Alla fine della prima guerra mondiale la Confederazione sapeva che doveva darsi una normativa chiara e solida riguardo agli stranieri che dagli ultimi decenni dell’Ottocento giungevano in massa per sopperire alla carenza di manodopera svizzera per un’economia con ampie prospettive di sviluppo. L’Esposizione nazionale di Berna del 1914 aveva messo in luce non solo i risultati conseguiti dall’industria svizzera e riverberati nel benessere diffuso su vasta scala (la Belle Epoque), ma anche le grandi potenzialità delle nuove scoperte, dell’innovazione tecnologica e dell’organizzazione del lavoro. La guerra, però, aveva insegnato agli svizzeri che il progresso illimitato non era garantito e che l’abbondante forza lavoro straniera presente in Svizzera avrebbe potuto creare seri problemi, perché non poteva essere naturalizzata «per forza» né rinviata al Paese di provenienza, a causa degli accordi bilaterali con gli Stati fornitori, qualora non fosse stata più necessaria. L’incertezza del futuro animò a lungo il dibattito pubblico sugli stranieri, fin quando, nel 1925, giusto cento anni fa, il Popolo fu chiamato a decidere.
Le incertezze del dopoguerra
La prima guerra mondiale, pur avendo risparmiato in gran parte la Svizzera, ne aveva minato lo slancio ottimistico che aveva caratterizzato il primo decennio del secolo e che si era manifestato nella grande Esposizione nazionale di Berna nel 1914, in piena Belle Epoque. Per coloro che non vedevano più davanti a sé un futuro roseo per l’economia (e di conseguenza per la prosperità sociale) fu facile individuare nella sovrabbondante manodopera straniera l’ostacolo a cui occorreva trovare urgentemente un rimedio per non correre il rischio di dipendere dall’estero (pericolo di inforestierimento) e dover assistere migliaia di persone in più (pericolo di un’assistenza insopportabile) in caso di disoccupazione estesa.Il dibattito era in corso dall'inizio del secolo, ma le
soluzioni proposte si rivelarono inefficaci, compresa la nuova legge sulla
cittadinanza del 1903 voluta per facilitare l’acquisizione della cittadinanza
svizzera a chi nasceva in Svizzera da genitori stranieri già residenti in questo Paese (introducendo una sorta di Ius
soli). In tal modo si pensava di poter stabilizzare la popolazione straniera
residente, ma nessun Cantone se ne avvalse. D’altra parte, la Confederazione
non aveva alcuna competenza sulla gestione ordinaria degli stranieri in quanto
la Costituzione l’attribuiva ai Cantoni.
A questa difficoltà interna si aggiungeva per la
Confederazione quella esterna di aver sottoscritto, specialmente con i Paesi
vicini, per esempio con l’Italia, trattati importanti di libera circolazione
delle persone in entrambi gli Stati, ai quali non intendeva rinunciare. Come
avrebbe potuto la Svizzera rinviare in quei Paesi la manodopera eccedente le necessità
dell’economia? Inoltre, come poteva impedire l’ingresso alle persone che
volevano entrare in Svizzera?
Rimedi provvisori
Per alcuni decenni il Consiglio federale rimediò a questa
lacuna costituzionale con soluzioni provvisorie, prolungando alcune misure
eccezionali introdotte in tempo di guerra (come facevano generalmente tutti gli Stati belligeranti) per impedire l’ingresso
indiscriminato in Svizzera a
disertori, renitenti anarchici, socialisti, bolscevichi, disoccupati e persino
delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa in seguito al crollo degli imperi russo, austro-ungarico e
tedesco. Fu persino reintrodotto il «visto» sui passaporti, ma, soprattutto, avvalendosi
dei poteri straordinari ricevuti durante la guerra,
il Consiglio federale istituì nel 1917 l’Ufficio centrale di polizia degli
stranieri (la cosiddetta Polizia degli stranieri), destinata a
diventare praticamente lo strumento
politico-burocratico contro l’«inforestierimento».
Si
sa che grazie alle misure adottate dalla Confederazione alcuni risultati erano
stati raggiunti, per esempio, la quota degli stranieri sulla popolazione
residente totale era scesa dal 14,7% di prima della guerra al 10,4% del 1920,
sebbene il Consiglio federale ritenesse che il 10,4 % di stranieri costituisse pur sempre «una proporzione anormale per
l'equilibrio della nostra popolazione».
Nessuno, tuttavia,
era soddisfatto della situazione normativa riguardante gli stranieri perché non
era costituzionalmente fondata, si prestava a grandi difformità cantonali.
Necessità di una riforma costituzionale
Nel 1924, nella
sua risposta il Governo non fece che ribadire che un intervento regolatore
della Confederazione in materia di stranieri sarebbe stato possibile solo se ne
avesse avuto la competenza costituzionale. Si trattava quindi di adottare in Parlamento la modifica costituzionale necessaria e sottoporla, come ogni modifica della Costituzione federale, al voto popolare. Il 25 ottobre 1925 fu
sottoposto al voto popolare il «decreto federale concernente la dimora e il
domicilio degli stranieri» già adottato dall'Assemblea federale il 19 giugno
1925, il quale, col nuovo articolo 69 ter, attribuiva in sostanza alla Confederazione
«il diritto di far leggi sull'entrata, l'uscita, la dimora e il domicilio degli
stranieri».
Ampio consenso popolare
La riforma costituzionale fu ampiamente approvata dal Popolo
(col 62,2% di sì) e dai Cantoni (solo tre Cantoni - Friburgo, Ticino e Vallese
– e un Semicantone – Appenzello Interno votarono contro) per cui la
Confederazione poteva ora elaborare quella che sarà per decenni la legge più
importante relativa agli stranieri e consentirà di adottare tutte le misure che
riguarderanno la stabilizzazione, l’integrazione e la naturalizzazione degli
stranieri.
Sui risultati ottenuti con le leggi, le ordinanze, le misure
di accompagnamento e l’impegno profuso dalla Confederazione, dai Cantoni e da
altre istituzioni pubbliche e private in questa complessa materia le opinioni sono
divergenti, ma dovrebbe essere innegabile che tutto si è svolto sulla base di
un ampio consenso popolare, nella legalità e nel rispetto della Costituzione
federale democratica.