25 giugno 2025

1925: Basi della politica immigratoria federale

Alla fine della prima guerra mondiale la Confederazione sapeva che doveva darsi una normativa chiara e solida riguardo agli stranieri che dagli ultimi decenni dell’Ottocento giungevano in massa per sopperire alla carenza di manodopera svizzera per un’economia con ampie prospettive di sviluppo. L’Esposizione nazionale di Berna del 1914 aveva messo in luce non solo i risultati conseguiti dall’industria svizzera e riverberati nel benessere diffuso su vasta scala (la Belle Epoque), ma anche le grandi potenzialità delle nuove scoperte, dell’innovazione tecnologica e dell’organizzazione del lavoro. La guerra, però, aveva insegnato agli svizzeri che il progresso illimitato non era garantito e che l’abbondante forza lavoro straniera presente in Svizzera avrebbe potuto creare seri problemi, perché non poteva essere naturalizzata «per forza» né rinviata al Paese di provenienza, a causa degli accordi bilaterali con gli Stati fornitori, qualora non fosse stata più necessaria. L’incertezza del futuro animò a lungo il dibattito pubblico sugli stranieri, fin quando, nel 1925, giusto cento anni fa, il Popolo fu chiamato a decidere.

Le incertezze del dopoguerra

La prima guerra mondiale, pur avendo risparmiato in gran parte la Svizzera, ne aveva minato lo slancio ottimistico che aveva caratterizzato il primo decennio del secolo e che si era manifestato nella grande Esposizione nazionale di Berna nel 1914, in piena Belle Epoque. Per coloro che non vedevano più davanti a sé un futuro roseo per l’economia (e di conseguenza per la prosperità sociale) fu facile individuare nella sovrabbondante manodopera straniera l’ostacolo a cui occorreva trovare urgentemente un rimedio per non correre il rischio di dipendere dall’estero (pericolo di inforestierimento) e dover assistere migliaia di persone in più (pericolo di un’assistenza insopportabile) in caso di disoccupazione estesa.

Il dibattito era in corso dall'inizio del secolo, ma le soluzioni proposte si rivelarono inefficaci, compresa la nuova legge sulla cittadinanza del 1903 voluta per facilitare l’acquisizione della cittadinanza svizzera a chi nasceva in Svizzera da genitori stranieri già residenti in questo Paese (introducendo una sorta di Ius soli). In tal modo si pensava di poter stabilizzare la popolazione straniera residente, ma nessun Cantone se ne avvalse. D’altra parte, la Confederazione non aveva alcuna competenza sulla gestione ordinaria degli stranieri in quanto la Costituzione l’attribuiva ai Cantoni.

A questa difficoltà interna si aggiungeva per la Confederazione quella esterna di aver sottoscritto, specialmente con i Paesi vicini, per esempio con l’Italia, trattati importanti di libera circolazione delle persone in entrambi gli Stati, ai quali non intendeva rinunciare. Come avrebbe potuto la Svizzera rinviare in quei Paesi la manodopera eccedente le necessità dell’economia? Inoltre, come poteva impedire l’ingresso alle persone che volevano entrare in Svizzera?

Rimedi provvisori

Per alcuni decenni il Consiglio federale rimediò a questa lacuna costituzionale con soluzioni provvisorie, prolungando alcune misure eccezionali introdotte in tempo di guerra (come facevano generalmente tutti gli Stati belligeranti) per impedire l’ingresso indiscriminato in Svizzera a disertori, renitenti anarchici, socialisti, bolscevichi, disoccupati e persino delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa in seguito al crollo degli imperi russo, austro-ungarico e tedesco. Fu persino reintrodotto il «visto» sui passaporti, ma, soprattutto, avvalendosi dei poteri straordinari ricevuti durante la guerra, il Consiglio federale istituì nel 1917 l’Ufficio centrale di polizia degli stranieri (la cosiddetta Polizia degli stranieri), destinata a diventare praticamente lo strumento politico-burocratico contro l’«inforestierimento».

Si sa che grazie alle misure adottate dalla Confederazione alcuni risultati erano stati raggiunti, per esempio, la quota degli stranieri sulla popolazione residente totale era scesa dal 14,7% di prima della guerra al 10,4% del 1920, sebbene il Consiglio federale ritenesse che il 10,4 % di stranieri costituisse pur sempre «una proporzione anormale per l'equilibrio della nostra popolazione».

Nessuno, tuttavia, era soddisfatto della situazione normativa riguardante gli stranieri perché non era costituzionalmente fondata, si prestava a grandi difformità cantonali.

Necessità di una riforma costituzionale

L’insoddisfazione per le misure eccezionali adottate dal governo era molto diffusa, anche perché la regolamentazione degli stranieri differiva da Cantone a Cantone, e da più parti si reclamava un disciplinamento legislativo federale uniforme della materia. Nel corso di un dibattito parlamentare del 1923 «sui provvedimenti da prendersi per favorire l'assimilazione degli stranieri in Svizzera e specialmente sulla revisione della legislazione concernente la naturalizzazione» fu chiesto ancora una volta al Consiglio federale di presentare al Parlamento una regolamentazione federale organica delle questioni relative al problema degli stranieri, specialmente quelle del soggiorno e della naturalizzazione.

Nel 1924, nella sua risposta il Governo non fece che ribadire che un intervento regolatore della Confederazione in materia di stranieri sarebbe stato possibile solo se ne avesse avuto la competenza costituzionale. Si trattava quindi di adottare in Parlamento la modifica costituzionale necessaria e sottoporla, come ogni modifica della Costituzione federale, al voto popolare. Il 25 ottobre 1925 fu sottoposto al voto popolare il «decreto federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri» già adottato dall'Assemblea federale il 19 giugno 1925, il quale, col nuovo articolo 69 ter, attribuiva in sostanza alla Confederazione «il diritto di far leggi sull'entrata, l'uscita, la dimora e il domicilio degli stranieri».

Ampio consenso popolare

La riforma costituzionale fu ampiamente approvata dal Popolo (col 62,2% di sì) e dai Cantoni (solo tre Cantoni - Friburgo, Ticino e Vallese – e un Semicantone – Appenzello Interno votarono contro) per cui la Confederazione poteva ora elaborare quella che sarà per decenni la legge più importante relativa agli stranieri e consentirà di adottare tutte le misure che riguarderanno la stabilizzazione, l’integrazione e la naturalizzazione degli stranieri. 

Sui risultati ottenuti con le leggi, le ordinanze, le misure di accompagnamento e l’impegno profuso dalla Confederazione, dai Cantoni e da altre istituzioni pubbliche e private in questa complessa materia le opinioni sono divergenti, ma dovrebbe essere innegabile che tutto si è svolto sulla base di un ampio consenso popolare, nella legalità e nel rispetto della Costituzione federale democratica.

Purtroppo, invece, alcune opinioni, che tali dovrebbero restare, si trasformano in certe narrazioni di pseudo-storici dell'immigrazione italiana in Svizzera in giudizi severi in base a categorie non attuali al tempo di quei provvedimenti, ignorando totalmente non solo il contesto, ma anche la base giuridica democratica e costituzionale. Tanto è vero che di fronte alle restrizioni introdotte con la legge del 1931 (di cui si tratterà prossimamente) nemmeno l'Italia è intervenuta a difesa del Trattato del 1868, ma riconobbe tacitamente la legittimità dei nuovi provvedimenti restrittivi introdotti unilateralmente dalla Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 25.06.2025

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