La Festa della
Donna (8 marzo) è come la classica giacchetta che viene tirata da ogni
parte per i più svariati interessi. Ci sono i fiorai che desiderano
incrementare le vendite invernali, i ristoranti per accrescere la loro cifra
d’affari, gli uomini per alleggerire con un bel mazzo di fiori o una cena al
ristorante i loro sensi di colpa, le stesse donne che intendono godersi almeno
per un giorno le luci della ribalta, i poeti per esaltare il femminismo, i
sociologhi per mettere a fuoco i ritardi nel lungo processo di avvicinamento
all’uguaglianza uomo-donna, gli statistici per misurarne la distanza ancora
esistente, la stampa religiosa per sfoggiare l’esaltazione della figura della
donna in alcuni testi biblici, tutti per gridare basta alla violenza sulle
donne e viva le donne! In realtà, qual è la situazione nella società civile e nella Chiesa?
Rapporto uomo-donna nella Chiesa

E nella Chiesa cattolica, come si presenta il rapporto
uomo-donna nell’ambito delle strutture e dei vertici organizzativi? E
soprattutto, è prevedibile un’evoluzione almeno analoga a quella che si osserva
nella società civile? Non è facile rispondere a queste domande, ma qualche
considerazione, il giorno della Festa della Donna, mi pare lecita.
Il punto di partenza
Anzitutto credo che il punto di partenza debba essere la
costatazione dell’infima rappresentanza femminile nella gerarchia
ecclesiastica, nei processi decisionali a tutti i livelli, dalla parrocchia
alla diocesi fino alla Curia romana, ma anche nell’amministrazione dei
sacramenti. La donna non solo non ha ruoli importanti, ma sembra non averne
affatto. La metà del Popolo di Dio non è adeguatamente rappresentata.
Le donne sono ancora in fondo alla scala dell’ordinamento
ecclesiastico. Fino a un secolo fa esse non potevano prestare alcun servizio
all’altare. Molto lentamente sono salite al primo gradino come Lettrici e ancor
più lentamente sono state ammesse alla distribuzione della comunione. Per
secoli è stata negata questa possibilità che pure era stata loro concessa, in
alcuni casi, già nel VI secolo. Un concilio della stessa epoca aveva tuttavia proibito
di ordinare diaconesse. .
Alle donne è ancora precluso il diaconato e proibito
predicare la Parola di Dio dall’altare
In alcuni casi il ruolo delle donne nella Chiesa preoccupa
persino il papa: «il ruolo del servizio a cui ogni cristiano è chiamato
scivola, nel caso delle donne, a volte, nei ruoli più di schiavitù che di vero
servizio» (papa Francesco, 2018). In
altri casi, invece, (per esempio in Svizzera), la situazione appare leggermente
migliore. La Chiesa, appoggiandosi alle aperture suggerite dal Concilio
Vaticano II, ha promosso da diversi decenni la formazione teologica di uomini e
donne coinvolgendo maggiormente gli uni e le altre nel servizio della
pastorale.
I progressi della Chiesa in questo campo sono comunque
inspiegabilmente lenti e occorrono talvolta non anni ma secoli per notarli. Osservando
la storia «umana» della Chiesa anche solo degli ultimi cento anni è facile
notare quanta poca strada ha fatto il principio consolidato in (quasi) tutte le
società civili dell’uguaglianza tra uomo e donna sul piano delle decisioni e
delle responsabilità.
Da Pio XI a Pio XII
Sono affermazioni importanti quelle fatte da Pio XI e da Pio
XII, ma oggi non bastano. Pio XI
(1922-1939), nell’enciclica Casti connubii (matrimonio casto) del
31.12.1930, sosteneva l’uguaglianza di diritti e di dignità tra marito e moglie
(pur restando il marito il capo della famiglia!). Pio XII (1939-1958) non aveva dubbi: uomo e donna sono
assolutamente uguali, pur nella diversità, per cui le donne devono partecipare
allo stesso titolo degli uomini alla trasformazione della società. Oggi però non
basta più riconoscere la grande dignità della donna nell’ambito familiare,
nella società civile e nell’apostolato sociale. Si vorrebbe l’applicazione di
questi principi anche all’interno della Chiesa.
Il Concilio Vaticano II e le donne
Le donne aspirano, legittimamente, ad assumere maggiori
compiti e responsabilità anche nella Chiesa, che sembra far fatica pure ad
ascoltarle.
E’ sintomatico che nemmeno il Concilio Vaticano II (1962-1965), quello che ha manifestato sinora la maggiore apertura nei confronti del mondo civile e delle donne, abbia sentito il bisogno di associarle alle riflessioni e alle decisioni conciliari. Alle varie sessioni hanno partecipato non meno di 2300 maschi tra cardinali, vescovi e teologi, e appena 23 donne, di cui 10 suore e solo come uditrici, ossia senza diritto di parola.
E’ sintomatico che nemmeno il Concilio Vaticano II (1962-1965), quello che ha manifestato sinora la maggiore apertura nei confronti del mondo civile e delle donne, abbia sentito il bisogno di associarle alle riflessioni e alle decisioni conciliari. Alle varie sessioni hanno partecipato non meno di 2300 maschi tra cardinali, vescovi e teologi, e appena 23 donne, di cui 10 suore e solo come uditrici, ossia senza diritto di parola.
Proprio durante il Concilio si levarono alcune voci di padri
conciliari per chiedere che almeno si discutesse dell’ammissione delle donne al
Lettorato, al Diaconato e persino al Sacerdozio. Non furono accolte se non in
minima parte. Infatti da allora le donne, durante la celebrazione eucaristica, possono
leggere, ma non annunciare il Vangelo e predicare, e possono distribuire la
comunione, ma senza affiancare il celebrante come diacone.
Spesso questa esclusione è giustificata come «volontà di
Cristo», argomentando che diversamente egli stesso avrebbe provveduto a
chiamare attorno a sé anche donne come apostole. Pur col rispetto che si deve a
eminenti teologi, mi pare un’argomentazione piuttosto debole per escludere le
donne dal servizio divino sull’altare. Tanto è vero che negli anni ’70
l’insistenza delle richieste di discutere il tema in ambienti appropriati
(specialmente nei sinodi pastorali) spinse alcuni vescovi a riconoscere la
legittimità della questione perché, secondo loro, non esisterebbero ragioni
teologiche contrarie, ma solo ragioni culturali superate.
Da Paolo VI a Benedetto XVI
Paolo VI
(1963-1978) arrivò a dichiarare «Dottore della Chiesa» (si noti il «dottore»)
due donne, santa Teresa d’Avila e santa Caterina da Siena, ma non andò oltre
nell’apertura alle richieste delle donne di poter accedere al diaconato e al
sacerdozio, senza che questo, secondo lui, costituisse una minore dignità della
donna rispetto all’uomo.
Giovanni Paolo II
è stato ancor più esplicito, affermando nella Lettera apostolica Ordinatio
sacerdotalis (ordinazione sacerdotale) del 1994 che «l’ordinazione
sacerdotale, mediante la quale si trasmette l’ufficio che Cristo ha affidato ai
suoi apostoli di insegnare, santificare e governare i fedeli, è stata nella
Chiesa cattolica fin dall’inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini».
Giovanni Paolo II non ha tuttavia emesso un verdetto definitivo al riguardo,
anzi ha affermato che «la diversità dei ministeri nella Chiesa è un’esigenze
vitale del corpo mistico, che ha bisogno di tutte le sue membra per svilupparsi
e richiede il contributo di tutti, secondo le attitudini proprie di ciascuno».
Benedetto XVI,
pur ritenendo che «la nostra fede e la costituzione del Collegio degli Apostoli
ci impegnino e non ci permettano di conferire l’ordinazione sacerdotale alle
donne», ha rivendicato maggiore spazio alle donne nella Chiesa e ha voluto
chiarire (una volta per tutte?) che «non bisogna pensare che nella Chiesa
l’unica possibilità di avere un qualche ruolo di rilievo sia di essere
sacerdote». Evidentemente aveva qualcosa di preciso in mente, ma non ha avuto
l’opportunità di manifestarla e, soprattutto, la forza di realizzarla.
Aperture di papa Francesco

Finora però anch’egli si è mosso nel solco della tradizione
e non è dato sapere, almeno a chi scrive, se anche in lui manca la forza di
rompere una tradizione o se questa forza non trova sufficiente sostegno nella
«burocrazia» vaticana per esprimersi, oppure se la questione è ritenuta dal
papa stesso così importante da richiedere il più ampio consenso possibile dei
massimi rappresentanti del Popolo di Dio, i vescovi, attraverso un Concilio.
E le donne cosa fanno?
Credo che possano fare molto. Anzitutto sfruttando al
massimo gli spazi che si sono aperti nelle comunità parrocchiali, nella stampa
cattolica, nei media in generale, nella pastorale, esprimendo per quanto
possibile tutti i loro carismi a sostegno del ministero sacerdotale e del
vescovo. Potrebbero anche creare correnti di pensiero, con ricerche e
approfondimenti anche teologici, per smuovere l’opinione pubblica ecclesiale in
modo che ai vertici della gerarchia ecclesiastica giungano con voce unanime,
sincera e ferma le loro richieste in qualità di membra della Chiesa animate
dallo Spirito.
L’unica cosa che le donne non dovrebbero fare è rassegnarsi,
stare ad aspettare o peggio ancora rinunciare a sperare.
Giovanni Longu
Berna, 07.03.2018
Berna, 07.03.2018