Quando il flusso emigratorio verso la Svizzera superò (1947) la soglia delle 100.000 persone, il governo italiano ritenne opportuno concludere con le autorità svizzere un accordo di emigrazione (1948). Più che tutelare il lavoro italiano all’estero, come imponeva ormai la Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, al governo interessava controllare il reclutamento dei migranti, per evitare che le imprese svizzere scegliessero il personale direttamente, soprattutto al nord (trascurando i disoccupati meridionali), e che dietro le persone autorizzate a emigrare partissero «clandestinamente», ossia senza i permessi previsti, anche altre persone.
«Quando i
clandestini eravamo noi»?
Spesso, in questi
ultimi anni, si sono lette affermazioni
del tipo «quando i clandestini eravamo noi» (Gian Antonio Stella) e
forse pochi si sono chiesti se esse contengano più verità o falsità. Non è
facile rispondere senza conoscere, anche solo a grandi linee, la storia
dell’emigrazione/immigrazione italiana, ma conoscendola, si scopre facilmente
che, soprattutto nel caso dell’immigrazione in Svizzera, quelle frasi sono
infondate, false e persino offensive.
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Benvenuti in Svizzera! |
Tuttavia, il fatto che
quelle frasi vengano ancora ripetute merita una spiegazione, anche se potrebbe
apparire un po’ strana. Generalmente, infatti, è lo Stato d’immigrazione che
vuole proteggersi dall’immigrazione clandestina. Nel caso italiano, invece, è
l’Italia, Paese d’emigrazione che, soprattutto nei primi decenni del
dopoguerra, ha cercato di impedire l’«emigrazione clandestina», ossia
l’espatrio di persone che non avevano tutti i documenti in regola. Perché
questo atteggiamento italiano non appaia affatto strano, occorre anzitutto
riferire brevemente la situazione migratoria di allora verso la Svizzera.
La situazione migratoria
nel dopoguerra
Anzitutto è bene
ricordare che in Italia, per diverso tempo, la classe politica (da
destra a sinistra) e l’opinione pubblica furono (almeno apparentemente)
concordi sull’utilità dell’emigrazione, sia come rimedio alla disoccupazione e
sia sotto l’aspetto economico, perché assicurava all’Italia le provvidenziali
rimesse degli emigrati che servivano a ripianare i bilanci. Dalla Svizzera,
poi, oltre alle rimesse, entravano direttamente nelle casse statali le tasse di
visto sui contratti di lavoro per un importo che si aggirava sui 100 milioni di
lire l’anno. Tutte valide ragioni per incoraggiare l’emigrazione verso questo
Paese, che nel dopoguerra era particolarmente bisognoso di manodopera, ma anche
un’ambita destinazione per moltissimi emigranti.
In Italia, allora,
dell’emigrazione in Svizzera si aveva un’idea piuttosto superficiale, ma
positiva: si riteneva che gli emigrati fossero in generale fortunati perché
potevano lavorare, guadagnare e tornare a casa con un bel gruzzolo da impiegare
a loro piacimento. Per di più, di solito, potevano continuare a lavorare in
Svizzera, se volevano.
Il punto di vista
degli emigrati e della stampa
A creare e diffondere
questa immagine fondamentalmente positiva contribuivano gli stessi emigrati,
che rientravano dalla Svizzera a fine stagione (se stagionali) o per le ferie
(se annuali o domiciliati) solitamente soddisfatti della loro esperienza, del
lavoro svolto (anche se spesso penoso e pericoloso) e dei loro guadagni. Molte
biografie di emigrati della fine degli anni ’40 e inizi anni ’50 parlano
persino di un’accoglienza simpatica da parte degli svizzeri.
Anche la stampa di
allora (1949-1951) non faceva che amplificare l’immagine di una Svizzera
accogliente in cui gli italiani si trovano pienamente a loro agio. In una serie
di reportage veniva descritta una situazione quasi irreale (dal punto di vista
italiano) di un popolo onesto, ben amministrato, dedito soprattutto al lavoro,
in cui i compiti tra uomo e donna erano ben ripartiti, rispettoso degli stranieri,
ecc.
Nel 1949, il Corriere della Sera dedicava un articolo
agli italiani che lavoravano nel Cantone Argovia nelle aziende di Wettingen e
Baden, intitolato: «Perfettamente ambientati i nostri operai in Svizzera».
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Egidio Reale |
Le maggiori
preoccupazioni delle autorità
Che la
rappresentazione dell’immigrazione italiana in Svizzera in quegli anni fosse in
larga misura fedele alla realtà lo prova anche il fatto che nella stampa
locale, ma anche nei documenti diplomatici tra l’Italia e la Svizzera, non vi è
quasi traccia di situazioni particolarmente problematiche. Solo
nell’agricoltura gli italiani erano soliti lamentarsi sia perché ritenevano gli
orari di lavoro eccessivi (rispetto a quelli delle fabbriche) e sia perché era
loro vietato cambiare posto di lavoro (una misura introdotta nel 1949 proprio per
evitare che gli addetti all’agricoltura e alle piccole aziende abbandonassero
quelle attività per cercare lavoro nei centri industriali e nelle medie e
grandi imprese, che assumevano più facilmente personale già in Svizzera).
In generale, tuttavia,
almeno fino agli inizi degli anni ’50, la situazione riguardante gli immigrati
italiani in Svizzera appariva non solo tranquilla, ma anche soddisfacente.
Questo non significa che non ci fossero questioni potenzialmente critiche, ma
che al momento erano tenute sotto controllo, soprattutto da parte svizzera.
La Svizzera si
mostrava piuttosto tranquilla perché, dopo l’adozione della legge sugli
stranieri del 1931, era convinta di avere a disposizione gli strumenti adatti
per far fronte a due eventuali emergenze: un eccesso di manodopera estera e
l’ingresso di persone indesiderate. Nel primo caso sarebbe bastato rendere più
difficile non tanto l’ingresso in Svizzera (a causa dei trattati
internazionali) quanto l’ottenimento del permesso di soggiorno o il suo
rinnovo. Nel secondo caso, la stessa legge rendeva più facile di prima
l’individuazione e l’espulsione delle persone considerate «pericolose», allora rappresentate
soprattutto da infiltrati comunisti attraverso le Legazioni dei Paesi satelliti
dell’Unione Sovietica, ma anche attraverso gli immigrati italiani.
L’Italia, invece,
almeno inizialmente, aveva una doppia preoccupazione, da una parte avviare il
maggior numero possibile di emigrati verso la Svizzera (oltre che verso altri
Paesi) e dall’altra riuscire a mantenere sotto controllo il flusso degli
emigrati. In entrambi i casi appariva indispensabile la collaborazione della
controparte svizzera, che non era sempre garantita. Il caso degli emigrati
italiani «clandestini» è emblematico.
Perché l’Italia
considerava molti emigranti «clandestini»?
Sull’onda della
corrente migratoria sempre più intensa verso la Svizzera, un numero crescente
di italiani e italiane entrava in Svizzera senza documenti di lavoro e di
soggiorno previsti dagli accordi con l’Italia, convinti di trovare un posto di
lavoro di propria scelta e ben remunerato, più facilmente che seguendo la
complicata burocrazia italiana.
Molti italiani
desiderosi di emigrare trovavano infatti troppo lunga la trafila burocratica
delle domande, dei permessi, del passaporto, del contratto di lavoro, dei visti
sui contratti, ecc. e preferivano recarsi sul posto, sperando persino di poter
scegliere l’occupazione desiderata e magari più redditizia. Questa pratica, di
cui le autorità italiane erano ben al corrente, provocò più di un intervento
del Ministro Reale presso le competenti autorità federali, ma invano.
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Alfred Zehnder |
Proprio in
quell’occasione, il capo della delegazione svizzera Alfred Zehnder
rispose a Reale, come si legge nel verbale della Commissione, di considerare
«il mercato nero della manodopera italiana come un mercato regolare. Questo
mercato non è illegale e la Svizzera non è tenuta a impedirlo». In altre
parole, per la Svizzera, anche i «falsi turisti», non potevano essere ritenuti
clandestini, eventualmente da rinviare perché senza un visto sul contratto di
lavoro o senza contratto di lavoro. In ogni caso, riteneva Zehnder, 4000
«irregolari» su 160.000 italiani che ogni anno entravano in Svizzera
«regolarmente» sono ben poca cosa e poi «le eccezioni sono simpatiche in tutti
gli accordi».
Tant’è che ancora oggi
qualcuno continua a parlare di emigrati italiani «clandestini» (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 3.5. 2017
Berna, 3.5. 2017