Chi conosce anche solo sommariamente la storia e l’organizzazione della Confederazione sa bene che il governo (Consiglio federale) è stato voluto dai costituenti in una posizione nettamente più debole di quella riconosciuta al Parlamento (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati), quale organo supremo di rappresentanza della volontà del popolo e dei Cantoni svizzeri. Per di più, il Consiglio federale, titolare del potere esecutivo, è un organo collegiale senza nemmeno un presidente con poteri superiori a quelli degli altri membri del Collegio.
Alla luce
di questa impostazione fondamentale, si può ben capire perché il Consiglio
federale, nemmeno all’interno dell’amministrazione federale goda di poteri
sovrani e tutto sia regolato da leggi, ordinanze e istruzioni varie, che
limitano fortemente la discrezionalità dei singoli consiglieri federali a capo
dei vari Dipartimenti. Non voglio dire che essi o gli alti dirigenti dell’amministrazione
non abbiano poteri decisionali importanti o il potere d’influire sulla nomina
dei principali collaboratori, sulla politica del personale in genere, sulla
scelta dei progetti e sull’assegnazione delle risorse, ma sicuramente non
bisogna esagerarne la portata.
Legittimità
della rivendicazione italofona
In questa
ottica, l’elezione di un consigliere federale dovrebbe essere depurata da
aspettative esagerate. Invece, da sempre attorno ad ogni elezione ruotano
molteplici interessi di parte, quali l’appartenenza a questo o quel partito, a
questo o quel Cantone, a questo o quell'orientamento (persino religioso, in
altri tempi), a questa o quella regione linguistica. Spesso a prevalere non
sono gli interessi generali più importanti, ossia quelli indicati nella
Costituzione federale, specialmente il criterio dell’appartenenza linguistica e
culturale.
Da questo
punto di vista trovo legittima la rivendicazione degli italofoni di una
rappresentanza italofona in Consiglio federale e la delusione ogniqualvolta
viene negata. E’ forse impossibile individuare quali siano le vere ragioni di
ogni esclusione, ma una ragione potrebbe essere che non esistono a tutt'oggi
regole precise per garantire tale rappresentanza. Sta di fatto che finora, ossia
fino a qualche settimana fa, dopo le innumerevoli discussioni che si sono
svolte nell'arco di 165 anni, il problema della rappresentanza italofona nel
Consiglio federale non è stato ancora risolto.
Eppure
basterebbe ripensare alla storia delle elezioni dei consiglieri federali
italofoni per capire che esistono ragioni sufficienti per assicurare anche all'italianità
visibilità e rappresentanza costanti in Consiglio federale. E’
illuminante soprattutto l’elezione del primo consigliere federale italofono
Stefano Franscini.
Perché
Franscini?
Anzitutto
va ricordato che la prima discussione sul numero dei consiglieri federali si è
avuta in seno alla Dieta (l’assemblea dei rappresentanti dei Cantoni) prima
della stesura definitiva della prima Costituzione federale (1848). Nella
proposta iniziale si parlava di cinque membri, ma la maggioranza dei
rappresentanti cantonali decise di aumentarne il numero a sette (e tale è
rimasto fino ad oggi). Questo numero, a quanto sembra, fu scelto per motivi di
efficienza nei compiti da svolgere e per dare qualche possibilità in più di
esprimere un consigliere federale anche ai piccoli Cantoni.
Inoltre è
bene ricordare che la Costituzione appena approvata all’art. 109 dichiarava che
«le tre lingue principali della Svizzera, la tedesca, la francese e l’italiana
sono lingue nazionali della Confederazione», sancendo così la natura
plurilingue e pertanto anche pluriculturale della Svizzera e l’uguaglianza
delle stesse lingue e relative culture. Di qui la conseguenza, ovvia, di
inserire nel primo Consiglio federale almeno un rappresentante di ciascuna
componente linguistica e culturale, dunque anche il ticinese Stefano
Franscini (1848-1857).
Una prima
considerazione su questa elezione è che essa, in quel momento storico, dovette
apparire del tutto normale (anche se avvenuta solo al terzo turno di scrutinio
con un solo voto oltre il minimo richiesto), perché sarebbe apparsa una sorta
d’ingiuria sacrificare in nome della maggioranza tedescofona e francofona la
rappresentanza italofona e una violazione palese del plurilinguismo sancito
nella Costituzione.
Una seconda
considerazione, conseguente alla precedente, mi porta a ritenere del tutto
secondario, agli occhi dei parlamentari di allora, il fatto che Franscini fosse
«ticinese», rispetto alla sua caratteristica principale di «italofono». Era
infatti esclusa una scelta diversa in quanto allora la quasi totalità degli
italofoni si concentrava nel Ticino. Certamente non si volle riconoscere (né
allora né mai anche in seguito) una sorta di privilegio al Cantone Ticino e,
del resto, nemmeno questo, riteneva di avere diritti particolari di
rappresentanza. Tanto è vero che alla scadenza del mandato, i ticinesi non
rielessero Franscini nel Consiglio nazionale, pur sapendo che questa era la
condizione per mantenere il seggio in Consiglio federale. Poté continuare
l’opera iniziata a Berna solo grazie all’elezione come deputato del Cantone di
Sciaffusa.
Italofoni
per interessi nazionali
1° Consiglio federale (1848) |
Franscini è stato
l’apripista dei consiglieri federali italofoni, ma ha avuto un solo immediato
successore, Giovan Battista Pioda
(1857-1863). Questi venne eletto certamente per le sue qualità personali, ma
anche, probabilmente, per continuare una rappresentanza italofona ritenuta
indispensabile in uno Stato che intendeva consolidare la sua fragile identità e
coesione nazionale e non da ultimo perché sembrava la personalità più adatta
per assicurare buoni rapporti con il vicino Stato nascente italiano. Tanto è
vero che una volta lasciato il Consiglio federale, Pioda fu nominato rappresentante
della Svizzera presso il Regno d’Italia, incarico che mantenne fino alla sua
morte nel 1882.
Indubbiamente
a monte sia dell’elezione di Franscini che di Pioda ci stavano interessi
nazionali che sopravanzavano di gran lunga qualsiasi interesse particolare:
l’interesse a dare del Consiglio federale un’immagine adeguata del Paese reale,
che non poteva prescindere né dalla sua composizione interna plurietnica,
plurilinguistica e pluriculturale né dalla necessità di coltivare buoni
rapporti con i grandi Paesi confinanti, dei quali si condivideva in buona parte
la lingua e la cultura.
Discontinuità
dopo Pioda
Purtroppo a
Pioda non seguì nessun altro italofono fino al 1911, quando venne eletto Giuseppe
Motta (1911-1940). Difficile spiegare come mai, per così tanto tempo, la
maggioranza parlamentare, in rappresentanza della maggioranza del popolo
svizzero, non ritenne indispensabile la rappresentanza italofona. Invano a più
riprese tra il 1870 e il 1874, nel 1892, 1899 e 1909 si discusse nelle Camere federali
circa la necessità o l’opportunità di aprire la porta del Consiglio federale a
un italofono, eventualmente ampliando il numero dei consiglieri federali.
E’
interessante osservare che in tutta la storia dei dibattiti parlamentari in cui
si trattò della questione della rappresentanza italofona, soprattutto in
occasione di proposte di revisione della composizione del Consiglio federale
(praticamente dal 1913 ad oggi), non mi è mai capitato di trovare un solo
intervento da cui si possa ricavare che la lingua e la cultura italiane in
questo Paese per importanza o dignità siano ritenute secondarie.
Evidentemente
le ragioni dell’esclusione per periodi più o meno lunghi di un italofono dal
Consiglio federale risiedono altrove e andrebbero ricercate e ben spiegate. Sono
infatti convinto che, prese una per una, non basterebbero a vanificare il
principio secondo cui un organo, per quanto collegiale ma alquanto rappresentativo,
non possa o peggio non debba rappresentare anche un’area linguistica e
soprattutto culturale che è riconosciuta di pari valore e dignità dalla stessa Costituzione.
Prepararsi
è bene, ma come?
Per
assicurare una tale rappresentanza, non bisognerebbe tuttavia aspettare
l’eccezionalità dei tempi come nel caso di Franscini e Motta e
persino di Nello Celio (1966-1973) e Flavio Cotti (1986-1999), ma
bisognerebbe disporre anche delle persone giuste al momento giusto. Una
condizione questa, più facile a dirsi che a verificarsi, come dimostrano le numerose
candidature non andate a buon fine dalle dimissioni di Cotti a oggi.
Consiglio federale 2012 |
Non so
quanto sia possibile in un sistema politico complesso come quello svizzero
pianificare o preparare le successioni, ma ritengo, da semplice osservatore,
indispensabile che nel campo degli italofoni si chiariscano e definiscano le
priorità, verificando anche la coerenza e la significatività del linguaggio. E’
facile infatti, leggendo interventi parlamentari od opinioni sui giornali, riscontrare
numerose confusioni (giusto per citare due esempi, tra italofonia e italianità,
rappresentante italofono e rappresentante ticinese), quanto basta per far
sospettare chi magari al plurilinguismo o alla uguaglianza di valore tra le
lingue nazionali e le culture ha già rinunciato.
Una
maggiore precisione andrebbe forse inserita anche all’articolo 175 della
Costituzione federale, se si vuole davvero assicurare la rappresentanza delle
tre principali lingue e culture di questo Paese, a prescindere dal numero dei
membri del Consiglio federale.
Giovanni
Longu
Berna, 12.12.2012
Berna, 12.12.2012
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