28 settembre 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 17. L’eredità degli immigrati italiani: emancipazione femminile (prima parte)

Continuando a chiederci quale eredità abbiano lasciato gli immigrati del dopoguerra (prima generazione) alle generazioni successive, non c’è dubbio che una della più preziose sia stata l’emancipazione femminile. Ci sono voluti decenni per raggiungere gli attuali livelli, non è stato facile arrivarci e, come è stato osservato in un altro articolo del 3 febbraio 2021 (https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2021/02/immigrazione-italiana-1970-1990-donne.html), l’uguaglianza con gli uomini (italiani e svizzeri) non è stata ancora raggiunta in tutti i campi. La tendenza è comunque chiara e irreversibile. Per le donne italiane (anche quelle binazionali) si tratta ora di proseguire gli sforzi per colmare le lacune esistenti, conservare il meglio della tradizione migratoria e diventare co-protagoniste nel rafforzamento e nello sviluppo dell’italianità.

Premesse necessarie

Il riferimento temporale dell’«emancipazione femminile» di cui si parla nell'articolo è compreso tra la prima metà degli anni Sessanta e il primo decennio del 2000. Il dato di partenza è la situazione delle donne italiane (quale risulta da resoconti giornalistici e autobiografici, studi e dati statistici) in alcuni dei campi più importanti (civile, sociale, politico, economico, culturale), confrontata con quella dei connazionali maschi e degli svizzeri in generale. La collocazione del momento iniziale agli inizi degli anni Sessanta si giustifica col fatto che l’ondata immigratoria di massa proveniente prevalentemente dal Sud Italia metteva bene in evidenza il divario (culturale, lavorativo, sociale) tra uomini e donne.

Va inoltre osservato che i cambiamenti sono avvenuti lentamente ma decisamente in un processo di arricchimento continuo a cui hanno contribuito molti fattori legati alla politica emigratoria italiana, alla politica immigratoria svizzera, ai mutamenti intervenuti nella percezione degli stranieri da parte degli svizzeri, all'integrazione sempre più accentuata della seconda generazione, ma soprattutto all'intraprendenza, alla lungimiranza, alla costanza e al genio femminile italiano.

Si sa che nei fenomeni umani la generalizzazione è rischiosa e pertanto andrebbe per quanto possibile evitata, ma in questo caso è inevitabile, pur riconoscendo che anche negli anni Sessanta c’erano donne e gruppi di donne pienamente emancipate. Addirittura nella prima ondata immigratoria del dopoguerra (per una decina d’anni) le vere protagoniste sono state le donne, denotando grande spirito d’iniziativa, coraggio, indipendenza, capacità di muoversi a proprio agio anche in situazioni difficili. Pure in seguito, benché per esse sia stato molto più difficile che per gli uomini sviluppare tali caratteristiche, soprattutto nell'ambiente lavorativo e familiare, le donne si sono sempre distinte come lavoratrici, madri, compagne di vita, disposte ad ogni sacrificio per il bene della famiglia.

Sotto il profilo della visibilità sociale, delle possibilità di sviluppo, della formazione, della carriera professionale, per le donne è stato invece sempre molto difficile emergere e raggiungere la parità con gli uomini. L’ambito delle donne è rimasto a lungo ristretto e faticoso perché spesso gravava su di esse contemporaneamente il doppio lavoro, fuori e dentro casa (lavori generalmente poco qualificati e mal retribuiti fuori, i cosiddetti lavori domestici in casa), la cura dei bambini, i rapporti con la scuola, l’assistenza ai familiari bisognosi, il volontariato nelle associazioni caritative, ecc.

Situazione iniziale

Negli anni Sessanta la situazione delle donne immigrate era certamente peggiore di quella degli uomini sia nell'ambiente di lavoro che in famiglia e nella società. Gli uomini bene o male avevano nel lavoro un’apertura al mondo, un luogo d’incontro sociale, una scuola dove imparare a conoscere (meglio) le tecniche lavorative, le persone (con le quali era inevitabile almeno un dialogo rudimentale, che poteva continuare anche dopo il lavoro), il mondo che cambiava. Anche fuori dell’ambiente lavorativo gli uomini avevano momenti di distensione e «ricreazione» specialmente nelle associazioni.

Al contrario, per le donne il lavoro era spesso precario e il luogo di lavoro meno ricco di opportunità d’incontri e di conoscenze, perché le attività svolte, ad un ritmo spesso elevato, erano generalmente pesanti, monotone, ripetitive, stressanti, che richiedevano comunque concentrazione. Anche l’ambiente umano era diverso perché le pause erano solitamente corte e finito il lavoro ognuna doveva correre a casa per preparare la cena, prendersi cura dei bambini, lavare, stirare, ecc. Il «tempo libero» era minimo e la frequenza delle associazioni limitata. I rari momenti di svago erano limitati per lo più a qualche festa e a qualche incontro domenicale con le amiche.

Sulle donne, all'epoca dell’immigrazione di massa, gravava inoltre un preconcetto, di cui probabilmente le stesse protagoniste non si rendevano conto. Si riteneva generalmente, anche nel linguaggio comune, che i veri emigranti erano gli uomini non le donne. Le donne seguivano (talvolta anche clandestinamente) gli uomini, per non lasciarli soli e non rimanere sole, per contribuire anch'esse a formare il gruzzolo per cui erano emigrati i partner, a costo di rinunciare anche a quel poco di autonomia che godevano prima di partire. La situazione era destinata paradossalmente a peggiorare quando ai compagni o ai mariti si aggiungevano i figli, perché il carico dei problemi gravava soprattutto su di esse.

Percorso difficile e sofferto

Da numerose testimonianze si sa quanta sofferenza, quanta frustrazione e quanta depressione dovettero sopportare molte donne italiane immigrate non solo per le condizioni di lavoro e le esigenze familiari, ma anche per l’isolamento, la mancanza di sostegno, lo scarso tempo libero. La casa e i figli assorbivano gran parte del tempo che non dedicavano al lavoro (per cui spesso era un sollievo persino andare a lavorare). A loro stesse, alla cura della persona, alle amicizie, a qualche piccolo svago potevano dedicare ben poco tempo, senza che rimordesse loro la coscienza.

Sulla condizione della donna italiana adulta pesava anche la mentalità tipica della prima generazione, che vedeva la ragione principale dell’emigrazione nel desiderio di guadagno e di risparmio, per cui non si rifiutavano gli straordinari, i turni notturni, il lavoro a cottimo, il doppio lavoro, l’alloggio a basso costo e senza confort, ecc. In molti uomini c’era però sicuramente anche il timore, in verità mai confessato pubblicamente, che i redditi da lavoro potessero rendere anche le donne immigrate più autonome sull'esempio delle donne svizzere. Anche per questo, quando i mariti guadagnavano abbastanza e c’erano in famiglia dei figli difficilmente le donne andavano a lavorare. Persino quando fu estesa la possibilità di mandare i bambini già in tenera età negli asili nido, molti mariti preferivano che le madri restassero a casa per accudirli.

Sulle donne pesavano, inoltre, e molto, le difficoltà di comunicazione soprattutto con gli svizzeri per le note carenze linguistiche della prima generazione. Per di più, negli anni Sessanta, la maggior parte delle donne era di origine contadina e con un basso livello di scolarità (che non superava solitamente il secondo grado inferiore); molte di esse, essendo analfabete, non avevano alcuna possibilità di affermarsi professionalmente.

Miglioramento negli anni ’80 e ‘90

Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, i cambiamenti nell'ambiente della migrazione divennero significativi. I comportamenti sociali degli svizzeri influirono sensibilmente su quelli degli italiani soprattutto grazie alla seconda generazione (portata facilmente a fare i confronti), alla loro integrazione e al lento miglioramento della comunicazione in generale. L’obiettivo di molte donne divenne raggiungere lo stato delle donne svizzere, più formate, più sicure di sé, più autorevoli, più indipendenti e anche meno casalinghe. Per raggiungerlo ci voleva tanto coraggio e spirito di sacrificio, ma le donne italiane ne avevano in abbondanza.

Il cambiamento fu registrato anche dalla demografia. Dopo aver toccato nel 1970 il numero massimo di matrimoni concernenti cittadini italiani (4.227), il loro numero cominciò a scendere (a parte una leggera risalita a cavallo del 1990), come avveniva tra gli svizzeri. La diminuzione più sensibile si registrò nei matrimoni tra concittadini italiani, appena 415 nel 2003, mentre ci furono solo oscillazioni nei matrimoni misti con svizzeri o svizzere. Anche il numero delle nascite da madre italiana, dopo aver raggiunto il massimo storico nel 1969 con 19.101 nati vivi, diminuì conseguentemente e la tendenza regressiva continua (2020: 2.729 nascite).

I cambiamenti più significativi si ebbero tuttavia soprattutto nell'attività lavorativa, nella formazione, nella partecipazione sociale e politica, come si vedrà in altro articolo.

Giovanni Longu
Berna, 28.09.2022