Il decennio (1991-2000) in esame ha visto cambiare non solo
la politica immigratoria svizzera (cfr. articolo precedente), ma anche alcune
caratteristiche fondamentali della collettività italiana in Svizzera, divenuta
sempre più stabile, consapevole e integrata. Non era più costituita
prevalentemente da giovani immigrati giunti dall'Italia per motivi di lavoro,
ma da domiciliati che avevano deciso di restare a tempo indeterminato in questo
Paese per motivi di lavoro, familiari o per altre ragioni. Negli ultimi decenni
era cresciuta numericamente (nonostante un saldo migratorio negativo, in quanto
i nuovi arrivati erano sempre meno numerosi dei partenti) e qualitativamente,
grazie soprattutto alla seconda generazione che aveva dato una forte spinta
all'integrazione scolastica e professionale, anche se restava ancora molto da
fare. Del resto era facile costatare che il binomio formazione-integrazione
funzionava e cominciava a dare i suoi frutti (cfr. articolo del 18.5.2022).
Disuguaglianze in diminuzione
Segnali positivi arrivavano anche dai media quando si veniva
a sapere che numerosi dirigenti d’imprese, di banche, di assicurazioni, come
pure giornalisti, professori universitari e professionisti in svariati campi
avevano nomi italiani, anche se magari erano solo di origine migratoria
italiana o cittadini con la doppia cittadinanza italiana e svizzera o ticinesi.
Non va dimenticato che da decenni ormai nomi tipicamente italiani (Bruno,
Marco, Luca, Matteo, Fabio, Claudia, Silvia, Sara, Sandra, ecc.) erano diffusi
anche tra gli svizzeri, come certificava ogni anno una specifica «classifica»
dei nomi dei neonati stilata dall'Ufficio federale di statistica.
Del resto era sempre più difficile distinguere gli italiani
con la sola nazionalità italiana dagli italo-svizzeri, dai ticinesi, dagli
svizzeri, perché tutti parlavano la stessa lingua e perché gli italiani che aggiungevano
alla nazionalità originaria quella svizzera erano sempre più numerosi. Se nel
1991 avevano ottenuto la cittadinanza svizzera 1802 italiani, nel 2000 la
ottennero ben 6652, un record ancora imbattuto. Il Cantone di Zurigo era quello
con il maggior numero di italo-svizzeri (25.005), seguito dal Ticino (24.138),
Vaud (13.650), Ginevra (13.166), Berna (9.498), ecc.
Sarebbe tuttavia sbagliato affermare che i problemi degli
italiani erano tutti risolti. Ce n’erano infatti ancora molti, perché il
processo di avvicinamento al livello degli svizzeri non era ultimato, c’erano
differenze significative a livello scolastico, nell'apprendistato, nella condizione
professionale (in generale la disoccupazione colpiva più gli stranieri degli
svizzeri), nella posizione professionale (in generale gli stranieri occupavano
posizioni inferiori rispetto agli svizzeri) ed evidentemente in campo politico.
E’ innegabile, tuttavia, che la condizione occupazionale, economica e sociale
degli stranieri e specialmente degli italiani alla fine del decennio era in
netto miglioramento (cfr. articolo precedente).
Integrazione professionale facilitata
Negli anni Novanta il tema della formazione professionale
era meno acuto rispetto ai decenni precedenti, ma non privo di ostacoli. Non va
infatti dimenticato che era ancora in vigore la vecchia legge sugli stranieri
del 1931, sia pure più volte modificata, che era stata concepita soprattutto
per regolamentare l’immigrazione di lavoratori allora in gran parte «manuali»,
per i quali l’integrazione se non veniva esclusa doveva essere almeno
ostacolata. Dagli anni Settanta questa concezione era andata modificandosi
radicalmente, ma non tanto da eliminare qualsiasi pregiudizio, per esempio,
sulla diversità dei ruoli tra svizzeri e stranieri. Del resto, tradizionalmente
un ostacolo era rappresentato dalle prestazioni scolastiche, non sempre
eccellenti tra gli allievi stranieri, soprattutto a causa di un presunto minor
sostegno familiare.
Lentamente, tuttavia, tutti gli ostacoli stavano cadendo e
anche nella vita quotidiana e professionale molti svizzeri consideravano ormai
gli italiani come con-cittadini, a prescindere dalla nazionalità e dalla
partecipazione politica. Già la conoscenza della lingua locale eliminava sul
nascere molte differenze e facilitava l’integrazione scolastica. A sua volta,
questa agevolava l’orientamento professionale e la scelta di un buon
apprendistato (o il proseguimento degli studi), sicché, in generale, anche gli
stranieri trovavano uno sbocco professionale confacente alle loro capacità e
inclinazioni.
Il censimento federale della popolazione del 2000 (dicembre)
e altre analisi settoriali dell’Ufficio federale di statistica hanno confermato
un alto grado d’integrazione della collettività italiana residente stabilmente
in Svizzera, ancor più evidente se i dati del 2000 sono confrontati (per quanto
possibile) con i dati dei censimenti e analisi precedenti.
Attività professionali degli italiani
Le donne italiane sono rimaste più a lungo concentrate in pochissimi rami economici. Nel ventennio 1970-1990 erano occupate con oltre mille unità ciascuna in sole 8-9 attività, mentre nel 2000 occupavano oltre mille italiane solo quattro generi di attività. Da allora le donne italiane cominciarono a ripartirsi in decine di attività soprattutto nel settore terziario. Anche per loro l’integrazione professionale era in gran parte compiuta, anche se la maggior parte delle attività svolte era a basso livello di qualificazione. I gruppi più consistenti erano le impiegate di commercio, le venditrici, le addette alle pulizie (alberghi, ristoranti, ospedali) e ai servizi domestici (collaboratrici domestiche, portinaie e addette alla pulizia e a servizi vari).
Posizione nella professione
Un altro elemento facilmente riscontrabile e positivo,
soprattutto per gli uomini, è l’alta percentuale delle attività autonome.
Mentre negli anni Settanta il lavoro dipendente, per lo più non qualificato o
poco qualificato, era la regola (98%), nel 2000 il lavoro autonomo tra gli
italiani era è molto diffuso, forse addirittura più che tra gli svizzeri (se
non venissero prese in considerazione le imprese agricole tradizionalmente a
conduzione familiare). Molti italiani sono diventati autonomi e piccoli
imprenditori per esempio nei rami dell’alimentazione, dell’edilizia, della
manutenzione, delle riparazioni.
Nel 2000, inoltre, parecchi professionisti italiani
esercitavano attività con esigenze molto elevate, come gli oltre mille
ingegneri, quasi 400 informatici, 250 insegnanti universitari o in istituti
superiori, oltre 150 medici, alcune centinaia tra fisici, matematici, chimici,
biologi e ricercatori vari, ecc.
Integrazione e «comune prosperità»
E’ di tutta evidenza che una buona integrazione professionale sia un
indicatore sicuro anche di una soddisfacente integrazione economica e sociale.
Negli anni Ottanta e Novanta lo capirono molto bene anche gli stranieri, che si
sono prodigati per garantirsi e garantire soprattutto alla seconda generazione
una buona integrazione scolastica e professionale. Lo capirono anche numerose
aziende, i sindacati e le autorità svizzere e italiane, che favorirono la
formazione e l’integrazione professionale non solo nell'interesse dell’economia
e della società, ma anche della soddisfazione personale e familiare dei diretti
interessati.
Non c’è dubbio, del resto, che la «comune prosperità» indicata come
obiettivo della Confederazione dalla Costituzione federale non può prescindere
dalla prosperità dei singoli. Compresi gli stranieri che alla prosperità comune
contribuivano e contribuiscono in larga misura.
Giovanni Longu
Berna, 8.6.2022