabile. (Fine. Il primo articolo di questa serie è apparso il 3.10.2012. Gli altri sono apparsi a ritmo settimanale).
Giovanni Longu
Berna 19.12.2012

12 dicembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 9. I consiglieri federali e l’italianità


Chi conosce anche solo sommariamente la storia e l’organizzazione della Confederazione sa bene che il governo (Consiglio federale) è stato voluto dai costituenti in una posizione nettamente più debole di quella riconosciuta al Parlamento (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati), quale organo supremo di rappresentanza della volontà del popolo e dei Cantoni svizzeri. Per di più,  il Consiglio federale, titolare del potere esecutivo, è un organo collegiale senza nemmeno un presidente con poteri superiori a quelli degli altri membri del Collegio.
Alla luce di questa impostazione fondamentale, si può ben capire perché il Consiglio federale, nemmeno all’interno dell’amministrazione federale goda di poteri sovrani e tutto sia regolato da leggi, ordinanze e istruzioni varie, che limitano fortemente la discrezionalità dei singoli consiglieri federali a capo dei vari Dipartimenti. Non voglio dire che essi o gli alti dirigenti dell’amministrazione non abbiano poteri decisionali importanti o il potere d’influire sulla nomina dei principali collaboratori, sulla politica del personale in genere, sulla scelta dei progetti e sull’assegnazione delle risorse, ma sicuramente non bisogna esagerarne la portata.

Legittimità della rivendicazione italofona
In questa ottica, l’elezione di un consigliere federale dovrebbe essere depurata da aspettative esagerate. Invece, da sempre attorno ad ogni elezione ruotano molteplici interessi di parte, quali l’appartenenza a questo o quel partito, a questo o quel Cantone, a questo o quell'orientamento (persino religioso, in altri tempi), a questa o quella regione linguistica. Spesso a prevalere non sono gli interessi generali più importanti, ossia quelli indicati nella Costituzione federale, specialmente il criterio dell’appartenenza linguistica e culturale.
Da questo punto di vista trovo legittima la rivendicazione degli italofoni di una rappresentanza italofona in Consiglio federale e la delusione ogniqualvolta viene negata. E’ forse impossibile individuare quali siano le vere ragioni di ogni esclusione, ma una ragione potrebbe essere che non esistono a tutt'oggi regole precise per garantire tale rappresentanza. Sta di fatto che finora, ossia fino a qualche settimana fa, dopo le innumerevoli discussioni che si sono svolte nell'arco di 165 anni, il problema della rappresentanza italofona nel Consiglio federale non è stato ancora risolto.
Eppure basterebbe ripensare alla storia delle elezioni dei consiglieri federali italofoni per capire che esistono ragioni sufficienti per assicurare anche all'italianità visibilità e rappresentanza costanti in Consiglio federale. E’ illuminante soprattutto l’elezione del primo consigliere federale italofono Stefano Franscini.

Perché Franscini?
Anzitutto va ricordato che la prima discussione sul numero dei consiglieri federali si è avuta in seno alla Dieta (l’assemblea dei rappresentanti dei Cantoni) prima della stesura definitiva della prima Costituzione federale (1848). Nella proposta iniziale si parlava di cinque membri, ma la maggioranza dei rappresentanti cantonali decise di aumentarne il numero a sette (e tale è rimasto fino ad oggi). Questo numero, a quanto sembra, fu scelto per motivi di efficienza nei compiti da svolgere e per dare qualche possibilità in più di esprimere un consigliere federale anche ai piccoli Cantoni.
Inoltre è bene ricordare che la Costituzione appena approvata all’art. 109 dichiarava che «le tre lingue principali della Svizzera, la tedesca, la francese e l’italiana sono lingue nazionali della Confederazione», sancendo così la natura plurilingue e pertanto anche pluriculturale della Svizzera e l’uguaglianza delle stesse lingue e relative culture. Di qui la conseguenza, ovvia, di inserire nel primo Consiglio federale almeno un rappresentante di ciascuna componente linguistica e culturale, dunque anche il ticinese Stefano Franscini (1848-1857).
Una prima considerazione su questa elezione è che essa, in quel momento storico, dovette apparire del tutto normale (anche se avvenuta solo al terzo turno di scrutinio con un solo voto oltre il minimo richiesto), perché sarebbe apparsa una sorta d’ingiuria sacrificare in nome della maggioranza tedescofona e francofona la rappresentanza italofona e una violazione palese del plurilinguismo sancito nella Costituzione.
Una seconda considerazione, conseguente alla precedente, mi porta a ritenere del tutto secondario, agli occhi dei parlamentari di allora, il fatto che Franscini fosse «ticinese», rispetto alla sua caratteristica principale di «italofono». Era infatti esclusa una scelta diversa in quanto allora la quasi totalità degli italofoni si concentrava nel Ticino. Certamente non si volle riconoscere (né allora né mai anche in seguito) una sorta di privilegio al Cantone Ticino e, del resto, nemmeno questo, riteneva di avere diritti particolari di rappresentanza. Tanto è vero che alla scadenza del mandato, i ticinesi non rielessero Franscini nel Consiglio nazionale, pur sapendo che questa era la condizione per mantenere il seggio in Consiglio federale. Poté continuare l’opera iniziata a Berna solo grazie all’elezione come deputato del Cantone di Sciaffusa.

Italofoni per interessi nazionali
1° Consiglio federale (1848)
Franscini è stato l’apripista dei consiglieri federali italofoni, ma ha avuto un solo immediato successore, Giovan Battista Pioda (1857-1863). Questi venne eletto certamente per le sue qualità personali, ma anche, probabilmente, per continuare una rappresentanza italofona ritenuta indispensabile in uno Stato che intendeva consolidare la sua fragile identità e coesione nazionale e non da ultimo perché sembrava la personalità più adatta per assicurare buoni rapporti con il vicino Stato nascente italiano. Tanto è vero che una volta lasciato il Consiglio federale, Pioda fu nominato rappresentante della Svizzera presso il Regno d’Italia, incarico che mantenne fino alla sua morte nel 1882.
Indubbiamente a monte sia dell’elezione di Franscini che di Pioda ci stavano interessi nazionali che sopravanzavano di gran lunga qualsiasi interesse particolare: l’interesse a dare del Consiglio federale un’immagine adeguata del Paese reale, che non poteva prescindere né dalla sua composizione interna plurietnica, plurilinguistica e pluriculturale né dalla necessità di coltivare buoni rapporti con i grandi Paesi confinanti, dei quali si condivideva in buona parte la lingua e la cultura.

Discontinuità dopo Pioda
Purtroppo a Pioda non seguì nessun altro italofono fino al 1911, quando venne eletto Giuseppe Motta (1911-1940). Difficile spiegare come mai, per così tanto tempo, la maggioranza parlamentare, in rappresentanza della maggioranza del popolo svizzero, non ritenne indispensabile la rappresentanza italofona. Invano a più riprese tra il 1870 e il 1874, nel 1892, 1899 e 1909 si discusse nelle Camere federali circa la necessità o l’opportunità di aprire la porta del Consiglio federale a un italofono, eventualmente ampliando il numero dei consiglieri federali.
E’ interessante osservare che in tutta la storia dei dibattiti parlamentari in cui si trattò della questione della rappresentanza italofona, soprattutto in occasione di proposte di revisione della composizione del Consiglio federale (praticamente dal 1913 ad oggi), non mi è mai capitato di trovare un solo intervento da cui si possa ricavare che la lingua e la cultura italiane in questo Paese per importanza o dignità siano ritenute secondarie.
Evidentemente le ragioni dell’esclusione per periodi più o meno lunghi di un italofono dal Consiglio federale risiedono altrove e andrebbero ricercate e ben spiegate. Sono infatti convinto che, prese una per una, non basterebbero a vanificare il principio secondo cui un organo, per quanto collegiale ma alquanto rappresentativo, non possa o peggio non debba rappresentare anche un’area linguistica e soprattutto culturale che è riconosciuta di pari valore e dignità dalla stessa Costituzione.

Prepararsi è bene, ma come?
Per assicurare una tale rappresentanza, non bisognerebbe tuttavia aspettare l’eccezionalità dei tempi come nel caso di Franscini e Motta e persino di Nello Celio (1966-1973) e Flavio Cotti (1986-1999), ma bisognerebbe disporre anche delle persone giuste al momento giusto. Una condizione questa, più facile a dirsi che a verificarsi, come dimostrano le numerose candidature non andate a buon fine dalle dimissioni di Cotti a oggi.
Consiglio federale 2012
Non so quanto sia possibile in un sistema politico complesso come quello svizzero pianificare o preparare le successioni, ma ritengo, da semplice osservatore, indispensabile che nel campo degli italofoni si chiariscano e definiscano le priorità, verificando anche la coerenza e la significatività del linguaggio. E’ facile infatti, leggendo interventi parlamentari od opinioni sui giornali, riscontrare numerose confusioni (giusto per citare due esempi, tra italofonia e italianità, rappresentante italofono e rappresentante ticinese), quanto basta per far sospettare chi magari al plurilinguismo o alla uguaglianza di valore tra le lingue nazionali e le culture ha già rinunciato.
Una maggiore precisione andrebbe forse inserita anche all’articolo 175 della Costituzione federale, se si vuole davvero assicurare la rappresentanza delle tre principali lingue e culture di questo Paese, a prescindere dal numero dei membri del Consiglio federale.
Giovanni Longu
Berna, 12.12.2012

28 novembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 8. La questione linguistica


La lingua italiana, al momento della costituzione dello Stato federale nel 1848, era ben poca cosa nel panorama linguistico svizzero, non solo nei confronti della lingua dominante, il tedesco, ma anche di quella francese, parlata in tutti i Cantoni della Svizzera occidentale. L’italiano era concentrato nel sud della Svizzera, prevalentemente in un solo Cantone, il Ticino. Nel resto della Svizzera solo pochi intellettuali ed ecclesiastici conoscevano l’italiano appreso nei viaggi nelle grandi città d’arte e di cultura italiane.
Lo stato di esigua minoranza su scala nazionale ha pesato molto sull'integrazione del Ticino nella Confederazione e sul peso dell’italiano a livello federale. Basti pensare che solo nel 1917 il Consiglio federale istituisce un segretariato di lingua italiana in seno alla Cancelleria federale e dall'anno seguente cominciano ad apparire in italiano estratti del Foglio federale, ossia il bollettino d’informazione ufficiale della Confederazione. 
Fino ad allora, dal 1848, solo le leggi federali venivano tradotte e raccolte nella Collezione sistematica, oggi Raccolta ufficiale delle leggi federali. Fu in seguito all'insistenza dei deputati ticinesi che, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, l’offerta di pubblicazioni in italiano cominciò ad ampliarsi, fino alla fine degli anni ’80, quando il Consiglio federale, soprattutto per iniziativa del consigliere federale Flavio Cotti, decise di rendere l’italiano il più possibile equivalente alle altre due lingue ufficiali tedesco e francese.

Per difendere l’italiano, aguzzare l’ingegno
Michele Fazioli
Oggi, nell’ambito pubblico federale, resta ancora molto da fare, ma molto è stato fatto, sotto il profilo linguistico. Altro discorso è quello della rappresentanza degli italofoni soprattutto ai piani alti delle gerarchie dell’amministrazione federale. Se una decina di anni fa il deputato Fulvio Pelli definiva la situazione «quasi drammatica», negli anni seguenti altri non hanno esitato a togliere il «quasi». Guai, però, sembrava ammonire nel 2005 il noto giornalista Michele Fazioli, piangersi addosso nel ricordo di anni (ad es. il 1991) in cui il presidente della Confederazione era Flavio Cotti, il direttore della SSR Antonio Riva, il vicecancelliere Achille Casanova, il delegato per le celebrazioni del 700° della Svizzera Marco Solari, presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa Cornelio Sommaruga. Avrebbe potuto ricordare anche altri prestigiosi rappresentanti italofoni a capo di importanti uffici federali, ma avrebbe solo contribuito ad alimentare la desolazione. Voleva invece ammonire che «una lingua non la si difende per decreto ma mediante la dolce prepotenza della sua immaginosa affermazione». Per difendere l’italiano bisognava, secondo lui, «aguzzare l’ingegno, portare gli uomini migliori oltre Gottardo, fabbricare cose, progetti, idee e non farci provincialmente male tra noi».
La situazione sommariamente delineata nel settore pubblico è un po’ lo specchio della situazione nel settore privato. Negli articoli precedenti si è visto quanto il Ticino stesso, unico Cantone italofono, ha dovuto lottare per salvaguardare la propria identità linguistica e culturale, anche quando, dopo l’elezione in Consiglio federale di Giuseppe Motta (dicembre 1911) tutta la stampa locale pensava che quell’evento segnasse la definitiva «riconciliazione tra il Ticino e la patria svizzera». In realtà, secondo lo storico Silvano Gilardoni, «placatasi l’esaltazione e smorzatasi l’ebbrezza di retorico e magniloquente patriottismo, la situazione del Ticino tornò ad essere quella di prima».
Il disagio era anzi destinato a crescere, almeno fino alle Rivendicazioni ticinesi degli anni ‘20. Basterebbe leggere quel che scriveva nel 1912 la Tessiner Zeitung, il giornale degli svizzeri tedeschi in Ticino, di fronte all’accusa di rifiutare di assimilarsi rivolta dai ticinesi ai confederati che si stabilivano nel loro Cantone. Il giornale respingeva l’accusa e asseriva che, come i ticinesi hanno il diritto di difendere la propria razza e la propria lingua «contro la maggioranza del popolo svizzero», così gli svizzeri tedeschi rivendicano lo stesso diritto nei confronti della maggioranza linguistica del Ticino. Evidentemente la realtà era ben diversa dalla teoria dell’uguaglianza delle lingue nazionali proclamata dalla Costituzione.

Il principio di territorialità: è da rivedere!
A parere di molti osservatori, il principio della territorialità che condiziona qualsiasi politica linguistica in questo Paese, è purtroppo difficilmente superabile, perché inevitabilmente senza di esso le lingue minoritarie si sentirebbero minacciate. E, si badi bene, non si tratta di un principio teorico, ma molto concreto. Poche settimane fa si poteva leggere su alcuni media la risposta che molti svizzeri tedeschi davano ai romandi che si lamentano dell’uso esagerato dello Schwyzerdütsch: «i romandi dovrebbero imparare lo svizzero-tedesco». C’è qualche Comune svizzero che sottopone gli aspiranti alla naturalizzazione a un test di comprensione del dialetto locale. E pochi giorni fa, durante la sessione giovanile del Parlamento, sembra che al momento della valutazione delle proposte per la comunicazione presentate da ciascun gruppo nella sede della Swisscom, i giovani svizzero tedeschi non abbiano votato la proposta dei ticinesi perché non l’avevano capita e non si erano muniti delle cuffiette per la traduzione simultanea (!).
Esempi, che confermano quanto il plurilinguismo sia contrastato dal principio di territorialità, che di fatto tende a escludere o a minimizzare, persino nella pratica scolastica abituale, tutte le lingue (o le lingue più deboli) diverse da quella del territorio. Molti osservatori sono convinti che l’applicazione (troppo rigida) di questo principio sia da riesaminare. Non c’è dubbio che di questo principio si è avvalso il Ticino per frenare la «tedeschizzazione» di alcune aree del Cantone, ma non c’è dubbio alcuno che su scala nazionale ha nuociuto e continuerà a nuocere, se non interverranno dei correttivi, alla salvaguardia dell’italiano nella Svizzera tedesca e nella Svizzera francese.

Evoluzione dell’italiano in Svizzera
Qualche accenno all’evoluzione dell’italiano su scala nazionale può essere illuminante per capirne la sua importanza. Rispetto alla situazione iniziale al momento della costituzione dello Stato federale (1848), l’italiano non ha subito grandi variazioni fino al 1880, ossia fino a quando ai ticinesi si sono aggiunti gli immigrati italiani. Da allora (1880: 5,7% sulla popolazione residente) l’italiano come lingua principale è progredita incessantemente (salvo una leggera flessione nel 1888: 5,3%) fino al 1910 (8,1%). Nel periodo tra le due guerre la percentuale di italofoni è diminuita a causa delle partenze e dei minori arrivi di italiani (1920: 6,2%, 1930: 6,0%, 1941: 5,2%). Nel secondo dopoguerra ha ripreso la crescita, incessante, fino al picco registrato nel 1970 (11,9%), per poi ridimensionarsi gradualmente fino al livello del 2000 (6,5%).
L’evoluzione altalenante dell’italiano in Svizzera rispecchia non solo i vari periodi dell’immigrazione italiana, ma anche la sua diffusione. Tanto è vero che il picco raggiunto agli inizi degli anni ’70 corrisponde al punto massimo raggiunto dalla collettività italiana e anche alla sua massima diffusione sul territorio. Praticamente in tutti i Cantoni, dal dopoguerra in poi, si costituirono comunità in cui la lingua usata abitualmente era l’italiano. Per almeno un trentennio, fino al censimento del 2000, in quasi tutte le grandi città la seconda lingua parlata era l’italiano, tanto nella Svizzera tedesca che nella Svizzera francese. Dagli anni Sessanta in moltissimi Comuni svizzeri vengono ancora organizzati corsi di lingua e cultura italiane per migliaia di allievi della scuola obbligatoria, finanziati dallo Stato italiano. Nelle
città, la scuola secondaria superiore ha inserito molto spesso l’italiano nei corsi di maturità ed è senz'altro preoccupante che questa offerta si stia sempre più riducendo. Le università, fino a pochi anni fa, potevano contare su un cospicuo numero di allievi italofoni. In breve, l’italiano era non solo una lingua parlata o almeno ben conosciuta da circa un milione di persone, ma costituiva una sorta di «lingua franca» per molti lavoratori non italiani e, soprattutto, si alimentava sui banchi di scuola di ogni ordine e grado, grazie soprattutto al sostegno del governo italiano.

Attenzione: l’italianità non coincide con l’italofonia
A ben guardare, la diffusione massiccia dell’italiano negli anni ’70 e ’80, non era però dovuta solo alla presenza di lavoratori italiani in tutte le attività economiche, ma anche alla diffusione su vasta scala di attività legate all’italianità in senso largo (comprendente, oltre alla lingua, riferimenti specifici all’arte, al cinema, alla moda, alla gastronomia, allo sport, al senso della famiglia, al bel canto, a un sistema di valori e comportamenti tipici di una lunga tradizione italiana). Per oltre un ventennio, l’italianità ha sicuramente contribuito a diffondere l’italiano, ma una maggior conoscenza dell’italiano ha sicuramente contribuito alla diffusione e al consolidamento dell’italianità in tutta la Svizzera. Si è cioè verificato un fenomeno che meriterebbe grande attenzione: mentre l’italofonia, per le ragioni ben note, è sicuramente in crisi (rispetto ai tempi di massima diffusione), l’italianità non lo è affatto, perché è divenuta una componete fondamentale dell’esistenza di questo Paese.
Achille Casanova
Del resto, già nel decennio passato, alcuni osservatori della fase calante dell’italiano facevano notare la non coincidenza tra italofonia e italianità. Giusto per citarne uno, mi piace ricordare il vicecancelliere Achille Casanova, che pur denunciando il «rischio di estinzione» dell’italiano, nel 2005 ricordava: «se la condizione dell’italiano in Svizzera è insoddisfacente, non significa che l’italianità stia altrettanto male. Al contrario. Io credo che in Svizzera l’italianità sia più che mai in voga. E non penso soltanto al cinema, alle canzoni, all’opera o al teatro, bensì anche alla moda italiana, ai prodotti italiani, che riscuotono grande successo da noi, e, non da ultimo, alla cucina italiana».
Giovanni Longu
Berna, 28.11.2012

21 novembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 7. Contributo italiano all'italianità della Svizzera


L’italianità della Svizzera trova la sua piena legittimazione nel diritto federale fin dalla prima Costituzione del 1848. All'articolo primo, il Ticino figura tra i Cantoni del nuovo Stato federale. Più precisamente, secondo questo articolo, «le popolazioni dei ventidue Cantoni sovrani costituiscono nel loro insieme la Confederazione Svizzera», quindi anche la popolazione di lingua e cultura italiana del Ticino. Più che giustificato, dunque, l’articolo 109, che riconosce l’italiano tra le lingue nazionali della Confederazione.

Dal 1848 l’italianità della Svizzera è stata sempre confermata e meglio precisata sia a livello costituzionale che legislativo e amministrativo. Va da sé che non basta un articolo costituzionale o una serie di leggi e ordinanze per far vivere una lingua e una cultura, ma la base giuridica è essenziale per qualsiasi intervento dello Stato anche in campo linguistico e culturale. Ciò premesso, non è stato facile e non lo è nemmeno adesso realizzare nelle istituzioni e nella vita ordinaria la consapevolezza dell’italianità come uno dei valori nazionali e identitari della Svizzera moderna.

Garanzie e pratica dell’italianità
Per quasi un secolo, nemmeno per il Cantone Ticino è stato facile salvaguardare la propria identità linguistica e culturale italiana, ma la convinzione e la costanza nelle rivendicazioni alla fine sono state premiate. Oggi l’italianità dei ticinesi è assolutamente garantita perché l’articolo primo della Costituzione della Repubblica e Cantone Ticino non lascia dubbi quando afferma: «il Cantone Ticino è una repubblica democratica di cultura e lingua italiane».
Con la stessa convinzione e costanza dovrebbe essere rivendicata una garanzia analoga, certamente non esclusiva, dell’italianità anche fuori del Cantone Ticino e dei Grigioni italiani. Alcuni principi costituzionali e leggi federali garantiscono un minimo di presenza dell’italiano e della cultura italiana nell’amministrazione federale e nei rapporti degli italofoni con gli organi federali. Negli altri ambiti, anche pubblici, a livello cantonale e comunale, le garanzie mancano o sono insufficienti, ad esempio a livello scolastico. La vitalità dell’italiano e dell’italianità non sono generalmente facilitate e molto è lasciato al libero apprezzamento delle istituzioni.
Finora la diffusione e la valorizzazione dell’italianità in tutte le sue forme sono state assicurate fuori dei territori italofoni principalmente dagli immigrati italiani in Svizzera e dai loro discendenti di seconda e successive generazioni, comprese le sempre più numerose persone naturalizzate, ma che hanno conservato legami con la cultura italiana e magari anche la nazionalità. Al di fuori dell’ambito istituzionale, il contributo dei ticinesi all’italianità su scala nazionale è stato piuttosto modesto e proporzionale alla loro consistenza numerica fuori del Cantone, sempre piuttosto modesta.
Italianità in crescita dopo il 1870
Prima del 1870, quando il territorio dell’italianità era limitato essenzialmente al Ticino e alle quattro vallate italofone dei Grigioni con una popolazione complessiva di poco più di 120.000 persone, le rivendicazioni dell’italianità sono state condotte principalmente dai ticinesi, anche perché i «regnicoli» erano ancora pochi e ininfluenti. Dall’inizio dei lavori della galleria ferroviaria del San Gottardo (1872), che ha visto affluire in Svizzera decine di migliaia di lavoratori italiani, grazie ad essi l’italianità nelle sue svariate forme ha cominciato ad espandersi in tutto il Paese. Nel 1900 gli italiani presenti in Svizzera erano oltre 117.000 e superavano addirittura la popolazione complessiva ticinese di nazionalità svizzera, compresi i circa 10.000 ticinesi sparsi nei vari Cantoni (Berna, Grigioni, Zurigo, Friburgo, ecc.).
Da allora, fuori del Ticino, l’italiano e la cultura italiana sono stati supportati soprattutto dai cittadini italiani, compresi quelli con la doppia cittadinanza. Da qualche tempo, però, in concomitanza con l’indebolimento della parte italiana (in seguito ai numerosi rientri, all’invecchiamento demografico, all’integrazione e alle naturalizzazioni, al minor impegno finanziario dello Stato italiano, ecc.), la componente ticinese si dimostra sempre più attiva. In questi ultimi anni è cresciuta soprattutto l’attenzione delle istituzioni pubbliche ticinesi ai problemi dell’insegnamento dell’italiano e alla valorizzazione della cultura italiana. E’ certamente di buon auspicio l’intraprendenza delle autorità cantonali che stanno dimostrando di prendere molto sul serio l’impegno costituzionale del Cantone Ticino di essere «fedele al compito storico di interpretare la cultura italiana nella Confederazione elvetica» (dal Preambolo della Cost. TI del 1997). Ma forse non basta. La salvaguardia dell’italianità deve passare soprattutto attraverso una maggiore sensibilizzazione e un maggiore coinvolgimento del mezzo milione e più di italiani presenti nella Confederazione.
Bisogna assolutamente evitare che il patrimonio linguistico e culturale accumulato dagli italiani in centocinquant'anni di presenza in Svizzera s’impoverisca eccessivamente, senza nemmeno tentare di salvarlo e consegnarlo alle prossime generazioni. Alcuni dati e fatti potrebbero aiutare a farsi un’idea del contributo italiano all'accumulo di questa ricchezza entrata a far parte di diritto, grazie anche al sostegno dei ticinesi, del patrimonio culturale e ideale della Svizzera.

Italiani i protagonisti principali
Tutto è iniziato, ufficialmente, con l’accordo del 1868 tra la Svizzera e il Regno d’Italia, che in pratica sanciva la libera circolazione degli italiani e degli svizzeri nei due Stati firmatari, ma è praticamente solo a partire dai grandi lavori ferroviari della seconda metà dell’Ottocento che gli italiani arrivano in massa nella Confederazione. Se la prima immigrazione si fermava soprattutto nel Ticino e nei Grigioni, dal 1872 si stabilisce soprattutto oltre Gottardo.
Monumento di V. Vela  in ricordo ricordo delle
 vittime della Galleria del San Gottardo
Come già ricordato, nel 1900 gli italiani residenti stabilmente (esclusi quindi gli stagionali) nella Confederazione sono già oltre 117.000. Dieci anni più tardi, nel 1910, superano la soglia delle 200.000 persone, sempre senza contare gli stagionali. Il loro numero diminuisce col rientro in Italia di molti immigrati richiamati alle armi per la guerra e riprenderà solo lentamente a conclusione del conflitto. Sotto il fascismo l’emigrazione è controllata e frenata. Ciononostante, nel 1930 circa 100.000 italiani risultano domiciliati stabilmente in Svizzera.
La loro crescita, impressionante, ricomincia subito dopo la guerra. L’immigrazione italiana è facilitata e sollecitata, forse per la prima volta nella storia contemporanea, dalle autorità svizzere dietro richiesta degli ambienti imprenditoriali e col consenso delle organizzazioni sindacali. Già nel 1946 sono messi a disposizione degli italiani decine di migliaia di permessi di lavoro e di soggiorno. Nel 1947 i permessi sono portati a oltre 126.000, un numero considerevole che l’Italia non riesce a utilizzare completamente: solo 105.112 furono effettivamente i permessi rilasciati a causa della lenta e farraginosa burocrazia italiana del dopoguerra.
Nel 1960 la collettività italiana residente stabilmente in Svizzera è di 346.223 persone, nel 1970 raggiunge quota 583.850 prima di toccare il massimo storico tre anni più tardi, nel 1973, con 584.299 persone (fonte italiana). Da quel momento i flussi immigratori dall’Italia si attenuano sempre più e il saldo tra arrivi e partenze diviene sempre più negativo.

Non solo braccia, ma anche cervello e cuore
Pierre Aubert
Un riflesso della presenza italiana è l’espansione della lingua italiana, inizialmente concentrata al Ticino e alle vallate italofone dei Grigioni, poi sempre più diffusa in tutta la Svizzera. Se nel 1941 interessava il 5,2% della popolazione residente, nel 1950 la sua proporzione sale al 5,9%, nel 1960 al 9,5% e raggiunge il massimo storico nel 1970 sfiorando il 12% (esattamente: 11,9%).
L’aspetto linguistico, che sarà esaminato separatamente, è un buon rilevatore non solo della presenza degli italofoni (in massima parte italiani), ma anche della diffusione della cultura italiana. E’ difficile quantificare quanto di questa cultura sia entrato a far parte del patrimonio culturale svizzero e del vissuto svizzero, ma dev’essere stato tanto e non mi pare esagerato affermare che ha contribuito a trasformare la società svizzera in molti aspetti fondamentali (comportamenti, filosofia di vita, fede religiosa fino a capovolgere le proporzioni tra protestanti e cattolici, nutrizione, modi di vestire, ecc.). «La Svizzera non sarebbe quella che è senza il contributo degli italiani» diceva nel 1978 il consigliere federale degli esteri svizzero Pierre Aubert. L’affermazione può essere sottoscritta, credo, ancora oggi.
Allievi di elettronica in una scuola per stranieri (CISAP)
Gli immigrati italiani, chiamati soprattutto come «manodopera», ossia per i lavori manuali, insieme alle braccia portavano con sé anche cuore e cervello. Hanno saputo organizzare la loro vita in una miriade di associazioni, scuole, giornali, radio locali, servizi sociali, chiese, negozi, ristoranti. Hanno saputo reagire, insieme a molti svizzeri, alle odiose campagne xenofobe, si sono inseriti, lentamente ma decisamente, nelle organizzazioni sindacali locali e persino nei partiti politici, hanno dato soprattutto un forte incremento all’economia del Paese col loro lavoro e con un’efficiente imprenditoria.
Vorrei ricordare, giusto per dare un’idea, di questo vasto e ricco contributo, che al censimento federale della popolazione del 2000 risultavano in Svizzera tra i cittadini italiani: 22.500 dirigenti nel solo settore terziario, oltre 600 giornalisti e redattori, 100 traduttori, 1200 artisti dei vari settori, oltre 1600 insegnanti di cui 276 professori o assistenti universitari, circa 4000 tra medici, assistenti e personale sanitario, ecc. ecc.
Oggi, italiani e ticinesi sono presenti praticamente in ogni attività pubblica e privata e ad ogni livello. Manca solo un italofono nel massimo organo esecutivo dello Stato ed è una grossa ferita per l’italianità di questo Paese, da sanare il più presto possibile. (Continua).
Giovanni Longu
Berna, 21.11.2012

14 novembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 6. Contributo italiano all’italianità del Ticino

Dopo le «Rivendicazioni ticinesi» del 1924, reiterate anche negli anni seguenti, la Confederazione si rese certamente conto delle particolari esigenze economiche e culturali del Cantone Ticino, ma anche dell’impossibilità di risolvere a Berna i problemi ticinesi, soprattutto in campo economico. Nel sistema federalistico svizzero, la Confederazione interviene solo in base al principio di sussidiarietà. Spettava dunque al Cantone fare i primi passi, ma il Ticino si muoveva ancora lentamente, per mancanza di risorse ma anche d’iniziative valide.Ci vollero parecchi decenni prima che il Ticino potesse avvicinarsi agli standard degli altri Cantoni e della Lombardia. In questo sforzo di avvicinamento il contributo italiano fu notevole non solo come forza lavoro, ma anche come imprenditori e finanziatori di opere

Immigrati e imprenditori italiani
La manodopera italiana divenne una componente indispensabile dell’economia ticinese fin dall'inizio dei lavori della ferrovia del San Gottardo (1872). Nel 1908 il quotidiano del partito conservatore ticinese Popolo e Libertà cominciò a preoccuparsi non tanto per la forte presenza dei «forestieri» italiani («ogni quattro abitanti vi è un suddito di Vittorio Emanuele»), quanto per il loro tasso di crescita, perché «la popolazione indigena, in 12 anni, è scemata di 2287 anime, mentre i forestieri sono aumentati di 12.174!». Intanto gli italiani erano divenuti indispensabili.
Questi forestieri costituivano infatti, nel 1911, quasi la metà degli operai di fabbrica perché, giova ricordarlo, molti ticinesi preferivano ancora, come nell'Ottocento, l’emigrazione al lavoro in fabbrica, sebbene le destinazioni non fossero più la Lombardia o le Americhe, ma la Svizzera interna dove le condizioni di lavoro e di salario erano migliori. E ad emigrare non erano solo muratori, artigiani ed operai, ma anche imprenditori in cerca di mercati più favorevoli. Sicché, almeno fino agli anni Trenta del secolo scorso, il Ticino non aveva personalità imprenditoriali capaci di rilanciare l’economia del Cantone.
L'apporto italiano (soprattutto lombardo) all'economia ticinese non fu solo di manodopera, ma anche di imprenditoria e finanziario. Già nel 1847 esuli politici lombardi avevano dato vita, insieme ad alcuni ticinesi, alla «Fabbrica di tabacchi in Brissago». Un altro esempio d’imprenditoria lombarda in territorio ticinese fu la fabbrica di linoleum di Giubiasco, avviata nel 1905 da una società milanese. Persino nell’attività tipicamente ticinese dell’estrazione del granito, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, molte imprese erano state fondate da italiani. Addirittura, secondo lo storico R. Ceschi, «i proprietari delle cave erano in gran parte ex scalpellini italiani che si erano improvvisati impresari contraendo debiti, oppure confederati che avevano fiutato buoni affari con le pietre ticinesi; gli imprenditori locali erano solo quattro o cinque sopra una cinquantina».
Anche la storia della Banca della Svizzera Italiana (BSI) – oggi in mano al gruppo assicurativo italiano Generali e purtroppo in vendita (!) - è riconducibile a capitali italiani. Poco dopo la sua fondazione a Lugano nel 1873, la BSI entrò nell'orbita della Banca Commerciale Italiana, che ne fece una sorta di filiale estera utilissima, soprattutto tra le due guerre e durante la seconda guerra mondiale, per gli affari internazionali. Ma oltre alla BSI, anche altre società finanziarie e industriali con sede in Ticino dipendevano in larga misura dalla Commerciale.

Una presenza costante e attiva per l’italianità
La presenza italiana in Ticino è cresciuta in tutte le sue forme nel secondo dopoguerra ed è tuttora la componente demografica straniera più numerosa e più integrata, anche se gli attriti con i ticinesi non sono rari.
Il contributo maggiore gli italiani l’hanno dato tuttavia nel rafforzamento dell’identità linguistica e culturale dei ticinesi. Anche senza tener conto dell’integrazione naturale fra i due elementi fondamentali, quello ticinese autoctono e quello esogeno italiano, che comunque affondano entrambi le proprie radici in una matrice linguistica e culturale comune, non c’è dubbio che nella lunga battaglia per il riconoscimento dell’italianità del Ticino gli italiani sono stati sempre a fianco dei ticinesi.
In certi momenti l’elemento esogeno poteva sembrare (e forse lo era davvero) interessato in una visione vagamente irredentista, ma non credo che l’abbia mai danneggiato. Mi riferisco soprattutto agli anni tra il 1908 e il 1912 (quando venne proposta la creazione di una sezione ticinese della Dante Alighieri e di una «Università Ticinese») e al periodo fascista (in cui si tentò persino di sostituire l’espressione tradizionale di «Svizzera italiana» con quello di «Italia svizzera»).

L’apporto degli antifascisti
Proprio in quest’ultimo periodo il livello di consapevolezza dell’italianità autonoma dei ticinesi crebbe notevolmente. Forse anche per reazione all'aggressività fascista, si rafforzò ovunque sia il senso di appartenenza all'entità politica svizzera e sia l’appartenenza alla cultura italiana. A questa crescita pure hanno contribuito non pochi italiani. Infatti, grazie all'apertura delle autorità ticinesi e alla generosità della popolazione nell'accogliere migliaia di esuli antifascisti, e nonostante alcune restrizioni alla libertà di stampa imposte dalle autorità federali, molti di essi contribuirono ad arricchire con i loro articoli tutti i giornali ticinesi dell’epoca e a stimolare prestigiose iniziative culturali quali il Premio di Lugano, la rivista di cultura «Svizzera italiana», in cui scrissero anche profughi del calibro di Luigi Einaudi, Franco Fortini, Mario Fubini, Bruno Caizzi, ecc. Un altro illustre «emigrato» in Svizzera di quel periodo fu il giornalista e direttore del Corriere della Sera Eugenio Balzan, alla cui memoria è dedicato il prestigioso riconoscimento italo-svizzero «Premio Balzan» di un milione di franchi, che alcuni ritengono addirittura più prestigioso del Nobel.
Nel 1945, il Ticino contava poco più di 160 mila abitanti (il 3% della popolazione svizzera). Alle prese con una povertà strutturale riusciva a dare lavoro solo a 75 mila persone. Per l’eccedenza di manodopera restava aperta solo la via dell’emigrazione (soprattutto stagionale) e molti ticinesi l’intrapresero sino agli anni ‘50 in direzione dei grandi centri di Zurigo, Berna, Losanna, Ginevra, ecc. dove si aggiunsero agli immigrati italiani nelle attività edili.

Contributo al miracolo economico ticinese
Negli anni ‘50, tuttavia, nel Ticino si avviò un formidabile sviluppo economico, che ha fatto dimenticare in poco tempo secoli di arretratezza. Molti hanno pure dimenticano che anche in questo sviluppo il contributo italiano fu notevole. Ci vollero, è vero, generose agevolazioni fiscali per le nuove imprese, nuove capacità imprenditoriali e una volontà politica decisa a portare il Cantone a un livello d’industrializzazione e di prosperità vicino a quello del resto della Svizzera, ma ci vollero anche molta manodopera italiana, imprenditori italiani e forse soprattutto ingenti capitali italiani. Giusto per citare un esempio, una delle prime grandi imprese a creare occupazione in Ticino fu la Monteforno di Bodio-Giornico (siderurgia), avviata nel 1946 da imprenditori italiani con capitali, tecnici e operai italiani.
Nei decenni seguenti, si è assistito in Ticino a una sorta di miracolo economico che ha visto un notevole incremento industriale, una forte espansione dell’edilizia nei centri urbani e nelle località di villeggiatura, la realizzazione di grandi impianti idroelettrici, l’ampliamento e l’ammodernamento della rete ferroviaria e autostradale, lo sviluppo dell’offerta turistica, artistica e culturale che danno al Ticino valenza e rinomanza internazionali, l’espansione persino eccessiva della piazza finanziaria, un diffuso benessere per una popolazione in forte crescita, anche grazie all'immigrazione.
Oggi, nell'opinione pubblica ticinese è quasi scomparso il ricordo delle condizioni di un tale sviluppo e del contributo italiano, in una sorta di autoesaltazione che tende a valorizzare una non ben definita «ticinesità» piuttosto che l’«italianità», come se si volesse una totale emancipazione della figlia dalla madre.

Italianità come «Weltanschauung»
Per decenni non si è nemmeno tentato di definire o quantomeno descrivere l’«italianità» del Ticino e della Svizzera e solo di recente si cerca faticosamente di ricuperare il tempo perduto, anche perché si sente più acuto che mai il bisogno di una maggiore visibilità e rappresentanza dell’italianità a livello federale. Un’italianità, ormai, che va ben oltre la «ticinesità» e la stessa Svizzera italiana perché diffusa e attiva su scala nazionale.
Recentemente si fa strada, anche nel linguaggio politico, quella che a mio modo di vedere è la chiave interpretativa dell’italianità più appropriata, ossia il sentimento di appartenenza alla cultura italiana e che il senatore Filippo Lombardi ha descritto qualche mese fa, come una «componente culturale, una sensibilità politica, una Weltanschauung  istituzionale che unita alle altre fa la forza e la ricchezza di questo Paese, così particolare e unico al centro dell’Europa».
Mi risulta che anche altri politici ticinesi, a cominciare da Ignazio Cassis, copresidente dell’intergruppo parlamentare «Italianità», si muovono ormai in questa direzione, pur senza rinnegare la loro «ticinesità», ma superandola in un contesto culturale e identitario nazionale. Non c’è dubbio, infatti, che tradizionalmente, a livello identitario svizzero non è tanto significativa l’appartenenza a questo o a quel Cantone, ma l’appartenenza a una delle tre maggiori culture europee che trovano una sintesi politico-istituzionale nella Confederazione Svizzera. (Continua)
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2012

Emigrati italiani: li abbiamo chiamati… e sono venuti!


Mi riferisco al titolo del volume di Paolo Barcella: Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra, pubblicato della Fondazione Pellegrini-Canevascini (cfr. CdT del 9.11.2012, p. 40). Non avendo letto il libro, non entro nel merito e prendo solo lo spunto dal titolo, che trovo a prima vista fuorviante e infondato. Esso infatti suggerisce l’idea che nel secondo dopoguerra gli italiani si siano precipitati in massa alle frontiere con la Svizzera in cerca di lavoro e addirittura che questa ricerca di un lavoro sia la caratteristica di tutti «gli emigrati italiani in Svizzera del secondo dopoguerra». Ritengo questa idea del tutto o in massima parte infondata.
Basterebbe infatti ricordare che durante la guerra le frontiere della Svizzera erano chiuse e quando, alla fine del conflitto, furono riaperte, i controlli erano strettissimi. Nemmeno gli italiani, nonostante il trattato di libera circolazione tra l’Italia e la Svizzera del 1868, potevano entrare liberamente. Si entrava solo con permessi regolari. Perché allora nel secondo dopoguerra arrivarono in questo Paese decine di migliaia di immigrati italiani? La risposta è semplice: perché chiamati! La Svizzera aveva allora un disperato bisogno di manodopera estera, essendo quella indigena assolutamente insufficiente. Non potendola ottenere dalla Germania e dall'Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all'estero), la Svizzera si rivolse all'Italia, in cui la manodopera era disponibile.
Controllo alla frontiera
Si potrebbe anche ricordare che già nel 1946 la Svizzera mise a disposizione degli italiani diverse migliaia di autorizzazioni di cui poterono beneficiare 48.808 lavoratori immigrati. Le autorizzazioni furono portate a oltre 126 mila nel 1947, ma solo 105.112 furono effettivamente sfruttate a causa della lenta e farraginosa burocrazia italiana del dopoguerra. Oltre agli immigrati che potremmo chiamare «regolari» ce ne furono sicuramente altri che giunsero in Svizzera senza alcun permesso, ma non «clandestinamente». Anche a questi, infatti, bastava un passaporto turistico per entrare legalmente in Svizzera e cercare un posto di lavoro, evitando le lungaggini della burocrazia italiana. Ottenuto il permesso di lavoro, generalmente tramite familiari o amici, era facile ottenere anche le necessarie autorizzazioni svizzere.
Del resto lo stesso Ufficio federale del lavoro si lamentava con le autorità diplomatiche italiane della lentezza con cui venivano assegnati i permessi di emigrazione e del ritardo negli arrivi in Svizzera dei lavoratori autorizzati. Fu anche per questa ragione che molti imprenditori svizzeri furono indotti a cercarsi direttamente sul posto, tramite le Camere del lavoro e gli Uffici del lavoro italiani o reclutatori propri, la manodopera di cui abbisognavano e a provvedere direttamente ai relativi permessi.
Potrei infine ricordare che il grande scrittore svizzero Max Frisch, nella sua celebre frase sugli immigrati non scrisse: «son venuti qui per cercare lavoro…», ma «abbiamo chiamato …».
Giovanni Longu
(Corriere del Ticino, 14.11.2012)

Aggiunta. Purtroppo l'idea dei poveri disoccupati italiani del dopoguerra che si accalcano alla frontiera svizzera in cerca di lavoro è assai diffusa in molta letteratura sull'immigrazione in Svizzera. E' un'idea che non ha alcun fondamento.
E' vero infatti che nel dopoguerra, soprattutto nell'Italia del nord c’era molta disoccupazione, perché molte fabbriche non erano state ancora convertite da un’economia di guerra a una produzione per usi civili; ma è anche vero che gran parte di questi disoccupati erano lavoratori qualificati. E’ vero soprattutto che nell'immediato dopoguerra, per le ragioni suesposte, all'economia svizzera faceva gola questa manodopera qualificata e si è adoperata attraverso le autorità svizzere e italiane, le organizzazioni professionali e propri emissari per accaparrarsela. Di fatto le autorità svizzere misero a disposizione degli italiani un numero di permessi di soggiorno ben superiore a quello realmente utilizzato. Soprattutto nei primi anni del dopoguerra i lavoratori italiani erano ricercati, altro che «venuti per cercare lavoro». La situazione mutò, sotto questo profilo, negli anni ’50, quando cominciarono ad arrivare gli immigrati meridionali non qualificati e poco scolarizzati, molti senza ancora un permesso di soggiorno e di lavoro. Ma pure loro, in qualche modo erano «chiamati», perché fino agli anni ’70 l’economia svizzera aveva bisogno di molta manodopera anche generica. 


07 novembre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 5. Le «Rivendicazioni ticinesi»


Dal traforo del San Gottardo, che avevano contribuito a finanziare con 4 milioni di franchi («un autentico dissanguamento finanziario», secondo lo storico R. Romano), i ticinesi si aspettavano una grande ricaduta economica e un decisivo impulso allo sviluppo industriale del Cantone. Dovettero invece ben presto ricredersi perché la nuova ferrovia trasportava soprattutto prodotti provenienti dalla Svizzera interna e un numero crescente di svizzeri tedeschi attratti dal clima mite e dalle bellezze naturali del Ticino.

L’invasione dei confederati
La calata dei confederati nella Sonnenstube der Schweiz, il salotto soleggiato della Svizzera, contribuiva indubbiamente allo sviluppo del turismo ticinese, ma a beneficiarne erano soprattutto loro, i confederati. In tutto il Cantone si dovettero costruire nuove strutture ricettive, soprattutto alberghi, ma la loro proprietà e gestione restava per lo più in mano degli svizzero-tedeschi. A Lugano e Locarno i ticinesi detenevano meno dei 15% delle strutture alberghiere.
Per tutta una serie di fattori (clima, lavoro, accoglienza, condizioni di vita), molti confederati finivano per trasferirsi stabilmente in Ticino, ma pur restando un’esigua minoranza (ancora nel 1910 rappresentavano appena il 3,4% della popolazione residente), inducevano nei ticinesi una sensazione di invasione e d’«inforestierimento». Più che il loro numero preoccupava la loro influenza crescente non solo nell’economica ma anche nella politica, ben superiore a quella degli italiani, che costituivano oltre il 28% della popolazione.
Una situazione particolarmente conflittuale si determinò nella gestione della ferrovia del San Gottardo perché nelle assunzioni dei dirigenti venivano sistematicamente preferiti gli svizzeri tedeschi. Secondo gli impiegati ticinesi si trattava di una vera e propria discriminazione razziale. Effettivamente, ha scritto lo storico Georg Kreis, «il pensiero di quegli anni era fortemente impregnato di idee razziste, di preconcetti sulle caratteristiche del tipo germanico e neolatino. In quest’ottica, gli appartenenti alla razza germanica ritenevano di essere dotati delle migliori qualità; i ticinesi erano considerati, nel migliore dei casi, dei primitivi con gli zoccoli e i mandolini».

Il disagio crescente dei ticinesi
Per i confederati esisteva una «questione ticinese»: la presunta ambiguità dei ticinesi tra italianità ed elvetismo e i sospetti d’inaffidabilità e persino d’irredentismo (movimento politico tendente a riunire alla madrepatria territori e popoli ad essa legati per lingua e cultura ma appartenenti a uno stato straniero), quasi che, scontenti della madre «adottiva» svizzera, i ticinesi volessero tornare dalla madre «naturale» italiana. Non spiegavano altrimenti la forte presenza di italiani in Ticino con cui si facevano affari e l’ostilità nei loro confronti.
Dal punto di vista ticinese, invece, esisteva soprattutto un problema di «intedeschimento» del Cantone. Gli immigrati «regnicoli», infatti, per quanto numerosi non sfioravano nemmeno l’influenza esercitata dagli svizzero-tedeschi, proprietari di aziende industriali e strutture turistiche e a capo dei principali servizi amministrativi federali. Inoltre, gli svizzeri tedeschi non facevano nulla per assimilarsi, anzi se ne stavano isolati per conto loro, nelle loro associazioni, con i loro giornali in tedesco, potevano mandare i figli nelle loro scuole.
La penetrazione degli svizzero-tedeschi e con essi anche della lingua tedesca, creava negli ambienti cantonali, scrive lo storico M. Marcacci, un crescente disagio e insofferenza verso «l'imbastardimento linguistico e culturale del Ticino, complice la Confederazione che mostrava scarsissima attenzione alla lingua italiana nei servizi pubblici federali dislocati in Ticino e nella corrispondenza con le autorità e l'amministrazione cantonale».

Contro l’«intedeschimento»
Si schierarono apertamente contro l’«intedeschimento» e in difesa dell’italianità del Cantone Ticino molte personalità ticinesi e italiane quali Francesco Chiesa, Carlo Salvioni, Giuseppe Zoppi, Giuseppe Prezzolini, Teresa Bontempi, Rosetta Colombi, ecc. I loro interventi riempivano intere pagine di giornali e riviste provocando anche nella stampa confederata e negli ambienti politici nazionali intensi dibattiti.
Un episodio emblematico dell’atmosfera che regnava agli inizi del Novecento nei rapporti tra ticinesi e confederati fu quello del tentativo di alcuni intellettuali di creare in Ticino una sezione della Società Dante Alighieri. I promotori, allo scopo di evitare ogni fraintendimento, nel manifesto presentato nel 1908 sottolinearono il carattere esclusivamente «ticinese» dell’iniziativa: «Noi sottoscritti, cittadini ticinesi, ci siamo proposti di costituire una sezione della “Dante Alighieri”, la quale si componga di soli svizzeri italiani.…».

Ticino irredentodi Ferdinando Crespi, 2004

Il manifesto sollevò tanti entusiasmi, ma anche tante contrarietà, perché alcuni ambienti cattolico-conservatori ritenevano la Dante Alighieri in mano della massoneria, anticlericale e irredentista. Soprattutto il Bund di Berna, quotidiano ritenuto organo ufficioso del Consiglio federale, parlò della sezione ticinese della Dante come di una sorta di cavallo di Troia dell’irredentismo italiano e accusò la «Estrema Sinistra» ticinese di «aizzare gli spiriti contro gli svizzeri tedeschi» e di «sciovinismo linguistico». Gran parte delle reazioni della stampa confederata era sulla stessa lunghezza d’onda e temevano il rischio di «disvizzerizzazione ed italianizzazione del Canton Ticino in senso nazionalistico-irredentista».
Viste le forti opposizioni, si dovette rinunciare a quel progetto, ma si sperò di metter mano subito a un altro progetto, quello di avere in Ticino un «Istituto ticinese di alta cultura», una «Università della Svizzera Italiana», una «Università Ticinese». Le altre regioni linguistiche del Paese si erano già dotate di università. Solo la Svizzera italiana non aveva nemmeno un istituto superiore. Lo scopo era evidente: «la nostra situazione di svizzeri italiani crea la necessità di una scuola superiore non solo per salvaguardare i diritti della nostra cultura latina (...) ma anche per permetterci di fare comodamente i nostri studi nel Cantone, senza dover rivolgerci agli Atenei d'Italia o delle altre parti della Svizzera, ciò che crea spesso delle difficoltà non lievi (...)». Così scriveva uno studente ticinese da Ginevra sul Corriere del Ticino nel 1912.
Da parte sua, lo scrittore Francesco Chiesa ammoniva: «La redenzione del Ticino non può essere fatta dalla Svizzera, non può essere compiuta dall'Italia: essa deve venire dal Ticino stesso. Unico mezzo potente a tale scopo: la fondazione di un istituto ticinese di alta coltura». Se ne discusse molto, ma anche questa idea venne presto abbandonata per l’impotenza del Cantone a realizzarla né da sola né in collaborazione con la Confederazione.

Le «Rivendicazioni ticinesi»
Cons. fed. Giuseppe Motta
Le reazioni contro l’«intedeschimento» intanto crescevano e dopo la guerra ripreso vigore. A dare man forte ai concittadini intervenne anche l’allora consigliere federale Giuseppe Motta, il quale sostenne nel 1919 che «la forza e la ragione d’essere della Confederazione stanno nella libera unione di stirpi diverse; quanto più moralmente forte sarà ognuna di codeste stirpi, tanto più politicamente forte sarà la Confederazione stessa. La differenza delle lingue è il nostro privilegio ed orgoglio; perciò, nell’interesse comune, proteggiamole sforzandoci di mantenerle schiette e pure il Ticino dev’essere fiero della sua alta missione internazionale: quella di rappresentare al mondo intero l’elemento italiano della “piccola società delle nazioni!”. La nostra funzione è nobile ed ha un valore profetico; mostriamocene degni! La cura dell’italianità del Ticino è cura giusta e nello stesso tempo patriottica: dalla floridezza del nostro Cantone non può che derivare maggiore splendore della Confederazione tutta».
Il sentimento della duplice appartenenza all’Italia e alla Svizzera era ormai molto diffuso e irrinunciabile in tutto il Cantone. E quando i tempi sembrarono maturi, nel 1924, prima ancora che imperversasse in Ticino la propaganda fascista, i ticinesi presentarono al Consiglio federale le famose «Rivendicazioni».
Cominciavano col ricordare le «lacrime» e il «sangue» costati ai ticinesi durante la plurisecolare dominazione elvetica che «ha lasciato il Cantone spoglio degli elementi essenziali della civiltà». Si chiedeva poi, oltre a una serie di rivendicazioni economico-finanziarie, la chiusura delle scuole tedesche per i figli dei dipendenti delle ferrovie federali, un contributo straordinario per le scuole ticinesi e la concessione di un sussidio per la «difesa» della lingua e della cultura italiane. Forse per avvalorare le richieste, si accennava anche al pericolo dell’irredentismo italiano, che occorreva bloccare sul nascere. Si rivendicava in sostanza soprattutto il diritto dei ticinesi di appartenere a un Cantone «rappresentante non degenere della razza e della cultura italiana».
Nella Svizzera tedesca, evidentemente, non tutti condividevano le rivendicazioni ticinesi e in un libello del 1926 imputavano all’insipienza degli stessi ticinesi il loro sottosviluppo e a una gioventù senza valori e senza ideali.

Sostegno federale per la lingua e cultura italiane
Di fronte al rischio che le «rivendicazioni» ticinesi fornissero un pretesto a Benito Mussolini, da poco al potere in Italia, per ingerirsi negli affari interni della Svizzera, il Consiglio federale si affrettò a dare ampia soddisfazione al Ticino. Fu deciso ad esempio di versare al Cantone un contributo non indifferente di 450.000 franchi l’anno per la difesa della lingua e della cultura italiane. Sta di fatto che il fascismo in Ticino, nonostante i cospicui aiuti finanziari inviati da Mussolini, ebbe uno scarsissimo seguito.
La propaganda fascista e la corrente irredentista erano serviti in un certo senso al Ticino come «un’arma di pressione sul governo centrale». Con la caduta del fascismo essa venne meno, ma le rivendicazioni ticinesi continuarono… praticamente fino ai nostri giorni, anche se ormai da decenni l’italianità del Ticino, grazie anche al contributo italiano, come si vedrà in seguito, è unanimemente dichiarata fuori pericolo, col conforto delle statistiche ufficiali.
Giovanni Longu
Berna, 7.11.2012

24 ottobre 2012

Italianità del Ticino e della Svizzera: 4. Italianità fragile e divisa


Con la nascita dello Stato federale (1848) ogni Cantone era chiamato a fornire il proprio contributo per il benessere di tutti secondo la massima: «tutti per uno – uno per tutti». Il Ticino era disposto a dare il suo, ma senza rinunciare alla proprie caratteristiche peculiari e alla sua «missione». Così l’aveva indicata nell'agosto 1848 in Gran Consiglio il segretario di Stato Giovan Battista Pioda: «Italiani, abbiamo una missione da compiere nella Svizzera, quella di essere un punto intermedio di collegamento in una e di divisione delle europee potenze, di custodire intatte le alti vette delle alpi, di mantenere puri come le limpide sue fonti i sentimenti d’indipendenza, di libertà, di democrazia (…). Questa è la nostra missione, bella abbastanza per essere degna dell'Italia che rappresentiamo nella Confederazione». In altre parole, il rapporto con l’Italia, anche nella nuova Confederazione, era irrinunciabile.
La missione del Ticino «italiano» sembrava pienamente rispettata dalla nuova Costituzione federale, che considerava l’italiano come una delle tre lingue nazionali, e dall’Assemblea federale, che il 16 novembre 1848 eleggeva nel primo Consiglio federale anche il ticinese Stefano Franscini. E questi, quasi volesse sottolineare la parità linguistica e culturale delle principali etnie, il giorno del giuramento pronunciò davanti all’Assemblea federale un breve discorso in italiano, ringraziando per l’elezione in Consiglio anche di un rappresentante della Svizzera italiana. Qualche anno più tardi, all’inaugurazione (15 ottobre 1855) del Politecnico federale di Zurigo che aveva contribuito a fondare, pronuncerà ancora un discorso in italiano, «auspicando che anche la terza lingua nazionale trovi un adeguato riconoscimento in seno al nuovo istituto».

Parità più formale che sostanziale
In realtà la parità e i riconoscimenti erano più formali che sostanziali. L’italiano era stato inserito come lingua nazionale un po’ casualmente nella Costituzione, in uno degli ultimi articoli (109) sotto il titolo V «Disposizioni diverse». Franscini venne eletto al terzo turno di scrutinio con un solo voto oltre il minimo richiesto (68 voti su 132 votanti). Nella sua instancabile attività di governo incontrò non pochi ostacoli in seno al Consiglio federale (non solo a causa della sua scarsa padronanza del tedesco) e finì per essere poco a poco isolato. Deluso, pensava di ritirarsi dal governo per la fine del 1857 sperando di ottenere una cattedra di statistica al Politecnico federale di Zurigo, ma dalla Direzione dello stesso non venne nemmeno considerato proponibile. Morì a Berna prima del suo ritiro il 19 luglio 1857.
Il principale «difetto» di Franscini, almeno agli occhi di molti confederati e di alcuni colleghi di governo, era probabilmente quello di provenire da un Cantone ch’egli considerava una «particella d’Italia libera», che aveva votato contro la nuova Costituzione federale e visibilmente troppo filoitaliano nella questione dei rifugiati (che secondo molti confederati e consiglieri federali andavano espulsi e basta).
Non si trattava solo di divergenze d’opinione, ma di mentalità. In una lettera all’amico e confidente Giovan Battista Pioda del 6 novembre 1848, ossia pochi giorni prima della sua elezione in Consiglio federale, Franscini scriveva a proposito del contrasto tra il Ticino e gli svizzeri tedeschi sulla questione degli esuli italiani: «Facevo conto di scriverti un po’ a lungo (…) per non lasciar chiacchierar troppo da soli tanti chiacchieroni di tedeschi, che non finiscono di menar la lingua sul nostro conto, e di tagliarci i panni addosso».
Nella sua posizione di consigliere federale sapeva di svolgere una funzione delicata di mediatore al di sopra delle parti, ma i suoi tentativi di mediazione erano spesso fraintesi sia dai ticinesi che dai confederati. Per i primi, Franscini appariva talvolta come un «supino portavoce dell’indisponibilità bernese, se non quasi un traditore» e forse per questo non venne rieletto in Consiglio nazionale nel 1854 e dovette essere «ripescato» dal Cantone di Sciaffusa. Per molti confederati, e persino per qualche collega di governo, era ritenuto un interlocutore inaffidabile e partigiano. Eppure era assolutamente convinto della bontà del federalismo e della coesione nazionale, e non perdonava certo agli italiani il «difetto di liberalismo» o rinunciava a dire «semplici verità» ai corregionali perché «cosi reputo di amare la patria quanto più ardisco parlarle in ogni cosa la verità».

I successi di Giovan Battista Pioda, successore di Franscini
Giovan Battista Pioda (1808-1882)
Alla morte improvvisa di Franscini (19 luglio 1857) venne chiamato a succedergli per continuarne l’opera (censimenti, statistica, politecnico federale, ecc.) un altro ticinese, l’amico Giovan Battista Pioda, che resterà in Consiglio federale fino agli inizi del 1863. Fu indubbiamente più apprezzato e sostenuto del predecessore, ma resosi vacante il posto di rappresentante della Svizzera presso il Regno d’Italia, preferì dimissionare (gennaio 1863) da consigliere federale e trasferirsi in Italia come ministro plenipotenziario nelle varie capitali del Regno, dapprima a Torino (1864), poi a Firenze e a Roma. Del resto, come in molti intellettuali dell’epoca, anche in lui, uomo di legge e fine diplomatico, ma anche grande umanista, l’Italia delle grandi città d’arte esercitava una forte attrazione.
Nella nuova funzione di ministro plenipotenziario della Confederazione, Pioda sperava di mettere al servizio del suo Paese le sue doti diplomatiche e di contribuire a rafforzare i rapporti italo-svizzeri, in un periodo in cui si stavano gettando le basi di una grande collaborazione tra i due Paesi confinanti soprattutto in materia di collegamenti ferroviari transalpini. In effetti, sostenuto anche dall’illustre esule Carlo Cattaneo, Pioda riuscì non solo a convincere il governo italiano a scegliere la variante del San Gottardo, ma anche a far concludere tra la Svizzera e l’Italia la convenzione per la sua realizzazione (15 ottobre 1869).
Un altro importante accordo italo-svizzero venne stipulato in materia di emigrazione: il «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia» del 22 luglio 1868, tuttora valido. Esso, oltre alla dichiarazione di «amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e commercio» tra i due Paesi, prevedeva che in ogni Cantone della Confederazione Svizzera, «gli Italiani saranno ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali. Di conseguenza, i cittadini di ciascuno dei due stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio, senza che pei passaporti e pei permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa alcuna, onere o condizione fuor di quelle cui sottostanno i nazionali».

Ticinesi e italiani: storie parallele
La facilità dell’ingresso e del soggiorno degli italiani in Svizzera e degli svizzeri in Italia segnava l’avvio di una collaborazione tra i due Paesi che non si sarebbe mai più interrotta. Per la Svizzera, l’afflusso di tanti italiani, soprattutto a partire dalla costruzione della ferrovia del San Gottardo, avrebbe potuto significare anche il rafforzamento della sua componente «italiana», ma non lo è stato, se non in misura molto modesta. Ticinesi e italiani, fuori del Ticino, seguirono di fatto storie parallele e come espressioni separate dell’italianità non riuscirono mai a sommarsi e a raggiungere insieme una massa critica sufficiente per ottenere la piena parificazione delle tre lingue e culture a tutti i livelli di rappresentanza nella politica e nella società.
E’ pur vero che nonostante queste storie parallele, i legami del Ticino con la sua madre «naturale», l’Italia, non sono mai stati interrotti, nemmeno quando, «dagli anni sessanta dell’Ottocento (…) il solo parlare dell’italianità del Ticino veniva interpretato dagli svizzeri come un segno della volontà del Cantone di tornare a far parte politicamente delle terre italiane» (Crespi Reghizzo). A questa insinuazione i ticinesi rispondevano sdegnati chiamando «matrigna» la madre «adottiva», la Confederazione, che non si occupava dei loro problemi, ma si guardavano bene dall’accettare le profferte di aiuto provenienti dalla madre «naturale». Nei suoi confronti erano divenuti sempre più diffidenti e verso gli italiani si consideravano «svizzeri».
«Italia e Svizzera», scultura alla stazione ferroviaria di
Chiasso, dell’artista Margherita Osswald Toppi (1933)
In realtà i ticinesi si sentivano fortemente penalizzati sia come «italiani» e sia come «svizzeri», ossia «figli di due madri». Ciononostante, con tenacia, specialmente quando i rapporti con Berna erano più tesi, il Ticino continuava a rivendicare con vigore il suo diritto all’italianità. Purtroppo inutilmente. Tanto è vero, ad esempio, che dopo le dimissioni di Pioda, la rappresentanza ticinese in Consiglio federale s’interruppe per quasi mezzo secolo, dal 1864 al 1911.
Pioda morì a Roma il 3 novembre 1882, lo stesso anno dell’inaugurazione della ferrovia del San Gottardo, la prima grandiosa impresa della collaborazione italo-svizzera. Molto malato, non poté partecipare al viaggio inaugurale, ma solo al pranzo ufficiale organizzato a Milano. Narrano le cronache che nei discorsi ufficiali furono elogiati un po’ tutti, ma non lui, che pure era stato uno dei principali sostenitori del progetto.
Giovanni Longu
Berna 24.10.2012