03 febbraio 2021

Immigrazione italiana 1970-1990: 36. Donne svizzere in marcia. E le immigrate?

Il ventennio (1970-1990) preso in considerazione è stato caratterizzato, fra l’altro, dalla piena emancipazione politica delle donne svizzere che sono riuscite a conquistarsi il diritto di voto e di eleggibilità a tutti i livelli (7 febbraio 1971). L’evento, di portata storica per la democrazia svizzera, è giustamente celebrato con manifestazioni e rievocazioni. Esso merita un accenno pure in questa serie di articoli perché è probabile che il suffragio femminile abbia influito positivamente sulla politica migratoria federale. Inoltre, la ricorrenza offre lo spunto per chiedersi se anche nel campo delle italiane immigrate si è osservato in quegli anni un analogo dinamismo di lotta e di conquista.

Il suffragio femminile in Svizzera

Manifestazione di donne svizzere per il diritto di voto.
Il diritto di voto e di eleggibilità delle donne a livello federale è stato riconosciuto solo nel 1971, ma era da oltre un secolo che le donne lottavano per ottenerlo. Nei loro confronti erano stati fatti valere non solo pregiudizi maschilisti, ma anche una generica ripartizione dei ruoli accettata tacitamente anche dalle donne per cui, per esempio, alla donna moglie e madre competeva la gestione dell’economia domestica e all’uomo la gestione degli affari e della politica.

L’esclusione delle donne dalla politica non era però condivisa da tutte, soprattutto a livello cantonale, e già nel 1868 un gruppo di donne zurighesi aveva chiesto il diritto di voto. La richiesta fu respinta, ma la volontà di raggiungerlo non venne meno, anzi si propagò lentamente in tutta la Svizzera perché le donne erano discriminate politicamente in tutti i Cantoni.

Nel 1909 le varie organizzazioni favorevoli al diritto di voto delle donne fondarono l’Associazione svizzera per il suffragio femminile (ASSF). Nonostante avesse raggiunto moltissime adesioni e un ampio consenso anche in campo maschile, tutti i primi tentativi d’introdurre nella Costituzione federale (e nelle costituzioni cantonali) il suffragio universale fallirono. Le resistenze soprattutto nei grandi Cantoni erano enormi. Fino al 1960 solo Vaud (1959), Neuchâtel (1959) e Ginevra (1960) avevano concesso il diritto di voto alle donne. Nello stesso decennio seguirono altri tre Cantoni: Basilea Città (1966), Basilea Campagna (1968) e Ticino (1969), ma mancavano ancora i due più popolosi.

Sebbene la questione sembrasse matura per essere sottoposta al voto popolare (trattandosi di una modifica della Costituzione), nel 1968 il Consiglio federale appariva ancora esitante, tanto da apprestarsi a ratificare la «Convenzione europea sui diritti dell’uomo», ma escludendo il suffragio femminile. La reazione delle associazioni femminili fu immediata e pretese che il Governo sottoponesse finalmente al giudizio popolare un progetto di modifica costituzionale in materia di suffragio universale.

Punto di arrivo e base di partenza

La votazione del 7 febbraio 1971 per il diritto di voto e di eleggibilità delle donne in materia federale premiò finalmente la costanza, la determinazione  e la lungimiranza delle donne svizzere che avevano saputo lottare senza mai arrendersi per un loro sacrosanto diritto: i sì furono infatti il 65,7% contro il 34,3% di no.

Se qualche lettore avesse assistito quel giorno alla gioia delle donne per il riconoscimento ottenuto avrebbe potuto pensare che in fondo avevano ben poco da festeggiare, visto che tutti i grandi Paesi vicini avevano ottenuto quel diritto già da tempo, la Germania e l’Austria addirittura da oltre mezzo secolo, la Francia e l’Italia da oltre un quarto di secolo. Eppure le donne svizzere avevano buone ragioni per gioire perché con le loro lotte avevano raggiunto non solo il sospirato obiettivo del diritto di voto in materia federale, ma anche una solida base di partenza per estenderlo a livello cantonale e comunale (come di fatto avvenne negli anni successivi) e per ampliare progressivamente la propria rappresentanza parlamentare.

Partite quasi in sordina con una dozzina di parlamentari alle elezioni dell’autunno 1971, le donne elette al Consiglio nazionale (composto di 200 membri) sono aumentate costantemente (1983: 11 %; 2003: 26 %; 2015: 32 %, 2019: 42%), mentre nel Consiglio degli Stati l’andamento è stato più altalenante (1983: 6,5 %, 2003: 23,9 %; 2015: 15,2 %, 2019: 26%) fino a raggiungere il massimo storico alle ultime elezioni.

Nell’Assemblea federale le donne hanno ricoperto finora tutte le principali cariche (annuali) e sono state anche più volte presidenti del Consiglio nazionale, la carica più alta in Svizzera. Anche nell’esecutivo (Consiglio federale) le donne sono ormai da molti anni ben rappresentate. La situazione si presenta soddisfacente anche nei principali legislativi ed esecutivi cantonali e comunali, per cui non si può non riconoscere che il 7 febbraio 1971 sia una data felice negli annali della democrazia svizzera.

E le donne immigrate?

Alla domanda iniziale qui ripetuta è difficile rispondere perché il contesto in cui si trovavano le donne immigrate, specialmente quelle italiane che nel periodo in esame (1970-1990) ne costituivano la maggioranza, era completamente diverso. Se per le donne svizzere si trattava, per raggiungere il loro scopo, di lottare contro un sistema ben definito che lo ostacolava, per le donne italiane immigrate il sistema da combattere era ben più complesso e limitava l’esercizio di molti dei loro diritti personali e sociali.

Poche donne imparavano una professione tecnica.
Inoltre, se per le donne svizzere erano chiari l’obiettivo da raggiungere e gli strumenti (di lotta, di alleanze e di convinzione) da mettere in campo, per le donne immigrate (sia pure con molte eccezioni) erano opachi tanto gli obiettivi quanto le strategie e i mezzi per raggiungerli, anche perché molte di esse erano ancora alla ricerca della propria identità.

Tradizionalmente i protagonisti dell’emigrazione/immigrazione erano gli uomini e le donne seguivano le loro orme, li accompagnavano e spesso li servivano. Specialmente quando ai compagni o ai mariti si aggiungevano i figli, raramente avevano il tempo per pensare a sé stesse, curare amicizie, studiare, imparare le lingue, apprendere o migliorare una professione, occuparsi di politica, coltivare hobby.

Naturalmente il lavoro delle donne immigrate, in casa e fuori casa, è stato preziosissimo, ma in una prospettiva di carriera professionale, autonomia economica, riuscita sociale o emancipazione culturale, ecc. non appariva, non risultava, non contava se non molto poco. Non sempre se ne rendevano conto esse stesse e, man mano che la loro vita si rinchiudeva nella monotonia quotidiana, nell’incomunicabilità e nella nostalgia, veniva meno la voglia di reagire, di rompere l’isolamento, di crearsi uno spazio proprio.

Solo una minoranza di immigrate riusciva a soddisfare la voglia di partecipare attivamente almeno alla
vita delle numerose associazioni di allora, ma la loro presenza negli organi direttivi - secondo una ricerca degli anni Ottanta - era piuttosto scarsa. Persino nell’organizzazione di sinistra delle Colonie libere italiane non superava il 3 per cento.

Ancora agli inizi degli anni Novanta, partecipare a certe riunioni di vertice di grandi associazioni dava l’impressione di trovarsi in raduni per soli uomini o, come fu riportato in una ricerca pubblicata nel 1992, «si aveva a volte l'impressione di trovarsi in Arabia Saudita o nello Yemen: molte manifestazioni di immigrati assomigliavano sinistramente a un' assise islamica, dove le donne non esistevano, erano escluse o si autoescludevano».

Scarsi riconoscimenti nonostante i meriti

Le donne erano particolarmente attive nel sociale.
Eppure le donne erano già presenti e attive in numerose associazioni ecclesiali, di beneficienza, culturali, formative, rappresentavano la forza trainante di numerosi comitati di genitori dove si affrontavano, spesso insieme agli svizzeri, delicati problemi scolastici e organizzativi, garantivano supporto a congressi, incontri, visite di esponenti venuti dall’Italia per incontrare connazionali o corregionali, ecc. Dimostravano pienamente le loro capacità e il desiderio di partecipare maggiormente, anche con ruoli di responsabilità, alla trasformazione della collettività italiana immigrata. Ciò nonostante non riuscivano ad emergere, le loro idee non era apprezzate, i loro sforzi non erano riconosciuti.

A questo punto, però, alcune domande sorgono davvero spontanee. Perché le donne immigrate non hanno avuto la costanza della lotta delle donne svizzere? Perché l’esperienza migratoria delle donne è stata più gravosa (anche in termini di salute fisica e psichica) di quella degli uomini? Perché le donne immigrate hanno dovuto attendere gli anni Novanta per poter accedere facilmente alla formazione post-obbligatoria e agli apprendistati più prestigiosi?

Gli interrogativi potrebbero essere molti di più e le risposte non possono essere certo facili. Chi ha avuto esperienze più o meno dirette sarà forse più agevolato di altri, ma tutti, credo, potranno essere concordi nel ritenere che almeno un po’ di discriminazione e un bel po’ di pregiudizi nei loro confronti ci siano stati a lungo anche in seno all’immigrazione italiana in Svizzera. Acqua passata? Speriamo!

Giovanni Longu
Berna 3.2.2021