27 ottobre 2010

E’ fallito il modello di società multiculturale?

Questa domanda è stata riproposta all’opinione pubblica da molti media all’indomani di una presunta dichiarazione della Cancelliera tedesca Angela Merkel che, in occasione di un incontro politico con i sostenitori del suo governo, il 17 ottobre scorso, avrebbe affermato senza mezzi termini che il modello di una Germania multiculturale era «completamente fallito».
In realtà si tratta di una domanda ricorrente ormai da alcuni decenni ogniqualvolta si affrontano problemi scottanti di politica migratoria e alla quale non solo gli individui ma anche gli Stati cercano di rispondere… ognuno a modo proprio. In questo articolo non intendo risollevare la questione del multiculturalismo, che meriterebbe ben più ampio spazio, ma, preso un po’ per i capelli da un fedele lettore di questa rubrica che mi ha chiesto la mia opinione, desidero proporre alcune considerazioni al riguardo.
Anzitutto ritengo che ogni affermazione perentoria del tipo riportato sopra dai media vada collocata nel suo contesto. Sarebbe tuttavia troppo lungo ricordare anche solo per sommi capi l’attuale dibattito tedesco sulla politica migratoria della Germania e sulle difficoltà d’integrazione di molti immigrati. Basti perciò ricordare soltanto alcuni fatti e dati.

Il caso tedesco
Un primo fatto è che i partiti democristiani che sostengono la Merkel sembrano in calo di consensi e l’anno prossimo si svolgeranno in alcuni importanti Länder test elettorali che rischiano di far crollare le simpatie verso questi partiti a vantaggio sia del tradizionale partito antagonista socialdemocratico che di un nascente partito di destra che si caratterizza fra l’altro per certe idee anti-islamiche. Alcuni dati riportati dai media aiutano a completare il quadro: il 50% dei tedeschi sembra non gradire i musulmani (che rappresentano ormai il 5% della popolazione) e il 35% ritiene che la Germania sia «sommersa» da stranieri, per non parlare dei numerosi nostalgici di altri tempi (!). Sembra anche che vada a ruba un libro recente di un ex alto funzionario tedesco secondo cui la Germania va autodistruggendosi a causa della massiccia immigrazione musulmana. E sono in tanti a ritenere che nei confronti degli stranieri bisognerebbe essere più esigenti e più decisi e che, per dirla con la Merkel, «gli immigrati che vivono in Germania dovrebbero fare di più per integrarsi, compreso imparare il tedesco».
L’intervento della Merkel va dunque visto anzitutto in questo contesto «politico» e «culturale» tedesco: per non farsi erodere simpatie a destra deve dire «cose di destra», senza tuttavia lasciarsi trascinare in una prospettiva antistorica e insostenibile come sarebbe ad esempio l’anti-islamismo. Inoltre, il fallimento di cui parlava la Merkel andrebbe contestualizzato nel discorso di ampio respiro che teneva a una platea del suo partito conservatore CDU e della sua ala bavarese CSU. Cito solo un passaggio chiarificatore: «All’inizio degli anni Sessanta abbiamo invitato i lavoratori stranieri a venire in Germania, e adesso vivono nel nostro paese. Ci siamo in parte presi in giro quando abbiamo detto ‘Non rimarranno, prima o poi se ne andranno’, ma non è questa la realtà. L’approccio multiculturale e l’idea di vivere fianco a fianco in serenità è fallito, fallito completamente».
Alla luce di queste espressioni, sembrerebbe che l’affermazione attribuita dai media alla Merkel non si riferisse tanto al multiculturalismo quanto piuttosto a un modello particolare di società multietnica e multiculturale. Resta comunque difficile, almeno per chi scrive, dare un significato preciso alle parole della Merkel, fortemente condizionate dal momento politico e sociale della Germania. Esse si prestano comunque a qualche considerazione, con particolare riferimento alla situazione svizzera.

Considerazioni generali
Seguendo i resoconti della stampa, la mia prima impressione è stata la sorpresa di leggere nel 2010 considerazioni e affermazioni che mi ricordavano tempi passati ormai da decenni. Come non ricordare ad esempio la celebre frase di Max Frisch della metà degli anni Sessanta: «abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini» o le ammissioni di molti politici dei decenni successivi che credevano di giustificare il mancato impegno per una politica d’integrazione affermando che l’immigrazione era ufficialmente (fin dagli anni Trenta) temporanea, a rotazione e non stabile.
E’ anche quantomeno sorprendente che in Germania l’«approccio multiculturale» sia stato visto – così sembrerebbe – come una sorta di pura «convivenza fianco a fianco», senza rapporti e senza scambi. Questo approccio, che ha prodotto i ghetti stranieri, in Svizzera è stato superato, almeno politicamente (meno nella realtà), non appena ci è resi conto che gli immigrati diventavano sempre più parte stabile della popolazione. Chi ha avuto occasione di occuparsi di questi problemi a partire dagli Anni Settanta del secolo scorso ricorda benissimo gli sforzi, dapprima prevalentemente intellettuali per elaborare un «concetto» di integrazione sostenibile e poi pratici, per cercare di abbattere gli steccati e i pregiudizi tra popolazione locale e stranieri, per stabilire contatti e favorire scambi, per agevolare l’integrazione degli stranieri attraverso le conoscenze linguistiche, la formazione professionale, la partecipazione sindacale, lo sport, l’associazionismo. In quegli anni si gettarono molti ponti su cui transitarono e continuano a transitare, in entrambi i sensi, soprattutto le nuove generazioni sia di stranieri che di svizzeri.
A prescindere dalle affermazioni della Cancelliera Merkel, però, non c’è dubbio che il problema generale da essa sollevato è reale e comune a molti Paesi, meno forse per la Svizzera. E’ anche vero che il termine «multiculturalismo» non è univoco, per cui è possibile che esso sia in certe accezioni «fallito», mentre in certe altre ancora sostenibile. Ma non c’è dubbio che il rapporto tra immigrazione e integrazione resta un problema aperto per tutte le società in cui la popolazione è «composita» e di origini linguistiche, culturali e religiose molto diverse.
La Merkel accennava nel suo intervento anche al problema delle religioni, a mio avviso non tanto per introdurre giudizi di valore o gerarchie, ma per sostenere un principio di tolleranza reciproca. Quando diceva che «l’Islam fa parte della Germania» intendeva affermare che della religione, di tutte le religioni, si deve portare rispetto, ma anche che «noi ci sentiamo legati ai valori cristiani e chi non lo accetta, non è nel suo posto qui».
Andando oltre le parole della Merkel, credo che nell’ottica di un’integrazione sostenibile il principio della semplice tolleranza sia insufficiente se non è accompagnato da un altro principio altrettanto fondamentale, quello della reciprocità, ossia il rispetto dell’altro (con un occhio di riguardo alle tradizioni e alle convinzioni della maggioranza) e lo scambio. Credo che non giovino allo sviluppo di alcuna società né le guerre di religione né gli scontri culturali. Penserà il tempo ad appianare le divergenze.

L’esempio della Svizzera
Da un punto di vista puramente demografico non c’è dubbio che molti Paesi dell’Europa occidentale, per limitarci a quest’area geografica, hanno popolazioni composite soprattutto dopo le grandi migrazioni del periodo postbellico, sono cioè plurietniche e pluriculturali. Sotto questo aspetto, dunque, non si può sostenere che «il multiculturalismo è fallito».
Inizialmente molti di questi Paesi hanno considerato gli immigrati «ospiti», ossia di passaggio e quindi non integrabili. E’ anche vero che molti stranieri non avevano alcuna intenzione di fermarsi a lungo e di integrarsi. Ma da quando i migranti sono divenuti stabili, nessun Paese ha ritenuto impossibile la convivenza di persone di origini diverse e ognuno si è adoperato per elaborare e realizzare una qualche politica migratoria e d’integrazione. A distanza di anni è possibile che qualche previsione non si sia realizzata e che una certa illusione di veder crescere armoniosamente popolazioni di cultura, lingua, religione, mentalità diverse sia completamente fallita.
Anche la Svizzera, per decenni, ha ritenuto che l’immigrazione fosse un fenomeno temporaneo e non ha fatto nulla per integrare gli stranieri che sempre più numerosi si stabilivano in questo Paese. Dagli inizi degli Anni Settanta del secolo scorso, però, la Svizzera ha cominciato a elaborare e perfezionare nel tempo una politica d’integrazione che ha già dato notevoli risultati, anche se non ha ancora raggiunto tutti i suoi obiettivi. Se non fosse così non si spiegherebbe il fatto che almeno un terzo della sua popolazione è straniera o ha origini straniere e i vari gruppi convivono pacificamente a livelli d’integrazione che tendono costantemente a migliorare.
Chi ricorda i tempi delle iniziative a raffica antistranieri oggi deve costatare, piacevolmente, che dal panorama politico svizzero sono scomparsi i movimenti xenofobi e che l’unico partito che ne ricalca in qualche misura le orme, l’Unione democratica di centro, è oggi un partito di governo, non chiede più di ricondurre la popolazione straniera a percentuali del 10% (come chiedeva Schwarzenbach nel 1970) o poco più elevate (come chiedevano i successivi movimenti e partiti xenofobi) e si accontenta, si fa per dire, di chiedere il divieto di costruire minareti e di espellere gli stranieri criminali.
Si dirà che la Svizzera non fa testo perché il multiculturalismo è nella sua essenza. Ed invece credo proprio che possa far testo perché anche in questo Paese il livello raggiunto, pur non essendo ancora ottimale, è notevole ed è frutto non del caso o di un pacifismo ad oltranza, ma di una volontà politica precisa. E lungi dall’essere un risultato acquisito per sempre, la pluralità linguistica e culturale rappresenta per la Svizzera una sfida costante. Lo ricordava qualche settimana fa il consigliere federale Didier Burkhalter intervenendo alla Festa della Convivenza, nei Grigioni: «Questa pluralità rappresenta una forza, ma anche una sfida (…) e consiste nel sottolineare fra tutte le differenze ciò che ci unisce e trovare l'unità nella diversità (…) La coesistenza pacifica di diverse lingue e culture è già un risultato notevole, ma nel nostro caso non possiamo ritenerci soddisfatti». E parlando proprio della politica d'integrazione, diceva ancora: «Negli ultimi anni è stato fatto molto in questo ambito, ma si deve fare ancora di più e la politica d'integrazione dev'essere sistematica affinché il semplice vivere gli uni accanto agli altri tra svizzeri e stranieri si trasformi sempre più in un vivere insieme gli uni con gli altri (e mai contro gli altri)».
A questo punto credo che sia facile concludere, rispondendo implicitamente alla domanda iniziale, che una società multiculturale è senz’altro possibile, purché tutte le sue componenti si riconoscano, si rispettino e collaborino nell’osservanza delle regole democratiche.

Giovanni Longu
Berna, 27.10.2010