11 novembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 29. I giovani e la formazione professionale

Negli anni Settanta divenne acuto il problema della formazione professionale della seconda generazione. Le iniziative antistranieri e soprattutto la crisi economica del 1974-76 avevano dato forti segnali di cambiamento nell’economia svizzera, che avrebbe interessato anche molti italiani. Già prima, il governo federale aveva fatto capire chiaramente di voler dare una svolta alla politica liberale in materia d’immigrazione ispirandosi a criteri di riduzione, stabilizzazione e integrazione degli stranieri. Per gli italiani avrebbe significato meno nuovi arrivi e più rimpatri. Per l’industria, che si reggeva in alcuni rami grazie al contributo degli immigrati, avrebbe comportato la rinuncia a un gran numero di collaboratori non potendo più contare su un approvvigionamento illimitato di lavoratori stranieri e il ricorso a importanti ristrutturazioni e razionalizzazioni. Per restare sul mercato molte imprese sarebbero state costrette non solo a ristrutturarsi, ma anche a investire cospicue somme in nuovi impianti, nuove tecnologie e collaboratori meglio preparati.

Italiani preoccupati…

Negli anni ‘70-80 molti italiani volevano diventare automeccanici (foto Cisap)

 

Agli industriali, ai sindacati e agli osservatori del settore appariva chiaro che al termine del processo l’esigenza di manodopera non qualificata o poco qualificata si sarebbe notevolmente ridotta, mentre sarebbe cresciuto parallelamente il bisogno di personale sempre più qualificato e specializzato. Un vago senso dei cambiamenti che stavano per stravolgere il vecchio sistema produttivo dell’economia svizzera era percepito anche dai lavoratori immigrati. Specialmente nel periodo della crisi, la continua emorragia di forze di lavoro, soprattutto straniere, non poteva passare inosservata dagli stessi stranieri, molti dei quali avranno sicuramente notato che a perdere il posto di lavoro erano soprattutto i lavoratori generici, né specializzati né qualificati.

Si può ben ritenere che, in famiglia, questi lavoratori immigrati, abbiano guardato con preoccupazione al futuro dei loro figli, soprattutto se avevano deciso di restare a tempo indeterminato in Svizzera. Non bastava, infatti, volere per loro una vita diversa, meno pericolosa, meno precaria, meno dipendente dagli altri. Né serviva molto essere convinti che per riuscire dovessero studiare. Purtroppo molti genitori italiani furono lasciati soli ad immaginare futuri fantasiosi. Fatta eccezione per pochissime associazioni (una per tutte quella del CISAP) che prendevano seriamente a cuore la problematica, l’associazionismo italiano non era nemmeno in grado di offrire suggerimenti praticabili oltre ai generici «imparare un mestiere», «chiedere al datore di lavoro», «rivolgersi al Consolato» e simili.

… e impreparati

Occorre anche dire che in generale gli immigrati non si rendevano ancora ben conto dell’importanza della formazione professionale. Erano venuti in Svizzera già con un contratto di lavoro per svolgere determinate attività (per lo più lavori poco qualificati) e non sentivano il bisogno di una conoscenza approfondita del mestiere. La qualificazione professionale non rientrava nei loro obiettivi, che si limitavano essenzialmente all’accumulazione di un risparmio che permettesse loro nel tempo un ritorno nel Paese d’origine (M. Monferrini).

Inoltre, la maggior parte dei genitori immigrati non aveva alcuna esperienza di orientamento professionale, stages conoscitivi, rapporto prestazione scolastica-apprendistato e spesso non aveva nemmeno sufficienti conoscenze linguistiche per informarsi in modo appropriato delle varie possibilità al termine della scuola obbligatoria.

Come avrebbero potuto questi genitori sostenere i figli nella progettazione del loro futuro professionale? Tanto più che le professioni in cui erano concentrate le attività degli immigrati erano pochissime, una decina, mentre per gli svizzeri le possibilità di scelta concernevano centinaia di professioni. In questa situazione, senza aiuti adeguati, la seconda generazione rischiava seriamente di ripercorrere le orme dei genitori.

L’orientamento professionale

E’ vero che anche negli anni Settanta, al termine dell’obbligo scolastico, i giovani venivano informati sulle possibilità di proseguire la formazione, ma la scelta era tutt’altro che facile. Come poteva un ragazzo figlio di immigrati, in quelle condizioni, scegliere se proseguire gli studi (ginnasio, lice, università) o imparare una professione da perfezionare eventualmente in seguito attraverso scuole tecniche di alto livello? Purtroppo il sistema ufficiale di orientamento professionale era poco conosciuto dagli immigrati e scarsamente frequentato, anche per una certa diffidenza nei confronti degli orientatori che fondavano i consigli soprattutto sulle prestazioni scolastiche e tenevano in poca considerazione le aspirazioni degli interessati.

Dagli anni ‘70 molti italiani cominciarono a studiare l’elettronica (foto Cisap)
Concretamente, a un allievo che aveva seguito solo una scuola primaria (elementare) venivano prospettate soltanto formazioni elementari e orientate prevalentemente alla pratica (apprendistati di corta durata, due o tre anni). A un allievo che proveniva da una scuola di grado secondario inferiore (scuola media) con buone prestazioni si prospettavano invece apprendistati più esigenti e più lunghi (generalmente quattro anni) e un corredo molto ampio di conoscenze teoriche (professionali e culturali).

Di fatto, negli anni Settanta e Ottanta, la maggior parte dei giovani stranieri (italiani) poté seguire solo apprendistati meno impegnativi e solo pochi seguirono apprendistati lunghi ed esigenti. Purtroppo ci furono anche giovani italiani, spesso venuti per ricongiungersi con la famiglia dopo aver frequentato la scuola obbligatoria in Italia, che non riuscirono a seguire un regolare apprendistato per carenze linguistiche. Pochissimi italiani, negli anni Settanta e Ottanta, riuscirono a proseguire gli studi in un liceo o altra scuola corrispondente e poi all’università.

Importanza della formazione professionale

Ripensando a quel periodo, oggettivamente molto difficile per l’immigrazione italiana, non si può negare, come è stato ricordato in articoli precedenti, che i risultati della seconda generazione sono stati sovente al di sotto delle attese. Sarebbe tuttavia ingiusto addossarne le responsabilità solo alle magre prestazioni dei giovani o al sistema fortemente selettivo della formazione in Svizzera. I giovani andrebbero considerati i meno responsabili perché erano in gran parte privati del sostegno e degli aiuti familiari che ricevevano i coetanei svizzeri.

Negli anni 70-80 molti italiani divennero meccanici (foto Cisap)

Quanto al sistema formativo svizzero è innegabile che fosse, soprattutto allora, ossessionato dalle prestazioni e pertanto fortemente selettivo e penalizzante nei confronti degli stranieri. Non si può tuttavia negare che l’organizzazione dell’immigrazione italiana (dalle rappresentanze diplomatiche e consolari, agli organismi di rappresentanza e alle varie associazioni) sia stata inadeguata alle esigenze della seconda generazione che era destinata con grandissima probabilità, come sostenevano le autorità e i sindacati svizzeri, a restare e a integrarsi in Svizzera.

E’ emblematico che in quel periodo la via degli studi sembrasse per i figli degli immigrati più gratificante della via dell’apprendistato, perché allora prevaleva ancora la prospettiva di un rientro in Italia, dove gli studi e la laurea godevano, soprattutto nei ceti medio-bassi, di grande prestigio sociale. Pochi consideravano la fabbrica o il cantiere possibili luoghi d’integrazione e di crescita, perché svizzeri e stranieri non svolgevano gli stessi compiti, alle stesse condizioni e con la stessa competenza. Moltissimi non si rendevano conto che l’ostacolo alla parità era soprattutto la mancanza di competenza professionale certificata.

L’integrazione professionale e sociale

Eppure già allora, nella nuova politica immigratoria svizzera, l’attività professionale competente e provata era considerata un importante criterio d’integrazione sociale. E anche numerosi stranieri, della prima e della seconda generazione, cominciavano a rendersene conto dopo aver frequentato i corsi serali di formazione professionale tipo quelli organizzati dal CISAP a Berna e in altre regioni della Svizzera. La competenza professionale acquisita dava loro sicurezza, miglioramenti salariali, rispetto e stima dentro e fuori dell’azienda.

L’importanza della formazione professionale richiese tuttavia molto tempo prima di radicarsi nella collettività immigrata, ma sia pure lentamente stava diventando un aspetto fondamentale di qualunque discorso sull’integrazione, a tal punto da far ritenere che senza una buona integrazione sul lavoro difficilmente ci può essere un’integrazione sociale. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 11.11.2020