02 giugno 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 43. La formazione professionale garanzia d’integrazione (1a parte)

Nel periodo 1970-1990 della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, la votazione sull’iniziativa antistranieri di J. Schwarzenbach (7 giugno 1970) ha segnato indubbiamente una svolta decisiva. Essa ha infatti avviato negli ambienti politici svizzeri un cambiamento radicale della politica immigratoria orientandola alla stabilizzazione e all'integrazione e nella popolazione svizzera la presa di coscienza dell’esistenza di un’importante componente straniera quale parte integrante della società. Nella collettività italiana immigrata la necessità della svolta era stata avvertita già a metà degli anni Sessanta, quando si cominciò a percepire chiaramente che l’integrazione doveva cominciare con una solida formazione scolastica e professionale e furono avviate le prime iniziative mirate in questa direzione (assistenza scolastica, corsi CISAP, ecc.). Nel periodo in esame gli interventi si moltiplicarono e cominciarono a dare i primi frutti di un’effettiva integrazione.

Situazione fino alla metà degli anni Sessanta

In questo e nei prossimi articoli si cercherà di approfondire il senso della svolta per gli immigrati italiani attraverso la formazione e l’integrazione professionale sull’esempio delle iniziative del CISAP (Centro italo-svizzero di formazione professionale) avviate con successo dalla metà degli anni Sessanta. L’attività di questa istituzione è stata per diversi aspetti esemplare, ma è ancora poco conosciuta. Merita pertanto un approfondimento, che può aiutare a capire meglio il grande cambiamento intervenuto nella collettività italiana in Svizzera nel periodo considerato.

Manuel Campus, La stazione di Milano (Casa d’Italia di Berna)

Oggi gli Stati, i Governi, l’Unione Europea (UE), ma anche la Svizzera, non da ultimo grazie alla facilità di mobilitazione dell’opinione pubblica, sembrano più attenti che in passato ai bisogni dei gruppi più deboli della popolazione e più disposti a intervenire con massicci investimenti per risolvere almeno i problemi più gravi e urgenti. Nel periodo in esame la situazione era ben diversa, tanto è vero che fino alla metà degli anni Sessanta nessuna istituzione pubblica, né svizzera né italiana, sentiva il bisogno d’intervenire nel campo della formazione professionale degli stranieri allo scopo di favorire la loro integrazione qualificata nel mondo del lavoro e migliorare di conseguenza la loro condizione esistenziale.

Il Consiglio federale indicava la stabilizzazione e l’integrazione della manodopera straniera come obiettivi da raggiungere, ma non forniva gli strumenti e non stanziava i fondi necessari per raggiungerli. L’Italia sembrava accontentarsi di erogare qualche sussidio a destra e a manca e d’intervenire presso le autorità svizzere solo in casi di presunta violazione degli accordi bilaterali, di gravi disgrazie o episodi clamorosi a danno di connazionali. Eppure alcune associazioni di immigrati informavano regolarmente i principali partiti politici sulle penose condizioni riguardanti il lavoro, l’alloggio, le differenze salariali, i diritti civili, la sicurezza sociale degli immigrati.

Quando i negoziatori italiani che trattavano con la controparte svizzera un nuovo accordo di emigrazione (primi anni ’60 del secolo scorso) chiesero interventi a garanzia della scolarizzazione dei figli dei lavoratori italiani, si dimenticarono totalmente di discutere la situazione dei giovani immigrati senza «formazione professionale» (un’espressione che non compare mai nei documenti relativi al negoziato). Probabilmente non conoscevano affatto il mondo del lavoro svizzero.

Allora erano inimmaginabili i Recovery Fund, Recovery Plan o Integration-Agenda di cui tanto si parla attualmente e non c’erano nemmeno modelli d’integrazione e di sviluppo sulle generazioni future, anche se, per i giovani, al termine dell’obbligo scolastico, esisteva già un sistema efficace e consolidato di formazione professionale. Per gli stranieri, invece, pur avendo magari da poco terminata la scuola obbligatoria, le istituzioni pubbliche svizzere non avevano né modelli né punti di riferimento né idee per integrarli adeguatamente nel mondo del lavoro e nella società. Anche le istituzioni italiane, non diversamente da quelle svizzere, sembravano addirittura ignorare il problema.

Immigrati italiani scarsamente qualificati

Le rappresentanze delle istituzioni pubbliche italiane non brillavano nemmeno per sensibilità nei confronti dei connazionali emigrati. Talvolta davano persino l’impressione di «doversi» occupare non di concittadini «normali», ma di quella parte di essi considerata sfortunata, perché costretta ad emigrare, con un basso livello di scolarizzazione e talvolta analfabeta, incapace di interloquire con gli svizzeri perché priva di conoscenze linguistiche sufficienti, interessata al salario e alla maniera di aumentarlo con lo straordinario e il cottimo più che al perfezionamento professionale, ad imparare la lingua del posto, a migliorare le proprie conoscenze professionali, ecc.

Allievi tornitori del CISAP (1970)

Purtroppo la letteratura sulle condizioni degli immigrati in Svizzera ha sempre evidenziato soprattutto gli aspetti penosi dell’emigrazione e nell'immaginario collettivo lo stereotipo dell’emigrato è stato per decenni una figura triste e rassegnata (come gli emigranti del pittore Manuel Campus alla stazione di Milano) per cui è difficile trovare anche nel periodo in esame figure opposte di immigrati che hanno saputo trasformare la loro condizione iniziale in una specie di trampolino di lancio per migliorarla, esaltarla e portarla a un livello tale da prospettare anche per i loro figli e nipoti condizioni di progettualità esistenziale per nulla diverse rispetto ai coetanei svizzeri.

Eppure, tra gli immigrati italiani e le loro famiglie, soprattutto dopo il 1970 era sempre più diffuso il desiderio di vivere in Svizzera in una condizione di «normalità», tipica di chi in una società complessa e multietnica si sente a proprio agio perché è rispettosa di tutte le sue componenti, è solidale e capace di svilupparsi in modo da godere insieme della prosperità raggiunta concordemente.

Inoltre, a molti stranieri e specialmente agli italiani, non piaceva nemmeno essere considerati Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», ad un livello inferiore a quello degli svizzeri, pur rendendosi conto che tra loro e gli svizzeri le differenze salariali era spesso notevoli, non perché il lavoro da loro svolto fosse quantitativamente e qualitativamente inferiore, ma perché quasi tutti gli svizzeri avevano una qualifica professionale e gli stranieri (italiani) no. In effetti gli stranieri erano prevalentemente «operai» (circa 2/3, mentre erano operai solo circa 1/3 degli svizzeri) e senza qualifica professionale, a differenza della maggior parte degli svizzeri che avevano seguito un apprendistato.

Presa di coscienza tra gli immigrati

Per decenni l’immigrato italiano era venuto in Svizzera come stagionale o comunque per un tempo limitato ed era comprensibile che approfittasse della stagione o dell’anno per lavorare e guadagnare il più possibile. Il suo scopo era tornare a casa con un gruzzolo. Quando negli anni Sessanta ci si accorse che il tempo dell’emigrazione si allungava e la prospettiva del rientro in Italia si allontanava sempre più, cominciò a farsi strada in molti immigrati l’idea che per entrare nella «normalità» dovesse far parte del bagaglio che ognuno si portava appresso anche una formazione professionale almeno simile a quella dei compagni di lavoro svizzeri.

Realizzare quell’idea nel contesto appena descritto non è stato facile, anche perché si trattava d’inventare una strada finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo indicato e percorribile anche da chi aveva terminato la scuola da diversi anni, non praticava da tempo alcuno studio, non aveva più alcuna familiarità con i libri di scuola e con le formule, sebbene fosse disposto a sacrificare gran parte del suo tempo libero e a non arrendersi alle prime difficoltà.

L’impresa riuscì, come si vedrà meglio in seguito, ad un gruppo alquanto eterogeneo, ma dotato di grandi capacità progettuali, coraggioso, intelligente e lungimirante. Del gruppo facevano parte soprattutto immigrati ormai ben inseriti nel mondo del lavoro e buoni conoscitori del sistema economico, politico, sociale e culturale svizzero, ma anche esponenti di istituzioni svizzere e italiane, tutti animati dallo stesso spirito di solidarietà e dallo scopo di dare ai volenterosi immigrati che lo desideravano la possibilità di integrarsi attraverso una formazione professionale efficace e comparabile a quella dell’apprendistato svizzero.

Di questo gruppo, costituitosi in seguito in associazione, denominata CISAP (Centro italo-svizzero addestramento professionale), si è già trattato in diversi articoli alcuni mesi fa. In questi s’intende sottolineare quello che si potrebbe chiamare il «Modello CISAP», per il suo carattere paradigmatico non solo nel campo della formazione professionale per adulti, ma anche in altri campi dove la riuscita dipende da molteplici fattori, tutti indispensabili. (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 02.06.2021